TI SUICIDO per 7 mila euro - In Svizzera puoi mettere fine alla vita con un po' di soldi e un'iniezione. Come Magri e il giudice D'Amico. Parla Erika Preisig, che assiste centinaia di pazienti. Anche italiani - Di TOMMASO CERNO – Panorama
Sono io, Erika, l’ultima persona che vedono. Le cose importanti le fanno prima. Una volta dentro questa stanza, sono calmi e sereni. Ci siamo solo io e la loro decisione. Quella di morire». È una donna minuta, scavata, dallo sguardo impassibile e dal naso aquilino, accento svizzero-tedesco un po’ gutturale, come nei film, quella che ti accoglie nella stanza della morte. La dolce morte. Il suicidio assistito. Un letto, una flebo, una dose di pento-barbital-bisodio 30 volte superiore a quella che si usa per le anestesie operatorie. E appunto lei, Erika Preisig. Infila l’ago nella vena di chi le ha chiesto di morire, poi lo lascia solo. Solo con un piccolo congegno di plastica, che aziona il liquido letale. L’ultimo scalino che divide un uomo dalla propria fine. Trenta secondi, poi dormi. Quattro minuti e si possono firmare i certificati di morte.
In Svizzera è una pratica diffusa. Costa 7 mila euro,pernottamento, colazione e pulizie comprese. Nemmeno un centesimo può essere intascato dal medico. I soldi finiscono tutti all’associazione no profit che si occupa dei suicidi assistiti. Ce ne sono cinque fra Basilea, Berna, Ginevra e Zurigo. E in una di queste, nel piccolo villaggio di Biel-Benken, poco fuori Basilea, c’è Frau Erika, 54 anni, una vita normale. Divorziata, vive con il nuovo compagno (un istruttore di scuola guida) in una villetta in affitto. Madre di tre figli, ha un cane dal quale non si separa mai. Adora cucinare e, come le mamme, alla domenica va a casa dei figli e prepara il pranzo per tutti. E fu qualcosa che ruppe il tran tran quotidiano, sette anni fa a spingerla a dedicare la propria vita a chi sceglieva la morte. Suo padre era malato e depresso. Un giorno uscì di casa senza dire dove andava. Scese verso la ferrovia, a sud del paese. Di lì passa il treno per Zurigo. E così quell’uomo stremato dalla sofferenza decise di buttarsi sui binari e di uccidersi, travolto da quel mostro d’acciaio lanciato a 200 chilometri orari: «Papà saltò sui binari, il treno lo colpì scagliandolo lontano. Non morì e, da quel momento, la vita che aveva voluto finire diventò per lui un supplizio ancora peggiore».
Erika gli prestò assistenza. Poi, giorno dopo giorno, riflesso dentro quell’uomo sofferente scorse un buio. La decisione di farla finita era la stessa di quando saltò contro il treno. E così lo aiutò lei. Medico part-time in un piccolo ambulatorio di campagna prescrisse al padre la dose letale di barbiturici. Qualche sorso, poi il sonno liberatore che in pochi minuti diventò qualcosa di più profondo. Era la morte: «Vedere mio padre addormentarsi dolcemente, e ottenere così la liberazione dalle sofferenze, mi procurò una tale serenità che decisi di mettermi a disposizione di chiunque desiderasse la morte con la stessa intensità con cui l’aveva cercata lui», racconta Frau Preisig.
Da quel giorno ogni lunedì e ogni giovedì, quando è libera dall’ambulatorio, li dedica a quelli come suo padre. Alla Dignitas, un’associazione che si occupa di suicidio assistito, per anni è stata lei a tenere i colloqui con i pazienti. Sempre lei a firmare il nulla osta per il suicidio, che - secondo la prassi elvetica - deve trovare conferma da un secondo medico entro 24 ore. Poi, qualche anno fa, la decisione di fondare una propria associazione: «Con Dignitas non era possibile incontrare il paziente prima dell’arrivo in Svizzera e questo per me non era giusto. Con i pazienti il rapporto era asettico e burocratico e non mi piaceva. Chi desidera porre termine alla propria vita è in uno stato di disperazione e ha il diritto di essere trattato con umanità e calore», spiega. Tanto che, da quando ha fondato la Lifecircle viaggia anche all’estero, incontra le persone che le chiedono l’estrema assistenza, ci parla per giorni, a volte mesi. «Sono cattolica e credo che Dio non voglia per noi una vita così terribile. Per questo cerco di opporre in ogni modo l’istinto di vivere alla loro decisione. Poi, una volta che mi rendo conto che hanno davvero scelto e che il mio aiuto evita che altre persone facciano la fine di mio padre, allora li porto qui, in questa stanza».
Eccola, la stanza della dolce morte. Un monolocale preso in affitto dal fratello al pian terreno di una palazzina. Insieme i Preisig l’hanno ristrutturato e, a guardarlo, somiglia a una camera d’albergo. C’è il letto e c’è un sofà («C’è chi vuole morire seduto»), c’è un tavolo, una piccola cucina a vista con un assortimento di caffè, tè e succhi di frutta, un impianto stereo con una selezione di cd. C’è Vivaldi, c’è Leonard Cohen. È qui che all’ora stabilita entra il paziente, si sistema sul letto o sulla poltrona, lascia che la Preisig infili l’ago e spieghi, ancora una volta, il funzionamento della valvola: «Deve essere il paziente stesso a manovrare la flebo», spiega, «diversamente, si tratterebbe di eutanasia». Prima di aprire il rubinetto, lei rivolge tre domande da protocollo: chiede il nome, la data di nascita e ancora se l’uomo o la donna che stanno per porre fine alla propria vita siano coscienti di quel che accadrà quando la valvola sarà aperta. Poi il via libera: « Quando preferisce». Nella stanza c’è anche il fratello Ruedi che filma la scena. Il video viene mostrato alla polizia, che non può essere presente perché, in quel caso, sarebbe tenuta a impedire il suicidio. Una volta che il farmaco ha fatto effetto, invece, i fratelli Preisig chiamano il procuratore capo di Basilea e il medico legale. E si firmano i documenti che attestano il decesso.
Di qui sono passate centinaia di persone in questi anni. Ed è sempre qui, in questa stanza, che il giudice di Vibo Valentia, Pietro D’Amico, chiese di morire lo scorso 13 aprile. Uno come tanti, per Erika Preisig. Un caso che fece scoppiare la polemica, invece, nell’Italia dove eutanasia e suicidio assistito sono reati, oltre che tabù etici. Tanto che Frau Preisig non aveva mai parlato di Pietro D’Amico e della sua morte: «Quando ha aperto il rubinetto della trasfusione teneva in mano un crocifisso. E mi ha chiesto di mandarlo alla figlia, una volte che lui fosse morto. E poi mi ha detto che quella era una richiesta molto importante per lui. Credo abbia pregato in quegli ultimi istanti», racconta a “l’Espresso”. Quel paziente le è rimasto impresso più di altri. C’è qualche vita che la sfiora, qualcuna che le resta fissata addosso. E D’Amico è uno di questi. Perché i pazienti italiani sono pochi e difficili. «Spesso non dicono nulla ai parenti e agli amici, che non riescono a comprendere la decisione di suicidarsi, di smettere di vivere quando la vita è diventata un peso e un dolore», continua Preisig: «C’era anche un’altra difficoltà, ovvero il fatto che la sua patologia degenerativa fosse invisibile agli strumenti medici. Solo l’autopsia è capace di fissarla su un referto», aggiunge.
Anche con il magistrato la dottoressa Preisig ha discusso a lungo. «Cerco di dissuadere il paziente intenzionato a ricorrere al suicidio assistito, dicendo che la medicina non fa miracoli, ma forse in qualche occasione Dio sì», dice. Alla fine, però, la serenità dei volti la convince di avere fatto bene. Come la coppia di ottantenni che si sono rivolti a lei un paio d’anni fa: «Erano entrambi molto malati, sposati da sessantanni. Volevano morire insieme. Ero in imbarazzo, perché c’era solo un letto singolo. Quando lo dissi, mi risposero che da giovani, a corto di soldi, dormivano in due in un letto così e sarebbe stato bellissimo andarsene nella stessa maniera. Morirono tenendosi per mano», racconta. E ancora la nonnina che Erika non dimenticherà mai. «La madre si era suicidata lanciandosi dalla finestra e per la famiglia era stato un trauma. Quando la figlia, ormai nonna a sua volta, si era resa conto di essere affetta dalla stessa malattia genetica perse il controllo. Poi, un giorno, si è rivolta a me. Le ho detto che avrebbe potuto morire qui, ed è tornata a casa serena. Per i mesi che le sono rimasti è stata una nonna meravigliosa».
Per gli svizzeri, poi, c’è il servizio a domicilio. Con una tassa annuale di 40 euro, i medici forniscono i farmaci a casa. Così, quando è il momento, ti suicidi in tutta solitudine. Il barbiturico, mescolato a un potentissimo sonnifero, si può bere d’un fiato allungato con acqua. Visto dall’Italia, invece, è un altro pianeta. Divisi fra i cattolici che denunciano l’abominio e i sostenitori dell’eutanasia che si indignano perché si deve scappare in Svizzera per morire in pace. Come due anni fa il politico Lucio Magri, cofondatore del “manifesto”. E come D’Amico. In realtà il suicidio assistito esiste anche in altri paesi d’Europa, dal Belgio al Lussemburgo all’Olanda. Così come negli Stati Uniti, dove è legale in Oregon, Montana e a Washington. Eppure solo le cliniche svizzere aprono le porte agli stranieri, forti del record nazionale di suicidi, che hanno ormai superato il 2,2 per cento delle morti totali. Ottenere il via libera non è facile. Solo il 40 per cento delle richieste passa. E anche quel nulla osta per la morte, spesso, ha funzionato da deterrente al suicidio. Sì, perché nel momento in cui molti malati si rendono conto che una strada per smettere di soffrire esiste, beh, ci ripensano: «Il 40 per cento di coloro che hanno ottenuto la luce verde non si sono presentati al suicidio: di molti di loro, ho saputo che la consapevolezza di poter morire quando volevano li aveva attaccati di più alla vita e dato loro il coraggio di continuare ad affrontare la malattia».
Lei c’è sempre. Anche se, nonostante la serenità che trasmette, anche la dottoressa della dolce morte a volte cede all’emozione: «Quando infilo l’ago nella vena del paziente, talvolta la mano mi trema», dice. E così, per far fronte ai momenti in cui i nervi hanno la meglio sulla sua razionalità, c’è sempre un’infermiera allertata, qualche ora prima del suicidio, pronta a intervenire se Frau Erika non se la sentisse. Anche se ormai non le capita più. Anzi, molti dei pazienti vogliono che sia proprio lei. Quella donna dolce cui spesso lasciano l’incombenza di spedire alla famiglia le proprie ceneri. «Qualcuno è solo al mondo, e affida le proprie ceneri a me. Una donna austriaca, morta a gennaio, mi disse che il suo sogno era che le proprie ceneri venissero sparse su un prato di genziane, in riva a un laghetto alpino». Lei le ha custodite fino a oggi: «Adesso arriva la bella stagione, la metterò in uno zaino e andrò a spargere le ceneri in un posto che conosco, perfetto per lei».
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