domenica 23 ottobre 2011


La Corte Europea nega la brevettabilità della vita, di Aldo Vitale ricercatore in filosofia e storia del diritto, 23 ottobre, 2011

«Per curare i nonni, non si possono sacrificare i nipoti», sembra lasciar intendere il noto bioeticista Elio Sgreccia quando su Avvenire, a commento della recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, chiarisce che «il brevetto ottenuto da Oliver Brüstle per le cellule staminali embrionali umane usate per la terapia del Parkison, con la giustificazione che si trattava di parti separate dall’embrione, viene invalidato dalla Corte perché il loro prelievo ha provocato la morte dell’embrione».

La Corte, confermando la nullità del brevetto richiesto in Germania da Brüstle consacra alcuni principi fondamentali. Così, infatti, recita la sentenza (dello scorso 18 ottobre 2011 C-34/10 ) nel suo passo, forse, più decisivo: «Sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un embrione umano dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano». La Corte ha sostanzialmente evitato che si possa oggi ed in futuro commercializzare la vita umana e sfruttarla per finalità lucrative, applicando in modo corretto l’art. 6, n. 2, lettera c della Direttiva del Parlamento Europeo del 1998 n. 98/44/CE che testualmente così recita: «Sono escluse dalla brevettabilità le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario all’ordine pubblico o al buon costume[…] Ai sensi del paragrafo 1, sono considerati non brevettabili in particolare: a) i procedimenti di clonazione di esseri umani; b) i procedimenti di modificazione dell’identità genetica germinale dell’essere umano; c) le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali».

Se per un verso la Corte ha rimesso ai singoli legislatori nazionali la definizione completa ed esaustiva del concetto di embrione, dall’altro ha ribadito, in linea con le più autentiche risultanze biologiche, che l’essere umano è specificato nel suo inizio al momento della fecondazione; del resto, come spiegano i genetisti privi di finalità ideologiche ed antiscientifiche, è in quel momento che geneticamente si forma un soggetto terzo che eredita il patrimonio genetico dei suoi genitori, ma che all’un tempo è diverso da essi. La presente sentenza oltre a erigere un significativo argine giurisprudenziale nei confronti di una forma di scienza tesa allo sfruttamento economico-industriale delle proprie scoperte perfino nell’ambito più vicino all’uomo, potrebbe sancire un cambio di rotta nell’ermeneutica giuridica delle corti europee sul valore intangibile della vita umana, ovvero sulla sua ontologia che la contraddistingue quale bene giuridicamente indisponibile per le parti, per la legge e per qualunque altra istanza umana.

Se, infatti, l’uomo e la sua dignità sono riconosciuti tali fin dal proprio concepimento, sarà necessaria una non più postergabile rilettura del fenomeno abortivo, soprattutto per quello che maggiormente suscita problemi sotto l’aspetto bio-giuridico, cioè quello legittimato da motivi sociali ed economici. Ciò nonostante s’impone ovviamente come doverosa la puntualizzazione proposta da Francesco D’Agostino su Avvenire, allorquando, avverte che «nessun bioeticista deve essere così ingenuo da ritenere che una sentenza possa avvalorare definitivamente la vita umana (come in questo caso) o toglierle definitivamente valore (come è pur successo – ahimé – in altri casi). Una sentenza come questa costituisce però un ottimo esempio di ciò che Papa Benedetto, nel recente discorso al Reichstag di Berlino, ha qualificato come «ecologia umana»: una difesa dell’uomo fondata non su assunzioni ideologiche e politiche, ma su una seria e onesta riflessione su dati antropologici incontrovertibili».

In conclusione può affermarsi che una simile pronuncia altro non sia che un piccolo passo per la giurisprudenza, ma un balzo da gigante per il riconoscimento della dignità umana dell’embrione.

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