mercoledì 24 aprile 2013
19 aprile 2013 - “È un bambino?” Gli operatori sanitari delle cliniche abortive rispondono - http://www.prolifenews.it/
Nelle cliniche abortive, i consulenti hanno a che fare con donne che di punto in bianco chiedono: “Abortire è uccidere il mio bambino?”. Molti degli ex operatori delle cliniche abortive affermano che la risposta più frequente è: “no!”
Carol Everett, ex proprietaria di due cliniche abortive ed ex amministratrice di quattro ha detto che:
“Ogni donna presenta le stesse due domande: In primo luogo: ‘E’ un bambino? ‘ ‘ No ‘ il consulente le assicura. ‘Si tratta di un prodotto del concepimento (o di un coagulo di sangue, o un pezzo di tessuto), anche se i consulenti ogni giorno vedono bambini di sei settimane con braccia, gambe e d occhi che si chiudono come cuccioli appena nati, mentono alle donne. Quante donne abortirebbero se venisse a loro detto la verità?”
Un’altra donna, Linda Couri, che ha lavorato a Planned Parenthood, ha descritto come reagì quando un adolescente pensando all’aborto le chiese: “Se ho un aborto, sto uccidendo il mio bambino?”
Couri rispose:
“Uccidere’ è una parola forte, lo è anche la parola ‘bambino. Stai ponendo fine al prodotto del concepimento.”
Ma Couri rimase ossessionata dalla domanda della ragazza e agitata per la sua risposta. Cominciò a chiedersi se procurare aborti fosse davvero morale. Si ricorda che chiese al suo supervisore se avesse fatto la cosa giusta. Il supervisore non negò che l’aborto fosse l’uccisione di un bambino, ma le disse che nel caso di un adolescente, l’aborto era un “male necessario”. Colpita dall’uso della parola “male”, Couri continuò a mettere in discussione il suo ruolo all’interno della clinica. Alla fine, lasciò la clinica, ora dà la sua testimonianza a favore della vita.
Peg Johnston, che lavora in una clinica per aborti a New York, ha raccontato come si era occupata di molte donne che sostenevano di aver ucciso il loro bambino, in un articolo del 2005 disse:
in un primo momento quando le donne le chiedevano se stessero uccidendo un bambino pensava che stessero ripetendo parole sentite dai pro-life o dai consulenti. Ma più parlava con queste donne più si rendeva conto che:
“Queste non ripetevano un messaggio antiabortista ma riconoscevano che si trattava di roba seria – come si può volere un bambino e non un altro?”
Nell’articolo “Alla ricerca di nuove parole: Ridefinire il dibattito sull’aborto,” Johnston parla di questo in modo esaustivo:
“Andavo fuori ad urlargli contro (manifestanti pro-vita). Poi tornavo dentro ad ascoltare una donna. Spesso le parole erano le stesse. I pro-life dicevano ‘stai uccidendo il tuo bambino’ e le donne che ascoltavo mi dicevano ‘ho ucciso il mio bambino’. Pensavo fosse solo un eco di quello che avevano sentito. Per un tempo correggevo le parole che usavano.”
“La parola ‘uccisione’ era molto dura. E ‘stato così difficile vedere donne che si sentivano colpevoli e in difficoltà “, prosegue Johnston, che ha gestito la clinica dal 1981. ” E successivamente arrivavamo a parlare della differenza tra l’omicidio e l’uccisione. Ora la nostra reazione è più: bene, pensi che l’hai ucciso, come vuoi fare pace con questo?”
Johnston capì che molte donne sospettavano che avere un aborto fosse uccidere un bambino. Sembra che quando non riusciva a ingannare direttamente una donna, usava la semantica per separare il concetto di “assassinio” da “uccisione”.
Sul blog “Testimonianze sull’aborto” in un post dal titolo “A proposito dei bambini: dire le cose che non si possono dire,” un lavoratore clinico illustra una situazione simile descrivendo una conversazione con un paziente.
“Lei ha scritto nel grafico che ti senti in colpa.” Dico al paziente a cui sto facendo lo screening. “Mi puoi dire di più su questo? Perché ti senti in colpa? ”
“Mi sento in colpa perché sto uccidendo il mio bambino“, risponde. “Ecco perché mi sento in colpa.”
La prima volta che un paziente mi disse questo, ero completamente impreparato. Anche se ero una attivista pro-choice, un dottorato di ricerca che aveva studiato la teoria femminista, e io stessa avevo abortito, niente nella mia esperienza mi aveva preparato a parlare con una donna di uccidere bambini. “Oh no” le dissi nel modo più delicato possibile. “Non è un bambino, è solo tessuto.”
Ma l’operatore sanitario in seguito arrivò a sentire che la sua risposta era sbagliata.
Raccontò come gli attivisti pro-choice avessero problemi nell’usare parole come “bambino” per riferirsi al bambino che viene ucciso nell’aborto e disse:
“Sappiamo tutti che un bambino non ancora nato muore in ogni aborto. E la maggioranza degli operatori sanitari si assumono la responsabilità del nostro ruolo su queste morti. Abbiamo, per vari motivi, stabilito per noi stessi che avere un ruolo in queste morti è una importante ed etica questione da affrontare.”
Il blogger descrive come una donna abortista che aspettava un bambino da 18 settimane stava procurando un aborto ad un’altra donna incinta da 18 settimane e sentiva il bambino nel suo grembo calciare proprio mentre tirava la gamba del bambino appena ucciso. Il blogger scrive:
“ Si potrebbe iniziare queste oneste conversazioni chiedendo che differenza c’è tra i due bambini di 18 settimane? La risposta breve – e allo stesso tempo incredibilmente semplice e molto complicato – è che il feto che si muove nel grembo del medico / madre è portato da qualcuno che ha scelto di continuare la sua gravidanza e far nascere il bambino, e l’altro bambino non ancora nato è portato da qualcuno che, per motivi che possiamo o non possiamo capire, ha deciso che non è possibile completare la sua gravidanza. In altre parole, la vita o la morte del bambino non ancora nato è determinata dalla decisione della madre sul fatto che vuole condividere il suo corpo con un altro essere.”
Il blogger ammette che “la distinzione potrebbe non soddisfare molti”, ma ribadisce che è morale uccidere un feto se la madre non lo vuole. Continua a dire:
… Non dovremmo mai negare che l’aborto uccide un bambino non ancora nato. Quando l’argomento si avvicina, un semplice “sì, lo so – e lo sanno anche le donne che abortiscono” spesso è sufficiente. Diversi anni fa, il direttore della clinica dove ho lavorato era su un talk show radiofonico sull’aborto nel secondo trimestre. Un chiamante ha detto, “Non puoi dirmi che non è un bambino. E non puoi dirmi che il bambino non morirà! “Sì, disse con calma, è un bambino e sì, viene ucciso. Le donne lo sanno, e hanno aborti comunque. Questo è esattamente il motivo per cui l’aborto è complicato, come molte delle sfide della vita. Dobbiamo ricordare, però, che complicato non significa necessariamente sbagliato.
L’operatore suggerisce che la risposta adeguata ad una donna che in una clinica abortiva dice “Mi sento come se sto uccidendo il mio bambino” è qualcosa di simile:
“Ok. Parliamo di come pensi di sopportare l’idea di aver ucciso il tuo bambino. Cosa credi che ci accade quando si muore? “Da questo punto in poi possiamo avere una onesta conversazione sulla sua decisione di abortire in base alle sue personali credenze, religione ed etica.”
Il blogger poi conclude il suo messaggio dicendo:
“Le donne hanno sempre saputo che la gravidanza significa avere un bambino e l’aborto significa che il bambino morirà. Quando le donne si preoccupano abbastanza della vita dei loro figli, nati o non nati- e sul ruolo che richiede quella presa di decisione dobbiamo rispettarle e sostenerle questo è ciò che l’onestà comporta.”
Questa onestà sta diventando sempre più comune. Un certo numero di articoli di Live Action hanno documentato che sia gli attivisti pro-choice e abortisti ammettono che l’aborto sia un omicidio. Per quanto orribile sia immaginare, che un operatore sanitario dica ad una donna che sì l’aborto uccide il suo bambino, ma che in ogni caso lei lo dovrebbe fare, forse i pro-vita possono trarre conforto nel fatto che anche molti pro-aborto cominciano a rifiutare eufemismi e parlare di aborto come ciò che realmente è – l’uccisione di un bambino innocente non ancora nato. La loro onestà non lascia dubbi su ciò che è in gioco nel dibattito sull’aborto.
traduzione a cura di Carmen Fiore
Clicca qui per leggere l’articolo originale pubblicato da Life News in lingua inglese
Fonte: Life News
Adozioni gay, la Francia ci precede di Gianfranco Amato - 24-04-2013 - http://www.lanuovabq.it/
Da ieri 23 aprile 2013 con il riconoscimento del matrimonio gay in Francia viene altresì legalizzata la possibilità di adozione da parte delle coppie omosessuali.
Questo epilogo appariva ormai quasi ineluttabile agli occhi attenti di un osservatore. Da tempo, infatti, tutto pareva convergere in quel senso, grazie soprattutto ad una sapiente ed efficace propaganda mass-mediatica che ha avuto facile gioco nel condizionare l’opinione pubblica.
Qualcuno ricorderà, ad esempio, l’enfasi data dalla stampa internazionale alla notizia che il primo bebè francese nato nel 2013, il piccolo Sacha, era figlio di due “mamme”, Maud e Delphine, una coppia di conviventi omosessuali. Sacha è potuto nascere grazie al procedimento di fecondazione artificiale effettuato in Belgio, dove è legalmente consentito anche per le coppie dello stesso sesso, perché allora in Francia era vietato. Il vero padre biologico è stato selezionato dai medici tra i donatori anonimi. Il fatto che il primo nato del nuovo anno in Francia fosse figlio di una coppia gay venne evidenziato come evidente espressione dello Zeitgeist, il segno dei nuovi tempi che ci aspettano. E, infatti, poco più di tre mesi dopo il Parlamento francese si è tranquillamente adeguato a quello spirito. Le varie Maud e Delphine di Francia non dovranno più recarsi all’estero per coronare i propri desideri di maternità.
Chi ancora si ostinasse a relegare la questione come una bizzarria d’oltralpe – nell’illusione che tali fenomeni ancora non tocchino casa nostra –, è presto servito. Più o meno nello stesso periodo in cui nasceva il piccolo Sacha, infatti, è stata data la notizia che la clinica ostetrica dell’Ospedale di Padova ha deciso di adottare una politica “gay-friendly” mutando la procedura di riconoscimento dei neonati. Come prassi dopo il parto, al polso del bebè viene normalmente legato un braccialetto con un numero identificativo, che è poi stampato anche in altri due braccialetti consegnati rispettivamente a ciascuno dei genitori con la scritta “madre” e “padre”. Non ci sono stati problemi fino a quando non ha partorito una donna omosessuale che come “padre” del proprio neonato ha indicato la compagna; quest’ultima, però, si è rifiutata di indossare il braccialetto che la indicava con quell’espressione. Pronta ed immediata la disponibilità della Direzione Sanitaria a sostituire la parola “padre” con “partner”.
Chiare le parole del Primario Dott. Giovanni Battista Nardelli: «Ormai non si può più ragionare in modo tradizionale, abbiamo preso questa decisione per non offendere la sensibilità di nessuno». La coincidenza temporale dei due episodi sembrerebbe dar ragione sul serio a chi invoca il nuovo Zeitgeist. Dobbiamo davvero rassegnarci al prolificare di queste nuove “famiglie” in cui vengono artificialmente inseriti poveri orfani di padri sconosciuti? Dobbiamo proprio arrenderci al fatto che l’ideologia prevalga rispetto alla scienza? Nonostante tutto, infatti, la psicologia dell’età evolutiva insiste nell’evidenziare quanto sia fondamentale per i bambini possedere una doppia figura genitoriale sessualmente differenziata, maschile e femminile. Nelle unioni omosessuali il mutuo completamento coniugale viene negato e non è sufficiente parlare di “amore” per capire esattamente a cosa ci si riferisce, a meno che non si voglia scadere al linguaggio dei mediocri rotocalchi rosa. Consentire, come è accaduto a Moulins e a Padova, la fecondazione artificiale a coppie di lesbiche significa autorizzare irresponsabilmente un esperimento sociale di estrema pericolosità, nel quale bimbi venuti artificialmente al mondo sono ridotti a mere cavie.
Non è eticamente lecito ammettere la procreazione artificiale di figli all’interno di una coppia di donne omosessuali, privandoli deliberatamente dell’esperienza della paternità ed introducendoli in un ambiente sociale che, proprio per l’assenza della bipolarità sessuale, non favorisce il loro pieno sviluppo umano.
Ed è pure giuridicamente discutibile alla luce del principio, riconosciuto anche dalla Convenzione dell'ONU sui diritti del fanciullo, secondo il quale l’interesse superiore da tutelare in ogni caso è quello del bambino, la parte più debole e indifesa. Quel documento internazionale proclama, infatti, che «in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente» (art.3). Quel documento, inoltre, riconosce «il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale» (art. 27). E ancora quel documento sancisce che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità quella di «di favorire lo sviluppo della sua personalità nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità» (art.29). C’è di che meditare.
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La verità sulle Case Magdalene, altro che Peter Mullan! - 23 aprile, 2013 - http://www.uccronline.it/
Nel 2002 è uscito nelle sale cinematografiche il film Magdalene, scritto e diretto dal leader marxista Peter Mullan, vincitore del Leone d’oro.
La pellicola intende denunciare i presunti soprusi subiti da ragazze delinquenti o prostitute accolte nelle Case Magdalene nel’800-900, gestite da religiose cattoliche, per essere rieducate secondo i metodi d’uso allora attraverso il lavoro manuale come lavandaie (da qui il nome di Magdalene Laundries). E’ stata l’occasione per l’ennesimo attacco alla Chiesa cattolica, ovviamente organizzato in modo ideologico attraverso lo snaturamento dei fatti, la generalizzazione e le falsità.
D’obbligo, per il regista marxista Mullan, la sua premura a definirsi “cattolico” per evitare qualsiasi ombra di sospetto, ma a cui nessuno ha ovviamente creduto. La sua inattendibilità è emersa chiaramente quando ha affermato: «sentivo il bisogno di pormi domande sulla natura dell’oppressione di una Chiesa che non differisce troppo dai talebani, che istiga alla crudeltà anziché alla compassione, trascinando la società in una spirale di follia collettiva. Mi aspetto polemiche in Irlanda perché la ferita è ancora troppo aperta e in Italia perché c’è il Papa. Ma la Chiesa, se vuol sopravvivere, deve riconoscere le sue colpe».
Mullan parla di fantomatiche “colpe della Chiesa”, ma -come ha spiegato il laico Brendan O’Neill su The Telegraph- il McAleese Report avviato per analizzare i fatti, non ha individuato neanche un caso di abuso sessuale da parte delle suore, ma soltanto alcuni casi circoscritti di punizioni corporali, sulla linea della prassi nelle scuole anglosassoni degli anni ’60-’80.
Ad affrontare tutta la questione ci ha pensato Francesco Agnoli nel libro “Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte” (Cantagalli 2011). Abbiamo riportato la sua chiarificatrice analisi storica in un dossier UCCR specifico:
Alzi la mano chi non ha letto che violenza e pedofilia erano “endemici” nelle istituzioni religiose d’Irlanda tra gli anni Trenta e Novanta del Novecento. Chi non ha visto il film Magdalene, subito premiato, naturalmente, al festival di Venezia, e non si è sentito civilissimo, bravissimo, illuminatissimo, nello stigmatizzare le malvagità di preti e suore.
Chi non ha sentito spiegare che per forza, quelli là fanno professione di castità, vivono contro natura, e poi fanno sesso coi ragazzini, o li picchiano per sfogare le loro frustrazioni. Santa indignazione, unita alla consapevolezza di una superiorità morale! Unita ad una certa goduria in moltissimi Catoni odierni che fiondano giudizi definitivi, categorici, conclusivi. Non tanto sui peccati, come sarebbe anche giusto, ma sui peccatori. Non sui peccatori, come singoli, come esempi della fallibilità umana e della nostra miseria, bisognosa sempre di perdono e di salvezza, ma come emblemi e simboli di una categoria, quella sì, tutta intera, condannabile e colpevole: quella dei sacerdoti, dei religiosi, dei seguaci di Cristo, in generale.
INDICE
1. Cos’erano le Case Magdalene irlandesi?
2. Come nascono le Case Magdalene irlandesi?
3. Il rapporto Ryan (2009) e le accuse
4. Le punizioni corporali e la loro diffusione
5. Ideologia anticattolica, generalizzazioni e calunnie
1. COS’ERANO LE CASE MAGDALENE IRLANDESI?
La realtà sfugge alle semplificazioni ideologiche, alle strumentalizzazioni, alle generalizzazioni, ai “razzismi” ed alle indignazioni a senso unico, in cui l’obiettivo è deciso a priori, per odio ideologico. Anzitutto, per giudicare con un po’ di conoscenza, non sull’onda dell’emotività scatenata da denunce, amplificazioni giornalistiche o da film come Magdalene, ma con un minimo di volontà di inquadrare i fatti nella storia, occorre ricordare, con Vittorio Messori, che le industrial schools, i riformatori e i Magdalen’ s Institutes, irlandesi, “prima ancora che case religiose, erano «Riformatorî giudiziari», «Case di correzione minorile», in diretto collegamento con il ministero della Giustizia e la magistratura della Repubblica d’Irlanda. La gestione, affidata a congregazioni religiose (avviene tuttora anche in Italia, dove le suore sono ancora presenti nelle carceri femminili e in molti altri, civilissimi, Paesi del mondo), era sottoposta al controllo degli ispettori dello Stato, che esigeva dalle suore rigorosa sorveglianza e disciplina sulle ospiti e teneva le monache responsabili in caso di fuga o rivolta” (Corriere, 14/9/2002).
Case di correzione, soprattutto minorile: nei riformatori finivano i giovani condannati per reati penali; nelle Industrial School, le workhouse irlandesi, i figli rifiutati, abbandonati, orfani, non criminali ma potenzialmente tali; nelle Magdalene ragazze povere, respinte dalle stesse famiglie, prostitute o a rischio di cadere nella prostituzione…persone insomma, assai problematiche. Come alternativa alla strada, alla delinquenza, alla disperazione, alla galera, dunque.
2. COME NASCONO LE CASE MAGDALENE IRLANDESI?
Come erano nate queste case con un fine simile tra loro, sebbene diverse? Le case di correzione, divenute presto case di lavoro (workhouses), nascono nell’Europa del XVI secolo, dopo la Riforma, nel mondo protestante e calvinista. Il medioevo aveva guardato alla povertà con profondo rispetto, insistendo sulla povertà di Cristo stesso. Tale elogio della povertà era anche degenerato, talora, in pauperismo. In seguito alla Riforma, alla diffusione della mentalità calvinista, che lega predestinazione e ricchezza, salvezza eterna e successo materiale, la povertà diviene invece sempre di più una maledizione, una colpa, un reato contro l’ordine pubblico. Che le città, gli stati puniscono duramente. Anche Lutero, l’ideologo dei principi tedeschi nella lotta contro i contadini, nella prefazione al Liber vagatorum, rappresenta i vagabondi come alleati, familiari del diavolo.
Poveri, delinquenti, vagabondi, orfani ecc., divengono oggetto di repressione anche per l’affermarsi della mentalità borghese e capitalista. Da questo momento in poi, hanno scritto E. Gallo e V. Ruggiero, ne “Il carcere in Europa” (Bertani, 1983), “gli stracci del diseredato non simboleggiano più le piaghe di Cristo, ma il marchio dell’accidia”. E’ l’Inghilterra anglicana e secolarizzata ad aprire le danze: i beni della Chiesa vengono sequestrati, migliaia di poveri che vivevano grazie ad essi rimangono senza sussidi ed aiuti, perché la Corona incamera tutto ciò che può e rivende a ricchi e mercanti. Così Enrico VIII emette l’editto contro il vagabondaggio, col quale vengono impiccati 75.000 vagabondi. Dopo Enrico le cose, se possibile, peggiorano: per i mendicanti sono previsti la gogna, la fustigazione, il marchio di ferro rovente, il taglio degli orecchi; con Edoardo VI la riduzione in schiavitù, con Elisabetta la morte.
E’ proprio Elisabetta I, la feroce nemica dei cattolici, a istituire nel 1576 le “Houses of correction”, imitata a breve da altri paesi protestanti, in Germania, in Svizzera, in Olanda. Nelle case, che hanno una funzione di rieducazione attraverso il lavoro, sono previste sanzioni rigide, corporali, fustigazioni, bastonate sulla schiena. Del resto si tratta di luoghi che assomigliano un po’ a case di recupero, un po’ a prigioni: una sorta di via di mezzo, insomma, in cui è prevista la durezza delle prigione, ma anche, talora, il tentativo di redimere in qualche modo gli internati. Sono gli anni in cui in Inghilterra i reati contro la proprietà crescono ogni giorno, insieme alle pene. La classe dirigente borghese e nobiliare, lanciata sempre più verso la privatizzazione delle terre, con relativo sfratto dei piccoli contadini, e l’industrializzazione, piega il mondo alla sua visione. I bambini orfani, poveri, finiscono spesso sfruttati sin dai quattro anni di età: lavorano duramente, ore e ore al giorno. Solo nel 1834 per la prima volta il Parlamento inglese vieta il lavoro ai bambini sotto i 9 anni, ma senza grossi risultati. Questa è l’atmosfera del tempo nel paese della rivoluzione industriale. Nelle workhouses la commistione tra poveri, delinquenti, vagabondi e bambini, espone quest’ultimi al rischio di abusi di ogni tipo, anche sessuali.
Si annuncia piano piano l’Ottocento, il secolo nero delle donne e dei bambini, triturati nelle miniere, nelle fabbriche, nella workhouses. “Persino i vecchi e gli ammalati”, scrive il Trevelayn, nella sua “Storia d’Inghilterra”, quando non avevano tetto, finivano nelle workhouses, “trattati con la stessa durezza che se vi fossero entrati per loro colpa”. Di queste istituzioni parla con toni durissimi Karl Marx; vi fa riferimento Dickens, nel suo “Oliver Twist”, storia di un bambino orfano maltrattato e sfruttato in una di queste strutture; anche John Ruskin nel suo “La lampada della memoria”, ci dà notizie non lusinghiere su questi luoghi. Non pochi storici parlano di una vera e propria mentalità schiavista, a danno delle classi meno abbienti, e dei diseredati, difesa e sostenuta dal potere e da molti intellettuali. Del resto tutto va calato nei tempi, e se l’Ottocento ha visto di tutto, in nome del progresso e dell’arricchimento, il Novecento vedrà altri luoghi di correzione “attraverso il lavoro”, ben peggiori: il lager, i gulag, i laogai…
Dall’Inghilterra anglicana e secolarizzata, si diceva, le workhouse si diffondono anche altrove. Soprattutto nei paesi protestanti e nordici: Germania, Svizzera, Scandinavia…In Olanda nel 1596 viene inaugurata ad Amsterdam la Rasp-huis, casa di lavoro per la dilagante corruzione giovanile. Qui mendicanti, giovani malfattori, ladri e vagabondi vengono sottomessi al lavoro forzato: in condizioni dure, certamente, ma con la possibilità di sopravvivere, e come pena intermedia tra la semplice multa o la pena di morte. La rigidità del calvinismo, e della mentalità borghese olandese, non permette certo uno sguardo molto attento e positivo, sui poveri e gli emarginati. Diversa è la condizione in Italia, dove la mentalità cattolica fa sì che i luoghi di rieducazione siano meno improntati al lavoro forzato, alla produttività, e di più alla rieducazione vera e propria. Sorgono dovunque ordini religiosi dediti alla creazione di scuole ed ospedali. Non sono neppure paragonabili le workhouses anglosassoni o olandesi, alle istituzioni italiane, di solito proprio perché dietro queste ultime vi è, prima del profitto o della necessità di tutelare l’ordine sociale, la carità cristiana. Le vicende di Don Pavoni, di Don Bosco, di santa Maddalena di Canossa, della Contessa di Barolo, di santa Tersa Verzeri, tutti fondatori di scuole, e di luoghi per l’assistenza di poveri, orfani, piccoli lavoratori, ci dicono proprio che di fronte alla emergenza povertà e delinquenza, propria dell’Ottocento, il cattolicesimo rende più miti le pene e non vede nel lavoro coatto il principale strumento di redenzione per i corrigendi, né, nella loro produttività, il rimedio alla loro inutilità. Il desiderio di cercare il loro ravvedimento è superiore alla volontà di renderli produttivi. Lo si sa, e spesso gli accusatori del cattolicesimo, elogiano il rigido calvinismo nordico, deprecando l’improduttivo assistenzialismo cattolico. Del resto non sarà l’inglese, ateo, darwiniano, vittoriano, Francis Galton, il cugino di Darwin, a proporre la sterilizzazione dei poveri, perché non vi siano più poveri, e quella dei delinquenti, degli alcolizzati, dei miseri, perché non vi siano più delinquenti? Avesse diretto una workhouse, sarebbe stato molto tenero…
3. IL RAPPORTO RYAN (2009) E LE ACCUSE
Se torniamo all’Irlanda cattolica, le case di correzione ottocentesche vi nascono sul modello inglese e scozzese. Non dimentichiamo che l’Irlanda giace sotto la Corona inglese; che vive un periodo drammatico, di povertà spaventosa, di carestia e quindi, anche, di forte delinquenza e devianza, che durerà a lungo. “I quartieri poveri di Dublino”, scrive Engels, “sono dal canto loro quanto di più orrendo e ripugnante possa vedersi al mondo”. Povertà, prostituzione, sfruttamento minorile, sono normali, qui come in Inghilterra, o ancora di più. E’ in questo contesto che occorre collocare i riformatori, le industrial School e le Case di Maddalena irlandesi: in una società pericolosa, difficile, dura. In queste case, di solito dello Stato, lavora personale religioso, cattolico o protestante: quello giudicato più adatto, anzitutto dal popolo, a fare il possibile per rendere le case non vere e proprie prigioni, ma qualcosa di diverso. Ma proprio la natura di questi luoghi e la natura degli ospiti, ci può far capire quanto possa essere stato difficile viverci, non solo per i reclusi, ma anche per le suore e i religiosi, chiamati a fare i secondini. Ve ne furono di indegni? Di impreparati? Ve ne furono di quelli/e che abusarono, che vennero meno alla carità cristiana, che si macchiarono di colpe orrende? Senza dubbio, purtroppo. Come in tutte le prigioni, come in tutti gli Educandati laici, statali, come in tutti i riformatori del mondo e di ogni tempo. Anzi, io credo di meno.
Il rapporto Ryan del 2009, molto duro nei confronti della Chiesa, non dimentica di accennare, sebbene brevemente, anche alla “filantropia religiosa”, alle opere nate da “volontary contributions and, often, volontary labour”. Lo stesso rapporto denuncia, su 25.000 allievi di collegi, riformatori e orfanatrofi nel periodo che esamina, “253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi” (“Preti pedofili, un panico morale“ di Massimo Introvigne). Gli abusi sessuali, denuncia il rapporto, erano endemici “nelle istituzioni per ragazzi”, sebbene sia impossibile determinare l’estensione del fenomeno e distinguere tra “toccamenti” e violenze: si trattò cioè di rapporti omosessuali, tra impiegati, inservienti, talora sacerdoti, talora laici, e ragazzi. Per lo più furono casi di efebofilia omosessuale (cioè di rapporti tra adulti e adolescenti), che papa Benedetto XVI ha condannato con estrema forza e durezza in quanto azioni abominevoli.
Ha scritto il papa, rivolgendosi alle vittime, nella sua “Lettera ai cattolici dell’Irlanda”: “Avete sofferto tremendamente e io ne sono veramente dispiaciuto. So che nulla può cancellare il male che avete sopportato. È stata tradita la vostra fiducia, e la vostra dignità è stata violata. Molti di voi hanno sperimentato che, quando eravate sufficientemente coraggiosi per parlare di quanto vi era accaduto, nessuno vi ascoltava. Quelli di voi che hanno subito abusi nei convitti devono aver percepito che non vi era modo di fuggire dalle vostre sofferenze. È comprensibile che voi troviate difficile perdonare o essere riconciliati con la Chiesa. A suo nome esprimo apertamente la vergogna e il rimorso che tutti proviamo. Allo stesso tempo vi chiedo di non perdere la speranza. È nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo, egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire…”. E ai carnefici: “Avete tradito la fiducia riposta in voi da giovani innocenti e dai loro genitori. Dovete rispondere di ciò davanti a Dio onnipotente, come pure davanti a tribunali debitamente costituiti. Avete perso la stima della gente dell’Irlanda e rovesciato vergogna e disonore sui vostri confratelli. Quelli di voi che siete sacerdoti avete violato la santità del sacramento dell’Ordine Sacro, in cui Cristo si rende presente in noi e nelle nostre azioni. Insieme al danno immenso causato alle vittime, un grande danno è stato perpetrato alla Chiesa e alla pubblica percezione del sacerdozio e della vita religiosa”.
Nelle scuole per donne, invece, gli abusi erano rari, non solo, ma avvenivano per lo più ad opera di “impiegati o visitatori o quando le ragazze erano in posti esterni” agli istituti. Aggiunge il rapporto che l’abuso sessuale sulle ragazze da parte di laici fu generalmente preso sul serio dalle suore e il personale laico fu dimissionato, quando venne scoperto colpevole. Inoltre “le ragazze che subirono abuso riportarono che ciò accadeva soprattutto quando venivano mandate da famiglie ospiti per il weekend, per lavoro o per ferie” (rapporto Ryan, Conclusions, 6.18, 6.19, 6.28). E sebbene aggiunga che spesso le suore non credevano alla storie raccontate dalle ragazze, si deduce quello che doveva essere intuibile: che nell’Irlanda ridotta alla fame e abbruttita dalla miseria di allora, le violenze fisiche sulle donne erano più facili fuori, che dentro le strutture protette!
4. LE PUNIZIONI CORPORALI E LA LORO DIFFUSIONE
Quello su cui si sofferma di più il rapporto Ryan, in verità, è il ricorso a punizioni corporali, a volte dure e violente. Valutiamo l’accusa, non per sminuirla, ma per comprenderla: che ex internati in case-carceri denuncino di non essersi trovati poi benissimo, lo possiamo immaginare. Una donna italiana, allevata in un educandato statale italiano, recentemente affermava di aver vissuto “come in prigione”, e di aver visto brutture e drammi terribili, come il suicidio di un’amica, che “aveva molti problemi in famiglia e non riusciva a parlarne” (La Voce della Campania, ottobre 2002). Forse, di fronte a tali denunce dovremmo anzitutto chiederci: quanto esse sono “inevitabili”? Inoltre sono tutte “vere”? Quanto considerano che la durezza del luogo in cui si trovavano non doveva essere tanto peggiore, anzi!, da quello che avrebbero vissuto fuori, sulla strada, tra prostituzione, miseria e criminalità? Quanto le accuse tengono conto della difficoltà del compito affidato agli educatori stessi, costretti a fare in qualche modo i secondini per tutta la vita? Quanto vengono, talvolta, enfatizzate? Tanto più se come è successo in Irlanda, dietro la denuncia di abusi e violenze subite, vi era la possibilità offerta dal governo nel 2002 di ottenere dei risarcimenti in denaro. Tanto più se chiedere questi risarcimenti poteva giovare a chi non viveva certamente condizioni agiate.
Ricordava alcuni anni fa Andrea Galli: “Lo Stato (Irlandese), che deve ancora finire di pagare tutti, si calcola che alla fine avrà di gran lunga superato il miliardo di euro negli esborsi. Immancabili gli “inciuci” del sistema. Pochi giorni fa è nata una polemica quando si è saputo che il Redress Board ha versato 83,5 milioni di euro agli studi legali che avevano assistito i denuncianti, alcuni dei quali messisi dal 2002 in cerca di ex alunni delle industrial schools finiti anche in Nuova Zelanda, Canada o Stati Uniti, per far conoscere loro l’interessante proposta statale” (Avvenire, 12/8/2007). In secondo luogo, anche riconoscendo l’esistenza di abusi e violenze, odiosi e deprecabili, si può fingere che la cosa riguardi solo i luoghi gestiti da religiosi cattolici, come si sta facendo? E gli stessi istituti retti da protestanti? E la sorveglianza dello Stato? Cosa avrebbe garantito, lo Stato irlandese di allora, per orfani, diseredati, prostitute, minori condannati ecc., senza l’aiuto di volontari religiosi? Si può, ancora, fingere che tutte le suore e tutti i religiosi siano stati approfittatori, sadici e delinquenti, come avviene per esempio nel film Magdalene?
Quanto alle punizioni corporali anche qui sarebbe opportuno, distinguere, cercare di capire, non fare di tutta l’erba un fascio. Immaginare ad esempio quale logorio rappresenti fare ogni giorno il guardiano, il secondino, magari con tutto l’amore possibile, tentativamente, ma anche con tutta la miseria che ci portiamo addosso? Non sarebbe difficile capirlo, se solo si volesse. Se non vi fosse nella nostra cultura quell’odioso pregiudizio illuminista che ci porta a guardare sempre tutto con aria di sopracciò, e di superiorità. Ricordo quando insegnavo in una scuola professionale e avevamo di questi ragazzi, figli della prostituzione, talora senza genitori o con altri drammi alle spalle: vivevano in case laiche, gestite da laici, con soldi statali ed impiegati statali. Un giorno una di queste ragazze, a 14 o 15 anni, estrasse una lametta e tagliò tutto il braccio di una professoressa. Non era una ragazza facile: chi la accudiva tutti i giorni, talora avrà perso la pazienza, ne sono certo. Talora avrà urlato, o alzato le mani.. Senza essere un mostro. Non era un mostro neppure Vincenzo Muccioli, che ha dato la sua vita per salvare migliaia di drogati dal degrado più nero. Eppure quanti hanno voluto dipingere san Patrignano, per motivi ideologici, come un lager, come una prigione, perché talora, in una simile realtà, successero violenze e soprusi!
Ma, soprattutto, inquadriamo questi fatti, l’uso cioè di pene dure, corporali, di punizioni severe, nel loro contesto storico. Lo stesso Mullan, autore del film Magdalene, ha esplicitamente affermato che i metodi utilizzati in Irlanda erano gli stessi della Gran Bretagna. Non solo nelle Workhouses, ma anche nei collegi bene, delle élite inglesi. Non era così anche da noi, sino a 50 anni fa? Le pene corporali, le punizioni severe, le bacchettate sulle mani, erano considerate normali non dico nei riformatori, ma nelle scuole normali. E se allarghiamo lo sguardo possiamo pensare a quello che succedeva nei nostri manicomi statali, non al Cottolengo gestito dalle suore, prima che la legge Basaglia non eliminasse, ma privatizzasse i drammi: violenze, botte, abusi, reclusioni… Anche qui, però: non di tutti, anzi, forse di una minoranza. Possiamo, ancora, pensare ai lager per bambini orfani dell’est europeo, gestiti dallo Stato laico, comunista ed ateo: imparagonabili, per brutalità, con qualsiasi altra struttura per bambini della storia! Si pensi solo che le recenti indagini sulla Germania comunista dell’Est hanno rivelato che negli Istituti statali per ragazzi “dissidenti” tra il 1964 ed il 1989, costoro venivano umiliati, picchiati, spogliati in pubblico e non di rado abusati dai loro guardiani! Si parla di 4000 minori su cui vennero compiute nefandezze a sfondo sessuale e non solo (vedi “Bambini ombra dietro i muri” di Torgau, Rinck Verlag, Rostock, 2009; www.heidemarie-puls.de, Il Foglio, 14/7/2010). Nessuno però ci ha fatto mai un film, e sulla stampa di sinistra non è comparso neppure un articolo, o quasi, quando queste verità, proprio di questi tempi, sono venute alla luce!
Possiamo pensare, per fare un altro esempio, ai “figli dello stato”, come li chiama Michael D’Antonio nel suo “La rivolta dei figli dello stato” (Fandango), in cui si racconta come in un centinaio di istituti americani nel Novecento (sino al 1974) migliaia e migliaia di bambini, spesso normali, abbiano subito violenze, abusi sessuali, “lavori forzati”, elettroshock, sterilizzazioni chirurgiche, sperimentazione di farmaci, promosse dall’ateissimo movimento eugenetico e dallo scientismo galtoniano che consideravano alla stregua di oggetti di ricerca. Possiamo rammentare, ancora, un caso attuale, di cui nessuno parla: le laicissime e “liberissime” scuole Odenwald, il liceo delle élite tedesche sessantottine, in cui, come ha dichiarato l’attuale preside, si sono consumati, in anni recentissimi, “violenze dei professori sugli allievi e degli allievi più grandi sui più piccoli. Stupri di gruppo consumati con la complicità dei supervisori. Maestri che provvedono a distribuire alcol e droga. Studenti costretti a prostituirsi nel fine settimana per soddisfare qualche visitatore amico degli insegnati…” (Tempi, 5 maggio 2010).
Come ha spiegato il laico Brendan O’Neill su The Telegraph- il McAleese Report avviato per analizzare i fatti, non ha individuato neanche un caso di abuso sessuale da parte delle suore, ma soltanto alcuni casi circoscritti di punizioni corporali, sulla linea della prassi nelle scuole anglosassoni degli anni ’60-’80.
5. IDEOLOGIA ANTICATTOLICA, GENERALIZZAZIONE E CALUNNIE
Quando si insiste sull’Irlanda cattolica, sulle sue suore e i suoi sacerdoti, per screditarne in toto la storia, dunque, non è la sacrosanta condanna dei colpevoli, che disturba. Dicessero anche che preti e suore che hanno abusato, meritano pene terribili, non ci sarebbe certo da obiettare. Lo ha detto chiaramente Benedetto XVI. Quello che disturba è l’ipocrisia, il tentativo di generalizzare, il voler fingere che esista un’umanità senza peccato che può additare come reproba un’altra parte dell’umanità, colpevole, per colpa originaria ed indelebile, di seguire Cristo, talora con grandezza, talora tradendone e smarrendone l’insegnamento. Fermiamoci un attimo e pensiamo: perché erano le suore, per secoli, in Irlanda, a prestarsi a stare lì, negli istituti di pena, per secoli, e non per denaro! Erano sempre e inequivocabilmente mostri sadici e crudeli le suore, come il film di Mullan cerca di farci vedere, mostrando solo malvagità e perversioni? Mostrandoci, lui scozzese e marxista, un universo irlandese e cattolico di trucida violenza, ha fatto opera storica, documentaria, o ha semplicemente affermato il suo pregiudizio? Si può credere alla obiettività di uno che dichiara che la “Chiesa…non differisce troppo dai talebani, istiga alla crudeltà anziché alla compassione, trascinando la società in una spirale di follia collettiva”? (Corriere 31/8/2002). No, certamente. Mullan, il suo film, i suoi numerosi e ardenti discepoli, servono solo a nutrire odi e pregiudizi, più duri da spezzare delle pietre. Simili a quelli che portarono i primi cristiani ad essere sbranati dalle belve, accusati di adorare un asino o di mangiare carne umana; non lontani da quelli che portano oggi i cristiani ad essere uccisi ogni giorno in Cina, India, Asia… (vedi Renè Guitton, Cristianofobia, Lindau, 2010). L’universo fittizio creato da Mullan e da tanti altri personaggi, alimenta la falsificazione e l’inganno.
Penso, quanto all’inganno, al libro di Kathy O’ Brien che narra di terribili violenze che lei avrebbe subito nelle Magdalen Laundries: un bestseller da 350.000 mila copie, spacciato come vero, ma smentito prima dalle suore (“La O’Brien non è mai stata da noi”), poi, con sdegno, dalla stessa famiglia dell’autrice ed infine anche da un giornalista, Herman Kelly di The Mail on Sunday, che ha dedicato un intero libro, “La vera storia di Kathy”, per smontare l’operazione mediatica ed economica della scrittrice. Penso a sacerdoti innocenti, come padre Kinsella o padre Brendan Lawless, vittima di una donna che era pronta ad accusarlo pubblicamente di violenza, se egli non le avesse dato del denaro; penso ai numerosi casi di religiosi ingiustamente accusati per estorsione per denaro, cui Joe Duffy, conduttore di RTE radio 1, ha dedicato una trasmissione di oltre un’ora alcuni anni fa; penso al caso di Paul Anderson, “condannato a quattro anni di carcere per avere accusato Padre X, un sacerdote dell’arcidiocesi di Dublino rimasto anonimo, di aver abusato sessualmente di lui 25 anni fa, durante la preparazione alla prima comunione. Il giudice Patricia Ryan ha spiegato nella lettura della sentenza come Anderson, personaggio segnato da tossicodipendenza, tendenze suicide e debiti personali, avesse costruito racconti infamanti contro Padre X per un fine molto semplice: estorcere quattrini alla Chiesa” (Avvenire, 2/8/2007); penso ancora, al clamoroso caso di suor Nora Wall. Quest’ultima è un’anziana ex suora della congregazione delle Sisters of Mercy, condannata all’ergastolo per lo stupro di una minorenne, nel 1997: la sua colpevolezza era stata affermata in seguito a ricordi emersi confusamente nel corso di una psicoterapia della presunta vittima! Nora è stata poi assolta due anni dopo, una volta constatata la sua assoluta innocenza. Per due anni ella fu per gli irlandesi la suora pedofila, la religiosa che procurava bambini ai sacerdoti pedofili, il mostro dell’Irlanda, il “diavolo Wall”, sbattuta in tv e sui giornali con assidua frequenza. Alla sua assoluzione i giornali parlarono di “the state’s most extraordinary miscarriages of justice”.
Penso, infine, agli otto vescovi irlandesi, su ventisei che ve ne sono in quel paese, accusati ingiustamente di pedofilia, come ricorda Rory Connor (www.irishsalem.com) e alla battaglia di Florence Horsman Hogan, una infermiera protestante, cresciuta in una specie di Magdalene Laundry delle Sisters of Mercy, che ha creato una associazione, “Let our voice emerge”, con cui vuole ricordare anche il bene fatto da tante suore a ragazze molto problematiche, come era lei: anche perché, ha dichiarato, le vere vittime, le cui terribili ferite non possono che generare profonda compassione, non siano confuse con gli approfittatori, i furbi, con coloro che cercano solo fama o risarcimenti economici, o che sono pronti a cavalcare gli scandali per motivi di pura avversione ideologica.
Francesco Agnoli
Da “Chiesa e pedofilia. Colpe vere e presunte. Nemici interni ed esterni alla Barca di Pietro” (Cantagalli 2011)
martedì 23 aprile 2013
23 aprile 2013 - Quando Stati (e organizzazioni) dettano regole - Figli a comando - http://www.avvenire.it/
Contrordine, fratelli della rivoluzione islamica! «Niente più contraccettivi né misure di pianificazione familiare, dovete tornare a fare più figli». È il netto cambio di strategia deciso dal governo iraniano, che ha scelto di mobilitare 150mila medici per contattare le famiglie e "motivarle" ad avere più bambini. E in fretta, pure: cercando di «ridurre al di sotto dei due anni il periodo fra una gravidanza e l’altra». L’obiettivo infatti è esplicito e certamente ambizioso: arrivare in pochi decenni a raddoppiare la popolazione del Paese da 75 a 150 milioni di persone.
Il cambio di strategia è stato impresso su impulso della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che aveva chiesto di abolire le politiche di pianificazione familiare adottate dopo la forte crescita delle nascite seguita alla rivoluzione islamica del 1979. «Ma la scelta del figlio unico ha provocato molti problemi – ha spiegato Mohammad Ismail Motlagh, dirigente del ministero della Famiglia di Teheran –. E ora le coppie devono rivedere i loro metodi e cambiare i loro piani».
Una scelta – questa dell’Iran, come quella speculare della Cina con l’imposizione (ora in discussione) del figlio unico o gli interventi di pianificazione familiare da parte di enti internazionali, anche legati all’Onu – che conferma come la leva demografica sia tuttora utilizzata dai poteri statali e sovranazionali anzitutto per conseguire obiettivi politici, prima che per favorire cambiamenti sociali a beneficio delle popolazioni. Dietro espressioni come "salute riproduttiva", utilizzate da organismi internazionali, si nasconde spesso in realtà non la giusta esigenza di tutelare la salute delle donne o di evitare il ricorso all’aborto, ma appunto la scelta politica-economica di imporre una pre-determinata (de)crescita demografica, non di rado legando ad essa obiettivi e interventi di sviluppo.
Nei singoli Stati, poi, a seconda delle esigenze di bilancio, di pianificazione economica o, per altro verso, di strategie militari o espansionistiche, i governi non si fanno scrupolo di intervenire pesantemente nella sfera più intima di ogni coppia: ora imponendo di non procreare, anche a costo di spingere le donne ad abortire, ora invece facendo pressione perché si "diano figli alla Patria".
È un tratto tipico delle dittature, del Novecento come di quelle contemporanee. In maniera meno esplicita, però, la tentazione percorre anche le nostre democrazie, nelle quali ad agire sono da un lato la presenza o l’assenza di politiche di sostegno alle famiglie, dall’altro i modelli culturali che finiscono per condizionare (e non poco) la scelta di avere figli. Fino alle nuove "frontiere" dischiuse oggi da quelle tecniche e quelle leggi che permettono e "legalizzano" una procreazione slegata dall’unione di una coppia donna-uomo.
Al fondo, nelle imposizioni dirette delle dittature come nelle indirette pressioni delle democrazie, sta non solo un’insopportabile violazione della libertà dei coniugi, ma soprattutto uno stravolgimento dell’umano nella sua essenza: la procreazione che nasce da un progetto di vita, infatti, non può mai essere ridotta a mera riproduzione, da accrescere o diminuire secondo convenienze economiche o politiche, come fosse una produzione industriale.
Francesco Riccardi
Coinquilini per la vita - 2013-04-23 L’Osservatore Romano
Mano accanto alla mano dell’altro, cuori che battono vicini, cosa provano due gemelli nell’utero materno? Come entrano in relazione tra di loro, con che forza e con che livello di coscienza? Sono le domande che pone l’ultimo libro dello psichiatra Benoit Bayle Perdre un jemeau à l’aube de la vie (Toulouse, Erès, 2013, pagine 270, euro 26), scritto insieme alla filosofa Béatrice Asfaux. Entriamo portati per mano nel mondo fetale, non più solo descrivendo la fisiologia della gravidanza, ma immedesimandoci realmente negli attori primi ed essenziali di essa: il figlio e la mamma. «Il feto ha vissuto nell’utero un incontro particolare col suo gemello — scrive Bayle — tramite i sensi come l’udito, il tatto, l’equilibrio e il gusto, dato che la vista è il senso meno utilizzato dal feto». Eccoci allora attratti in un viaggio nel mondo della psiche e della sensorialità prenatale, che mostra il mondo sommerso e invisibile della vita fetale come mondo pieno di rapporti e di sensibilità, seppur — scrive Bayle — a un livello che viene un attimo prima della comparsa della reale coscienza. È l’evidenza di qualcosa al tempo stesso noto e censurato: il feto è essenzialmente un bambino non ancora nato, con indubbie caratteristiche infantili già presenti prima della nascita. Ma il viaggio può diventare drammatico: Bayle e Asfaux ci portano dove non immagineremmo, nel buio del lutto, della morte di uno dei due gemelli. Cosa prova il gemello che improvvisamente non sente più muovere accanto a sé il fratello o la sorella? E cosa proverà a distanza di anni, nel ricordo di quelle sensazioni e nel rimpianto di quella perdita?
Per un gemello, sopravvivere al gemello defunto è una sensazione dolorosa e straziante simile a quella di chi sopravvive a un coniuge durante un incidente o a chi sopravvive ai compagni di prigionia dopo una detenzione dura e violenta, col rischio di trascinarsi dietro un senso di colpa e un senso di invulnerabilità entrambi irrazionali.
«Affermare la propria onnipotenza non gli permette forse di difendersi inconsciamente dalla violenza di cui furono oggetto i suoi pari, e di fuggire al senso di colpa?» scriveva Bayle nel precedente L’embryon sur le divan (2003), in cui ipotizza un rischio simile anche nei soggetti sopravvissuti alla selezione embrionale fatta per “scegliere” l’embrione migliore. «Se è rimasto in vita, se è stato scelto, non è forse segno che vale più degli altri che non sono sopravvissuti? Il bambino soggetto alla onnipotenza del desiderio altrui sarà un bambino onnipotente cui è difficile fissare dei limiti». Il feto superstite nascerà mentre altri embrioni-fratelli, sono stati scartati, per essere abbandonati, distrutti o congelati in un remoto ospedale.
E non è forse tutta l’attuale generazione una generazione di sopravvissuti, in cui diffusamente si nasce dopo essere passati al vaglio dell’analisi genetica prenatale, e in cui una fetta di concepiti non arriva a nascere perché non idonei, malati o semplicemente indesiderati? E come pensare che tutta una generazione non serbi una traccia di questo esame attitudinale cui è sopravvissuto?
Carlo Bellieni
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Nessuna complicità con chi distrugge di Luigi Negri - 21-04-2013 - http://www.lanuovabq.it/
Pubblichiamo la lettera che mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, ha scritto in questi giorni al direttore de Il Foglio sul drammatico momento che vive il nostro paese, perché descrive in modo lucido il vero problema culturale cui ci troviamo di fronte e l’atteggiamento che siamo chiamati ad assumere..
Carissimo direttore,
poiché mi trovo quasi sempre d’accordo con le tue posizioni dal punto di vista cultural-politico, mi permetto di farti avere delle osservazioni che sento assolutamente necessario, in coscienza, formulare e pubblicare. Mi hanno indotto a questo anche due bellissimi articoli che ho letto recentemente sulla questione dell’assetto cultural- social-politico in questo momento tragicomico della nostra storia nazionale.
Uno è un articolo del professor Francesco Alberoni sul fanatismo devastante di certe posizioni politiche, che mi ha ricordato i tempi indimenticabili dei miei studi universitari, in cui l’allora giovane professor Alberoni ci insegnava i rudimenti della sociologia. E poi l’articolo molto acuto del professor Aldo Grasso con cui ho condiviso tanti anni di insegnamento in Cattolica.
Non voglio fare nessun intervento nell’ambito specifico dell’impegno dei laici, soprattutto dei laici che hanno deciso di partecipare attivamente alla vita delle istituzioni. Non tocca ai vescovi stabilire l’identikit del presidente della Repubblica e non tocca ai vescovi indicare le priorità di carattere politico in senso stretto, ma tocca ai vescovi intervenire sulle gravi vicende di carattere culturale che sono arrivate, nel nostro paese, a un livello di crisi che mi sembra senza ritorno.
Mi sono chiesto se è giusto che noi continuiamo a tacere di fronte a posizioni culturali, sociali e politiche che affermano letteralmente che l’uomo è Dio; e che affermano una subordinazione totale e parossistica alla rete, indicata come soluzione globale di tutti i problemi dell’umanità.
Se si possa tacere di fronte a una modalità di porsi, nella vita politica, che disprezza, nel linguaggio e negli atteggiamenti, qualsiasi interlocutore che viene sbrigativamente percepito come avversario da eliminare. Se è possibile far prevalere tutta una serie di valutazioni personalistiche di carattere moralistico come ambito in cui decidere la presentabilità o meno di candidati a questa o a quella carica. A parte l’ignoranza spaventosa per cui si possono citare frasi del primo hitlerismo e di alcuni documenti delle più terribili dittature del Ventesimo secolo cercando di dargli una patente di credibilità e di autorevolezza. In questo contesto, dove una persona ragionevole, io non vorrei scomodare la fede, una persona ragionevole si trova veramente a disagio, ritengo che sia giusto che un vescovo della chiesa cattolica dica che c’è una sostanziale inconciliabilità fra la visione della realtà che nasce dalla fede e questa vita politica ridotta alla difesa accanita dei propri interessi particolari o di formazione ideologica.
Non credo che sia giusto che si possa continuare in un’equivoca tolleranza di posizioni che obiettivamente sono distruttive, non solo e non tanto della fede cattolica, ma di una vita sociale autenticamente fondata su valori sostanziali e inderogabili, quelli che Benedetto XVI aveva così genialmente sintetizzato nell’espressione “valori non negoziabili”.
Di fronte alla proposta di una vita socio-politica ridotta a posizioni teoriche demenziali, corredate da un linguaggio e relativi atteggiamenti dello stesso tipo, io mi sento di dire con tranquillità, almeno ai fedeli cattolici della mia diocesi, che non è possibile essere cristiani e contemporaneamente appoggiare a qualsiasi livello posizioni e scelte che sono evidentemente in contrasto con la concezione della vita che la chiesa, coerentemente, da duemila anni insegna. Se poi la novità è rappresentata, anche sul piano istituzionale, da disegni di legge che riguardano il riconoscimento civile delle unioni gay, il cambiamento a spese del Servizio sanitario nazionale del sesso, ci rendiamo conto da che parte va questa presunta novità.
Ma c’è un ulteriore e ultimo disagio. Mi sono chiesto in questi giorni: ma dove è finita la presenza politica dei cattolici in Italia? Si caratterizzano per le scelte politiche che fanno, destra o sinistra, ma non più per quella vera appartenenza a valori in forza dei quali diventa possibile un vero dialogo, confronto, e al limite la collaborazione.
Mi sono reso conto con amarezza che la presenza politica dei cattolici sembra non esistere più. Esistono dei cattolici che a titolo sempre più personale, quindi nel senso restrittivo della parola, militano di qua o di là ma ricevono la loro dignità dalla scelta analitica che hanno fatto. E forse qui non è in ballo soltanto la responsabilità dei laici. Forse l’azione educativa che noi dovremmo insistentemente riprendere con i nostri laici, soprattutto quelli impegnati nei campi più difficili, sembra essere venuta meno. Non so se non è più chiesta. Resta il fatto che da noi vescovi viene offerta in modo sempre più blando e sempre meno mordente. Non è un contributo ma non credo che potessi tacere ai fedeli della mia chiesa questa direttiva che ho ritenuto necessario dare.
Siccome poi il vescovo di una diocesi particolare vive e deve vivere un affetto per la chiesa universale, pongo questo mio intervento a disposizione di quanti, nelle altre chiese, possano riconoscersi e ritrovarsi in esso. (Il Foglio del 19/04/2013)
Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara – Comacchio
22 aprile, 2013 - Il legame tra l’eugenetica e il laicismo progressista - http://www.uccronline.it/
Opinione comune e diffusa è che l’eugenetica e gli esaltati deliri del bisogno di “salvare” la purezza della razza siano nati col Nazismo, a sua volta lunga gestazione delle superstizioni medievali (per “medievali” leggasi “cattoliche”).
In realtà l’ossessione eugenetica è più vecchia del nazismo, nulla ha a che fare col “barbaro” medioevo e ha origini inglesi: nasce con Francis Galton, scienziato cugino di Charles Darwin, creatore del termine “eugenetica” e propugnatore del “darwinismo sociale”. Galton a sua volta è figlio del laicismo scientista e positivista che alla fine dell’800 ha condotto molti paesi occidentali (specie Usa, Inghilterra, Germania, Svezia) all’eugenetica così come la intendiamo oggi.
E’ un clima culturale, quello di cui si cibò Galton, nel quale l’uomo, liberandosi di ogni trascendenza divina, elevando il progresso e il proprio ingegno a somme divinità, confida di raggiungere la libertà e la felicità assolute. In questo tragitto eugenetica-nazismo ha un suo posto di rilievo Margaret Sanger (1879-1966), figura quasi sconosciuta in Italia, colei che coniò il termine “birth control”, che tutt’oggi così enorme peso ha nelle politiche familiari dell’Onu e in quelle natali di Cina e India.
Ma chi è Margaret Sanger? Laicista progressista di orientamento anarchico, nel 1914 concepì appunto il “birth control” come strumento di prevenzione della povertà (meno bocche da sfamare = più risorse per tutti) e della guerra (meno povertà = meno bisogno di far guerre), e di emancipazione delle donne dalla morale cristiana sulla sessualità (meno morale = più felicità). Fatto sta però che, se da un lato la Sanger ottenne le simpatie di coloro che si battevano per ideali rivoluzionari contro ogni costrizione, d’altro canto di fatto i sostenitori più forti, coloro che davvero appoggiarono le sue istituzioni (la più famosa è la Planned Parenthood, catena di cliniche per l’aborto più grande del mondo) non furono né anarchici né rivoluzionari né femministe, bensì propugnatori dell’eugenetica e scientisti laicisti.
Perché? Quale filo collega Galton alla Sanger? Prima di tutto, bisogna dire che la Sanger era perfettamente consapevole di questo legame tra i suoi ideali progressisti e le istanze scientiste. Lei stessa passò dagli ideali rivoluzionari agli ideali di Galton per un salto logico che all’inizio può apparire poco chiaro se non contraddittorio, ma in realtà coerente. La Genitorialità Pianificata della Sanger adottò come strumenti di diffusione della pianificazione delle nascite la contraccezione, l’aborto, la sterilizzazione, lo screening prenatale e la fecondazione artificiale, stessi identici strumenti di quelle istituzioni che volevano incidere sui costumi sociali per prevenire la sovrappopolazione e la nascita di persone malate e deforme. Lotte diverse ma stessi strumenti, quindi. Sì, ma non solo. Nell’ultima fase della sua vita la Sanger passò agli ideali scientisti dicevamo, e ciò ha fatto pensare gli studiosi a una sorta di chiusura conservatrice, un ripiegare su sé stessa in posizioni più rigide e diverse, se non opposte a tutti quegli ideali di libertà e liberazione della giovinezza. In realtà no, la Sanger non ripiegò su nulla in particolare, né “deviò” o “cambiò”: anzi, fu estremamente coerente con sé stessa. Il passaggio alla dottrina eugenista era molto comune tra gli intellettuali radicali cui lei apparteneva, si rapportava e s’ispirava.
Perché? Perché l’eugenetica ha lo stesso fondamento degli ideali progressisti che la Sanger avrebbe “tradito”, cioè la totale autonomia dell’uomo, inteso come essere che appartiene solamente a sé stesso, del tutto indipendente da ogni legame sociale e familiare, istituzionale o affettivo, libero di non interessarsi al benessere di nessun altro se non il proprio esclusivo e, quindi, di ignorare ogni possibile prescrizione etica o religiosa. La nuova morale fa coincidere in modo totale e assoluto la coscienza con la volontà individuale, e questa nuova morale è il filo che collega Galton alla Sanger, la quale, in modo intelligente e coerente, si rese conto che era nel laicismo scientista che poteva trovare i migliori sviluppi dei suoi ideali: l’eugenetica era il frutto più ricco e abbondante che le sue idee progressiste potessero portare, e lei se ne rese conto.
La Sanger disse che il suo obiettivo finale era convincere le donne a dare sé stesse alla scienza così come, in passato, si erano date alla religione. Perché mai? Perché la “scienza” com’era intesa dagli scientisti avrebbe portato, attraverso piani come il “birth control”, a una “società pulita e intelligente” e quindi a un mondo migliore, come le vecchie religioni si auspicavano. Però, effettivamente, poi cadde in una contraddizione: pur lottando per il riconoscimento al diritto individuale di regolare la propria vita riproduttiva senza legacci, sostenne con passione decisi e forti interventi dello Stato nella programmazione di una seria politica eugenetica. Quindi, un estremo individualismo plagiato però da pesanti interventi statali.
Di nuovo: perché? Perché la nuova morale progressista e scientista rende ogni singola donna e ogni coppia responsabili non solo di sé stessi e del proprio piacere ma anche della tutela e salvezza di tutta la razza umana. In realtà, a pensarci, non è una grossa contraddizione: l’assoluta libertà propugnata dalla Sanger è soltanto libertà da convinzioni (e convenzioni) etiche, morali e religiose, e null’altro, perché uno Stato eugenista non può permettere che le coppie siano davvero libere, nella loro coscienza e nelle loro scelte. E’ non altro che una fuga da ogni possibile Credo, tenuta a freno dalla lunga catena del “birth control” di Stato. La libertà sessuale della donna è tutelata mentre lo Stato ne tiene a freno l’aspetto più dannoso, ciò che la rende un Vaso di Pandora: la capacità di portare la Vita.
Una prospettiva antropologica senza alcuna trascendenza ma tesa all’ideale: l’ideale di un essere umano capace di curare il proprio piacere senza limiti, senza alcuna responsabilità, ma chiuso alla Vita. Un ideale lontano dall’uomo reale, portatore non solo di desideri sessuali ma anche e soprattutto di istanze ben più profonde, istanze di Vita, mortificate e schiacciate da un ideale di razza sana e di libertà assoluta che uccide colui che dovrebbe salvare.
Claudio Gnoffo
Omosessuali, incestuosi e poligamici chiedono il matrimonio - 22 aprile, 2013 - http://www.uccronline.it/
Robert P. George, giurista presso la Harvard Law School e l’università di Princeton, Girgis Sherif, ricercatore di filosofia a Princeton e alla Yale Law School e Ryan T. Anderson ricercatore della Heritage Foundation hanno riaperto il discorso: una volta che si abbandona l’attuale concezione del matrimonio sostituendola con un contratto che legittima solamente una relazione tra persone adulte e consenzienti legate da un rapporto sentimentale, non esiste più una base di principio per negare o resistere all’estensione della licenza di matrimonio a tutte le possibili forme di relazioni tra individui adulti.
In altre parole, se il matrimonio non è più il garante dell’ordine delle generazioni (matrimonio deriva da matris munia, doveri della madre verso i figli) basato sulla complementarietà e sulla fecondità, istituzionalizzando tra l’uomo e la donna quelle relazioni pubbliche di particolare intensità e responsabilità che consentono la nascita della famiglia, come struttura di socializzazione primaria, ma serve solo a soddisfare il desiderio di compagnia tra adulti, risulta una negazione di uguaglianza negare un riconoscimento e un’equiparazione al matrimonio naturale anche alla poligamia, all’incesto e a tutte le possibili e fantasiose forme di relazione tra gli uomini. Rifiutarle sarà possibile, ma violeremo il principio di uguaglianza e non avremo più un fondamento giuridico stabile e coerente.
«Per troppo tempo l’Australia ha negato ad alcune persone il diritto di sposarsi. Troviamo questo aberrante. Noi crediamo che tutti dovrebbero essere autorizzati a sposare i loro partner, e che la legge non dovrebbe mai essere un ostacolo all’amore». Pensate che la frase sia stata detta dal leader omosessuale Franco Grillini? Assolutamente no, proviene dall’associazione di poligamici australiana Polyamory Action Lobby, che ha approfittato del dibattito sulle nozze gay per intervenire con le sue richieste: «Chiediamo niente di meno che il pieno riconoscimento delle famiglie poligame. Il poliamore spesso non è una scelta, molta gente ama più di una persona e non può farne a meno». L’uguaglianza del matrimonio la chiedono anche loro, perché -si legge sui siti poligamici (e certamente anche tra gli incestuosi)-, «una famiglia dovrebbe basarsi sulla sicurezza, la stabilità e l’amore, non sulla sua struttura». Come si vede, lo stesso linguaggio e le stesse richieste degli omosessuali arrivano anche dai poligamici…ma con quale argomento dire di “no” a loro, una volta che la relazione omosessuale è stata equiparata al matrimonio naturale? Come difendere costituzionalmente il matrimonio monogamico? Risponde in questo ottimo lavoro lo studioso Ryan T. Anderson, della The Heritage Foundation: «Se la complementarità sessuale viene eliminata come una caratteristica essenziale del matrimonio, allora nessun principio limita il matrimonio civile alle coppie monogame»
Su un portale anglosassone si è affrontata la stessa tematica, chiedendosi provocatoriamente: «se due lesbiche, perché non due sorelle?», ovvero se il matrimonio diventerà semplicemente l’unione di due persone che si amano, indipendentemente dal loro sesso, perché non si può sposarsi tra fratelli? Qual è la differenza tra due sorelle e due lesbiche che desiderano sposarsi? Entrambe le coppie non possono procreare, entrambe si amano e sono disposte a prendesi cura del partner. Se il matrimonio è associato al romanticismo e ad una rivendicazione sentimentale, non c’è alcun motivo per discriminare l’amore tra due sorelle. In realtà potremmo spingerci oltre e domandarci con quale autorità lo Stato deve permettere il matrimonio solo a persone che si amano e non riconoscere anche la relazione tra due amici legati soltanto da un grande affetto? Cosa potrà mai importare allo Stato della qualità del sentimento che provo per un’altra persona, sono entrambi consenzienti e vogliono beneficiare entrambi del loro affetto, anche se non è amore. Perché dunque negare il matrimonio anche a due amici? Chi osa dire che l’amicizia vale meno dell’amore? E’ evidente che lo stravolgimento antropologico del senso del matrimonio genera una serie di reazioni a catena totalmente incontrollabili.
L’unica soluzione per mantenere una coerenza e una stabilità dei fondamenti giuridici, evitando di modificare la Carta costituzionale, snaturando il senso del matrimonio, è quella ribadita dal prof. Francesco D’Agostino, professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata: «In quanto costitutivamente sterile, il rapporto omosessuale (come peraltro qualsiasi altra forma di rapporto affettivo o amicale) non ha alcun bisogno di un riconoscimento legale, o almeno non ha bisogno di un riconoscimento diverso da quello che l’ordinamento giuridico potrebbe, se volesse, offrire, ma solo sul piano patrimoniale, ad altre forme di convivenza “non sessuate” , che venissero ritenute meritevoli di attenzione sociale (come quelle tra fratelli conviventi o tra anziani genitori e un figlio)». Usare la stessa parola “matrimonio” per designare due o più realtà fondamentalmente diverse, non rispetta queste realtà e introduce, per di più, un’enorme grado di confusione. Inoltre, come ha fatto notare la prestigiosa filosofa francese Sylviane Agacinski, «È molto difficile separare il problema del matrimonio “omosessuale” da quello della “omogenitorialità”, perché nessuno può ignorare che un “matrimonio omosessuale” instaurerebbe simbolicamente come coppia genitoriale due persone dello stesso sesso e metterebbe in discussione la filiazione bilaterale dei figli (un lato materno e un lato paterno)», dunque è una posizione errata quella di chi afferma di essere favorevole alle nozze gay ma senza aprire all’adozione.
Certo, negare le nozze gay significa negare la felicità di molti omosessuali, così come negare un riconoscimento giuridico dell’incesto o della poligamia significa negare la felicità di molti incestuosi, poligamici o semplici amici (secondo l’esempio di sopra). Molte sono le battaglie in nome della felicità, ma -ha spiegato ancora il giurista D’Agostino- sono «una battaglia molto ingenua, perché, comunque essa vada a concludersi, non è dal diritto e dai suoi eventuali (e impropri) riconoscimenti simbolici che deriva la nostra felicità, ma dalla coerenza tra il bene, nella sua oggettività, e il nostro personale stile di vita». Il punto chiave del discorso è invece «la deformazione oggettiva del matrimonio come istituto giuridico che è conseguenza inevitabile del riconoscimento del matrimonio tra omosessuali. Su questo punto e su questo soltanto dobbiamo discutere, senza cedere a suggestioni che hanno un notevole rilievo ideologico, ma una limitata forza argomentativa». Il tutto sintetizzato bene da un titolo di Avvenire: la legge promuove i diritti non appaga i desideri.
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SCUOLA/ Il cyber-bullismo? La colpa non è di Facebook - martedì 23 aprile 2013 - http://www.ilsussidiario.net/
Che vi sia una ciclica e crescente attenzione mediatica sui fenomeni di bullismo, è un dato che concerne, per quanto pertiene all’Italia, gli ultimi dieci anni. Le disposizioni ministeriali per arginare il fenomeno ne sono state l’attestazione formale; la divulgazione online di video virali ha sollecitato il senso di emergenza nel mondo adulto, e talvolta – purtroppo – una sorta di curiosità morbosa.
Di solito la retorica giornalistica tende a catturare i fenomeni psicosociali in modo acritico e unilaterale, e a questa distorsione non poteva sfuggire il bullismo. Per un verso, infatti, l’attenzione pubblica si concentra sulla variante telematica degli atti persecutori. Il cyber-bullismo è fonte di grande allarme sociale. Genitori e insegnanti lo percepiscono come indecifrabile e imprevedibile e, come i media stessi suggeriscono loro, ne attribuiscono la responsabilità espansiva all’impersonale colpevolezza dei social network. È vero che applicazioni come youtube o facebook forniscono ai bulli una maggiore capacità d’azione, ai gregari un più forte anonimato, e alle vittime un ancor superiore senso di isolamento. Ma andrebbe compreso, in realtà, che l’efficacia dell’atto persecutorio online trova la sua forza nelle drammatiche fragilità culturali del tessuto sociale.
Il cyber-bullismo non agisce infatti attraverso l’esercizio della violenza fisica o il furto di beni materiali. Ma lavora con grande velocità e potenza di impatto sulla reputazione della vittima. Come ha ben dimostrato il sociologo Vanni Codeluppi, siamo definitivamente entrati nella fase della “vetrinizzazione sociale”. Siamo cioè completamente coinvolti nella esibizione telematica di ciò che vorremmo essere. Nei nostri profili facebook o nei blog ceselliamo un collage di canzoni, frammenti di poesie, citazioni, fotografie, che delineano il nostro apparire. È un mercato dell’attenzione, dove noi mettiamo in vendita la nostra identità costruita (che non è priva di un rapporto strettissimo con la nostra identità reale, intendiamoci, non credo alla frattura tra reale e virtuale); i “clienti” sono le cerchie dei contatti, con diverso livello di importanza, e ci ripagano o “rinforzano”, con un I like o uno share.
Se è vero che ciascuna di queste forme di approvazione può generare in noi un senso di gratificazione, ma pure di dipendenza, come è recentemente in via di approfondimento scientifico, possiamo presumere che la divulgazione di qualcosa che leda la mia reputazione, o una forma di isolamento dal network, possa indurre meccanismi depressivi. La responsabilità però non è nel mezzo, ma nel quadro sociale in cui esso si colloca, dove la formazione globale della soggettività, cioè la struttura del carattere personale potenziata attraverso un solido percorso scolastico, è del tutto sacrificata, come inutile, inefficace, non fruibile nella vita pratica. Senza retorica, possiamo dire che la dimensione della reputazione, attraverso la Rete, ha prevaricato la cultura dell’apparire televisivo.
Siamo anzi molto oltre la difesa della propria immagine esteriore. Un attacco alla mia reputazione online diventa una forma di disgregazione del sé, che si è andato costruendo nel tempo attraverso un’edificazione del proprio profilo pubblico.
L’altro gioco delle responsabilità, a sua volta messo in moto dai media, ma talvolta anche dagli psicologi, è quello della chiave di lettura individualistica. In altri termini, il bullo è dipinto come un soggetto anomalo. Ci si sorprende se proviene da una famiglia agiata, lo si delinea con un profilo lombrosianamente ricondotto a elementi di aggressività innata, lo si trasforma, insomma, in un caso clinico. E anche questa è una distorsione che non ci aiuta. Alla luce delle ormai celebri ricerche di Milgram, Zimbardo e Bandura, ma recentemente anche dall’italiana Chiara Volpato, il fenomeno del bullismo può essere letto in modo chiaro soltanto nell’ambito di una riflessione articolata sulle dinamiche sociali. Non esiste un’epoca storica, per quel che ne sappiamo, priva di questi atteggiamenti persecutori, e non si dà gruppo umano che, posto in determinate condizioni, non avvii una rottura degli equilibri interpersonali, così come ha brillantemente dimostrato Zimbardo con la sua teoria dell’“effetto Lucifero”. A nulla serve evocare la metafora della “mela marcia”, mentre il problema è semmai ragionare sulle responsabilità “sistemiche”.
L’attenzione mediatica si è poi recentemente arricchita di un nuovo elemento, che potremmo definire, in qualche modo, “letterario”. Secondo un’inchiesta del New York Times siamo di fronte a una vera e propria esplosione editoriale di libri dedicati al bullismo. Si tratta di prodotti librari destinati a tutte le età: dagli album illustrati per i piccoli delle elementari, fino alle raffinate analisi riservate agli adulti. Nell’arco del 2012, i volumi in lingua inglese che tra le parole-chiave nella ricerca WorldCat sono rintracciabili digitando il termine “bullying”, sono stati ben 1.891, aumentati cioè di almeno 500 unità rispetto ai dieci anni precedenti. A ciò sono affiancate campagne di informazione e sensibilizzazione finanziate dagli stessi editori, per alimentare la consapevolezza su un problema molto sentito. O forse per innalzare il grado di allarme e incrementare i profitti sui propri prodotti editoriali. Ma quel che sorprende, in questa vasta letteratura, è l’emergere di una sorta di curioso voyeurismo: compaiono infatti operazioni narrative che mettono al centro della rappresentazione gli stessi bulli, i gregari, o gli adulti che assistono indifferenti ad azioni di bullismo. Si tratta di un’attenzione ambigua nei confronti della zona grigia, in forza di un facile coinvolgimento, o una potente suggestione. È il noir trascinato nel mondo adolescenziale, forse letterariamente accattivante, ma non privo di rischi emulativi.
La verità, come è giusto che sia, è che siamo di fronte a un fenomeno di notevole complessità e multifattorialità. Spiace, pertanto, che esso venga letto attraverso lenti univoche e spesso opache.
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