mercoledì 17 aprile 2013


Fecondazione eterologa, unioni gay e suicidio assistito. I nostri giudici dovrebbero rileggersi Kant e Levi-Strauss - aprile 17, 2013 Aldo Vitale - http://www.tempi.it/

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Alcune rilevanti questioni bioetiche sono state oggetto di attenzione in questi giorni.
Da un lato, infatti, il Tribunale di Milano con apposita ordinanza ha sospettato di illegittimità costituzionale la legge 40/2004, disciplinante le tecniche di procreazione medicalmente assistita, nella norma con cui pone il divieto di procedere a fecondazione eterologa, cioè mediante l’utilizzo di gameti esterni alla coppia; da un altro lato il presidente della Corte Costituzionale, Franco Gallo ha redarguito il Parlamento per la mancata tutela delle unioni omosessuali e per l’abrogazione del cognome paterno che rappresenterebbe, sempre secondo il presidente Gallo, un retaggio della cultura patriarcale; per un altro verso si è appreso di un magistrato italiano che si è recato in Svizzera in preda alla depressione per chiedere ed ottenere il suicidio medicalmente assistito.
Occorre dunque qualche breve e rapida riflessione su tutti i citati problemi.
1) secondo il Tribunale di Milano il divieto posto dalla legge 40/2004 lederebbe la condizione genitoriale delle coppie che non possono far ricorso alla fecondazione eterologa.
Il giudice adito, accogliendo evidentemente le prospettazioni molto ideologiche e poco giuridiche della difesa della coppia, non sembra aver tenuto conto delle conseguenze di ciò che presume, cioè l’incostituzionalità del suddetto divieto, il quale, invece, è perfettamente razionale e ragionevole per le motivazioni di cui in seguito.
Se c’è qualcosa che lede la condizione genitoriale, infatti, è proprio la fecondazione eterologa. Grazie ad essa, per l’appunto, la dimensione unitiva e quella procreativa tipiche della coppia, vengono ad essere brutalmente scisse dall’intervento tecnico che consente la seconda senza la prima, con lo specioso risultato, non solo di una forma di adulterio in provetta (circostanza che potrebbe essere tollerata come inconveniente necessario, come rischio calcolato, come effetto collaterale ponderato dalla coppia), ma addirittura di frammentazione e distruzione di quella genitorialità della quale si assumono difensori i medesimi soggetti che ricorrono alle suddette tecniche.
Con la fecondazione eterologa, infatti, la genitorialità viene segmentata, altro non diventa che un processo di costruzione in cui si assemblano i vari pezzi, delle varie “marche”, fino all’ottenimento del prodotto desiderato.
Con la fecondazione eterologa si viene a scomporre l’unità dell’atto procreativo, spersonalizzandolo, non già e non solo in quanto il procedimento viene messo in essere in un laboratorio, ma soprattutto perché il ruolo stesso di madre e di padre si spersonalizza, essendo attribuito ad una moltitudine di soggetti differenti che concorrono a diverso titolo (biologico, contrattuale, sociale) al medesimo ruolo genitoriale.
Non è del resto un caso che all’estero si siano moltiplicate le associazioni di donatori di gameti che chiedono di aver tutelato il diritto di conoscere i propri figli biologici, così come si sono moltiplicate negli ultimi anni le associazioni di coloro che nella qualità di figli venuti al mondo attraverso tali tecniche rivendicano il diritto a conoscere la propria origine genetico-biologica.
La fecondazione eterologa, dunque, e non già il suo divieto, rappresenta la minaccia più diretta per quella condizione genitoriale che qualche maldestro ideologo ritiene di voler tutelare attaccando il divieto di cui alla legge 40/2004.
Specularmente, la fecondazione eterologa, costituisce un pericolo anche per la condizione filiale, che, in un’ottica davvero giuridica e non demagogica, non può essere ignorata senza rischiare di rendere tutto un puzzle, un gioco, uno scherzo sulla pelle e sulla dignità delle persone coinvolte.
Il divieto di fecondazione eterologa, dunque, è perfettamente costituzionale, e si spera quindi che la Corte Costituzionale non si lasci abbindolare da simili cortine fumogene, ma scelga di perseguire la via del diritto contro la via dell’ideologia tecnico-individualistica.

2) Sulle esternazioni del presidente Gallo potrebbe dirsi molto sotto ogni aspetto, ma ci si limita ricordando le ragioni in grado di sconfessare le tesi che l’eminente giurista sostiene circa il cognome paterno.
È davvero un peccato che, pur dall’alto del suo privilegiato luogo di osservazione, Gallo non riesca a cogliere la valenza antropologica e giuridica a fondamento dell’attribuzione del cognome paterno ai figli; come nella realtà, una certa altezza giova, ma fin quando non è eccessiva, poiché in tal caso da vantaggio tramuta in svantaggio facendo vedere il mondo più piccolo e insignificante di ciò che in effetti è.
Sotto il primo aspetto, cioè dal versante antropologico, occorre precisare che il cognome paterno risponde ad una dicotomia fondamentale: da un lato consente, infatti, di definire i rapporti familiari, riconoscendo ed attribuendo i ruoli, cioè tutelando le identità di tutti e di ciascuno all’interno della famiglia; da un altro lato consente di equipaggiare di certezza i rapporti sociali, rinforzando e garantendo l’esogamia.
Come spiega bene, con la sua tipica chiarezza ed autorevolezza, Claude Levi-Strauss, la tradizione di alcune popolazioni aborigene australiane non consente di accogliere lo straniero all’interno del campo della tribù finché questi non sia riuscito a rispondere alla domanda degli anziani: «Chi è il tuo maeli (padre del padre)?».
Levi-Strauss chiarisce che si discute così di questioni genealogiche fino a quando tutti gli interessati non si dichiarano soddisfatti sulla esatta determinazione della relazione dello straniero con ciascuno degli indigeni: da ciò si evince l’importanza della discendenza, del padre del padre, quale elemento di strutturazione dei rapporti sociali e soprattutto il ruolo giuridico, e non ideologico, del cognome paterno (poiché solo mater semper certa est – anche se oggi appunto non è più così a causa della fecondazione eterologa).
Gallo renderebbe un miglior servizio alla Costituzione, dunque, se decidesse di abbandonare i profili ideologici che hanno contraddistinto le sue ultime dichiarazioni per accedere alla realtà, cioè alla dimensione antropologica e costitutivamente giuridica del cognome paterno, altrimenti per coerenza sarebbe più opportuno che cominciasse a cambiar per primo il proprio cognome, a scapito ovviamente della sua stessa identità.

3) Il tema del suicidio medicalmente assistito è troppo complesso per essere risolto in così breve spazio, ma almeno una brevissima riflessione è ugualmente eseguibile.
Il suicidio medicalmente assistito mina dalle fondamenta il ruolo, la natura del medico che si presta alla sua esecuzione.
Ci si dovrebbe chiedere, infatti, in cosa consista la natura dell’attività medica, che tipo di rapporto lega il paziente ed il medico.
In genere si parla sempre dei diritti del malato a cui si fronteggiano i doveri del medico; ma che dire dei diritti del medico che il più delle volte non vengono nemmeno considerati?
Il medico ha il diritto di non veder pregiudicata la propria libertà professionale? Pur essendo negata come possibilità dai Radicali, il medico ha il diritto di esercitare l’obiezione di coscienza dinanzi a certe richieste dei suoi pazienti, specialmente se queste ultime sono contrarie all’etica e al diritto? Il medico ha il diritto all’autodereminazione, parimenti al paziente?
Nonostante tutti questi e altri quesiti, e le articolate soluzioni che in essi trovano scaturigine, la natura anti-giuridica, che cioè sconvolge e percuote il ruolo del medico, della sua dignità, della sua libertà, del suicidio medicalmente assistito risiede integra ed intera nelle parole di un illuminista del calibro di Immanuel Kant per cui «il suicidio non è abominevole e inammissibile perché Dio lo ha proibito, ma al contrario Dio lo ha proibito perché, degradando al di sotto dell’animalità la dignità intrinseca dell’uomo, è abominevole».


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