«Questo bimbo a chi lo do?». La filastrocca ritorna sovente nelle aule dei tribunali quando un giudice deve decidere in ordine all’affidamento di un minore a seguito di separazione dei genitori. La scelta è sempre complicata e la soluzione migliore sarebbe quella – blasfemo a dirsi oggi – di non separarsi se i genitori avessero davvero a cuore l’interesse del figlio. Se poi il bimbo ha due mamme, “sposate” e poi “divorziate”, la faccenda si complica ancora di più. É ciò che è accaduto presso la Corte di Appello di Torino.
Questi i fatti. Due donne si “sposano” in Spagna, hanno un figlio con la fecondazione eterologa e poi “divorziano”. Un particolare da tenere a mente e che richiameremo alla fine: nella pratica di fecondazione eterologa che riguarda questo caso, una donna ha dato il suo ovocita che poi è stato fecondato da un “donatore” e l’altra donna ha portato avanti la gravidanza fino al parto. Il bimbo è quindi il prodotto di una catena di montaggio procreativa. Per l’ordinamento giuridico spagnolo le due donne sono entrambe da considerarsi genitori e, al momento del divorzio, il giudice ha deciso l’affidamento congiunto del minore. Dato che una delle due donne è italiana, questa ha chiesto ai giudici nostrani che anche la giustizia tricolore riconoscesse che entrambe le donne sono genitori legali del piccolo.
In primo grado il Tribunale di Torino aveva risposto picche. Infatti, riconoscere entrambe le donne come madri del piccolo avrebbe significato assumere una decisione contraria all’ordine pubblico. Questa espressione sta ad indicare tutti quegli elementi fondativi del vivere pacificamente in società, aspetti sociali e giuridici necessari ed ineludibili per aversi una società cosiddetta civile. Insomma, il minimo sindacale per non vivere da selvaggi. I giudici di primo grado avevano, infatti, respinto la domanda perché il riconoscimento di genitorialità omosessuale avrebbe da una parte riconosciuto altresì l’esistenza di una “famiglia” omo, modello inesistente per la nostra Costituzione. Cioè avrebbe rivoluzionato «le norme in materia di filiazione che fanno espresso riferimento ai concetti di padre, madre, marito e moglie» (a breve una sentenza per ribadire che il cerchio è tondo). Su un secondo fronte un simile ambiente formato da una coppia omosessuale non sarebbe stato il luogo migliore per educare il minore.
La Corte di Appello di Torino ha invece accolto la richiesta delle donne, divise affettivamente, ma unite tenacemente nell’ideologia gender. E così la triade di giudici al femminile ha ordinato all’ufficiale di stato civile di trascrivere la nascita del bambino come figlio di entrambe. Le due obiezioni sollevate dai colleghi di primo grado sono state poi così superate in appello. Innanzitutto, secondo i giudici, «il concetto di ordine pubblico deve essere declinato in funzione dell’interesse superiore del minore». Ma è proprio facendo riferimento al superiore interesse del bimbo – rispondiamo noi – che occorre toglierlo da quel nucleo di convivenza omosessuale che per lui è solo deleterio. E quindi, in questa prospettiva che mira al bene del piccolo, non riconoscere la genitorialità a entrambe le donne è il minimo che si possa fare. Infatti, moltissimi studi ormai da tempo hanno messo in evidenza quanti e quali sono i danni per un bambino cresciuto da una coppia omosessuale. E non si capisce come possa qualificarsi consono all’ordine pubblico la omogenitorialità se questa è così dannosa per i bambini.
In merito poi al fatto che riconoscere la doppia genitorialità sul suolo italiano significherebbe dare la patente di legittimità alla “famiglia omosessuale”, i giudici di appello scrivono che «nel caso in questione non si tratta di introdurre ex novo una situazione giuridica inesistente, ma di garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto in essere da anni, nell’esclusivo interesse di un bambino cresciuto da due donne che la legge spagnola riconosce entrambe come madri». E aggiungono: «non devono essere collegati fra loro il piano del legame fra i genitori e il piano del legame fra genitore e figli». Le convergenze parallele di Moro non sono mai morte. Leggiamo con attenzione e cerchiamo di tradurre dal sofistico al buon senso.
I giudici ci stanno dicendo in soldoni che riconoscere la doppia genitorialità omosessuale non è riconoscere la “famiglia omosessuale”, bensì solo «garantire la copertura giuridica ad una situazione di fatto», cioè garantire a favore del minore tutti quei diritti che sono propri del rapporto di filiazione. Ma questo significa – aggiungiamo noi – riconoscere giuridicamente la doppia genitorialità di due persone omosessuali. Le quali due persone, è vero, non saranno considerate “coniugi” per le nostre leggi – è il distinguo che fanno i giudici tra il legame esistente tra le due donne e il legame che unisce queste al bambino - ma pur sempre saranno considerate genitori legali. Purtroppo però, come ricordato in primo grado, per il nostro ordinamento non esiste il mammo o la babba e se un bambino ha due genitori – anche se non sono sposati - per forza di cose uno deve essere maschio e l’altro femmina. Ergo i giudici di appello hanno preso una decisione contraria agli articoli della Costituzione e alle norme del Codice Civile.
I magistrati inoltre affermano che «la mancata trascrizione dell’atto di nascita limita e comprime il diritto all’identità personale del minore e il suo status». Se è per questo, lo status e l’identità personale del minore sono già stati ampiamente distrutti e devastati permettendo che venisse concepito in provetta, con la tecnica della fecondazione eterologa e infine partorito da una donna che non è la sua madre biologica. Perpetuare questa situazione di procreazione arlecchinesca anche in campo educativo recherebbe ancor più danno al minore.
Infine i giudici dichiarano che il mancato riconoscimento della doppia genitorialità escluderebbe il minore dai rapporti successori nel nostro Paese e inoltre, se il minore venisse in Italia al seguito di una delle due donne non riconosciute come madri dal nostro ordinamento, ciò provocherebbe una serie di problemi legali per il piccolo e per la donna. Risposta: le scelte dei padri, anzi delle madri, ricadono sui figli. Si chiama assumersi la responsabilità delle conseguenze dei nostri atti. Non si possono violare leggi di natura e civili e poi chiedere ai giudici e allo Stato di rendere immuni noi e i nostri figli dalle conseguenze negative delle nostre decisioni. Troppo comodo.
Un ultimo appunto. Per il nostro ordinamento giuridico “madre” è colei che partorisce. Tale norma fu scritta quando le follie delle provette e degli uteri in affitto non erano ancora approdate sul nostro pianeta. Ma la vicenda spagnola, per alcuni versi analoga a quella accaduta al Pertini di Roma di alcuni mesi fa, ci dice che oggi chi partorisce non è detto che sia la vera madre biologica. Questa è colei che ha dato il proprio ovocita per essere fecondato. Di fronte a simili futurismi genitoriali le nostre leggi dovranno innalzare alti argini, necessari per tutelare il vero e unico concetto di “famiglia” e i figli.
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