mercoledì 29 febbraio 2012


Transgender: in Nuova Zelanda non si accetta la realtà della natura umana, Corrispondenza romana 1231, Bioetica, 29 febbraio 2012, http://www.corrispondenzaromana.it

(di Gianfranco Amato) Uno dei limiti più deleteri dell’ideologia che si ispira alla political correctness è costituito da quella esasperata componente soggettivista che riesce a relativizzare la realtà, per cui quest’ultima non è mai come oggettivamente appare, ma come ogni singolo individuo decide che sia.

E’ accaduto in Nuova Zelanda, dove la società australiana produttrice di assorbenti Libra ha avuto la malaugurata idea di promuovere una pubblicità televisiva, nella quale cui sono state evidenziate le naturali differenze fisiche tra una donna ed un transessuale.

Inevitabile l’accusa di sessismo e transfobia, con conseguente fatwa da parte della suscettibile comunità LGBT. Invitabile anche l’immediato ritiro della reclame incriminata. Quale fosse la bestemmia è presto detto. Si tratta di uno spot pubblicitario – criticato a cominciare dal titolo Libra gets girls (Libra rende donna) –, in cui appaiono, davanti allo specchio di un bagno pubblico, una ragazza e un transessuale che si accingono a truccarsi.

Tra le due figure si ingaggia una sorta di sfida, a colpi di trucco e mascara, per dimostrare chi di esse fosse più femminile, fino  a quando la ragazza – provocata dall’esibizione del seno prorompente del trans – tira fuori dalla borsetta un assorbente. A quel punto la battaglia è impari, ed il transessuale deve abbandonare il campo sconfitto.

A nome della comunità transgender neozelandese prende la parola la attivista Cherise Witehira, che si incarica di condannare senza appello la pubblicità, in quanto pretenderebbe di far passare «l’idea offensiva che l’unico modo per essere fisicamente donna è quello di avere un apparato riproduttivo sessuale, con tanto di ciclo mestruale». Evidentemente una donna non è come natura crea, ma come ciascuno decide che sia. (Gianfranco Amato)

Malattie rare: tutta l'Italia in un registro


Malattie rare soltanto di nome




Tessuti e cellule riproduttive: le regole su import ed export


Dal sonno cibo, un orologio ticchetta in ogni organismo



Le scimmie sono sorelle, parola di Veronesi di Rino Cammilleri, 29-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

Il pianeta delle scimmie è il nostro, esattamente come nella saga hollywoodiana. Con la piccola differenza che le scimmie non si sono evolute affatto, sono sempre le stesse fin dai tempi di Darwin e anche prima. Nè una mutazionie artificialmente indotta da quegli sventati che siamo noi umani le ha istigate a prendere il nostro posto come razza dominante. No, saremo noi umani a far loro posto accanto a noi: prego, si accomodino, dal momento che siamo fratelli.

Sì, fratelli. E sorelle. Parola dell'oncologo emerito Umberto Veronesi, che la notoria pigrizia delle redazioni fa sì che venga intervistato su tutto, dall'amore gay ai primati (nel senso di antropoidi). E' sempre la pigrizia dei redattori a incoronare Tuttologi ultraottantenni fuori servizio come il sopracitato, come Margherita Hack, come Rita Levi Montalcini. Oggi il caso riguarda le scimmie di genere macaco, che la multinazionale Harlan acquista nella solita Cina e intende impiegare per esperimenti nella sua azienda brianzola. Gli animalisti hanno promesso sfracelli e subito si è accodata la ex ministra Brambilla, che, com'è noto, ama talmente gli animali da voler imporne l'amore a tutti.

E' come per le sigarette: lo Stato, per il tuo bene, ti vieta di fumare. Sempre per il tuo bene, dissolve il matrimonio etero. Ed è sempre perchè tu, cittadino qualunque, non sai qual sia il tuo vero bene che adesso devi sopportare anche questa delle scimmie. Dice infatti il Veronesi emerito: "non c'è nessuna ragione al mondo per cui si debbano sacrificare dei primati, che sono nostri fratelli e sorelle". Ipse dixit.

Peccato che un altro oncologo famoso, Silvio Garattini, che è ancora in servizio permanente ed effettivo all'Istituto Mario Negri di Mlano (di cui è, per giunta, direttore), dica il contrario. Dice esattamente che la sperimentazione sulle scimmie è e rimane "fondamentale". A lui si aggiungono i Nas, che non hanno trovat o alcunché di irregolare in quel che fanno alla Harlan. Nemmeno i controlli del Ministero della Salute hanno di che lamentarsi.

Bene, qui abbiamo due scuole di pensiero: una del tutto ideologica a cui fanno capo l'ex ministro del turismo di fulvo crine e il Veronesi, che della razza umana ha un'opinione singolare (sostenne, non molto tempo fa, che l'amore omosessuale è il più puro, appunto perchè non figlia); l'altra, quella oggettivamente scientifica dei Nas, di Garattini e del Ministero competente. Si noti che gli appartenenti alla prima scuola sono gli stessi che proclamano il primato e l'infallibilità della Scienza a ogni piè sospinto. Ma, da buoni giacobini, tendono a chiamare Scienza quel che frulla loro nel cervello, e Oscurantisti chi non la vede come loro. Sognano l'Arcadia, quella col cibo naturale e filosofici pastorelli che parlano con gli animali, dove il leone pascola con l'agnello e bianchi mulini ad acqua macinano biscotti. Dèjà vu: l'Illuminismo cominciò con l'Arcadia e finì con la ghigliottina per chi non si adeguava. La sola differenza è che oggi la Fraternité viene estesa ai macachi.

martedì 28 febbraio 2012

Disumane teorie bioetiche - Invasioni barbariche



Denunciati aborti in base al sesso in Gran Bretagna - Quando la gravidanza non risponde ai desideri di Giulia Galeotti, 26 febbraio 2012, http://www.osservatoreromano.va

Il Governo di Londra ha aperto un’inchiesta sulle rivelazioni del «Daily Telegraph»: alcuni medici del servizio sanitario nazionale britannico hanno praticato aborti sulla base della sola motivazione che le donne erano scontente del sesso del feto che portavano in grembo. Il Governo di Sua Maestà è intervenuto perché — ha ricordato il ministro della Sanità, Andrew Lansley — «la selezione del sesso del nascituro è illegale». Dal reportage del quotidiano britannico è emerso anche che i medici si dicevano pronti a falsificare i documenti per far abortire le donne pur sapendo di violare la legge. Due dottori sono già stati sospesi.
Illegale, moralmente ripugnante: in tanti sono inorriditi dinnanzi allo scenario svelato dall’indagine condotta dal reporter che ha accompagnato in incognito diverse donne in nove cliniche del Regno. Inorriditi perché la selezione in base al sesso, denunciata fino a ieri solo in Paesi lontani, è arrivata ormai negli ospedali occidentali.
In realtà, però, il trend non è nuovo nemmeno in questa parte del globo: da tempo, ad esempio, alcune giornaliste vanno denunciando come nelle cliniche statunitensi che eseguono la nascita in provetta, la selezione embrionale in base al sesso sia diventata una realtà diffusa. Ad oggi, la difesa è stata alquanto sofisticata: non si decide in base al sesso se far nascere un feto; in base al sesso si sceglie quale feto fare nascere. Un cavillo giuridico incapace, però, di scalfire il nodo morale sottostante.
Se molti dunque sono inorriditi leggendo l’inchiesta del «Daily Telegraph», tante già sono state le dichiarazioni che — più o meno timidamente — hanno cercato di gettare acqua sul fuoco. Aprire delle riserve anche minime sull’aborto, a prescindere del tutto dal loro contenuto, viene infatti sentito come una pericolosa minaccia al “diritto” femminile all’interruzione della gravidanza. Con buona pace della doppia morale che continuerà (per un po’ almeno) a condannare la strage di bambine indiane e a difendere il diritto assoluto delle occidentali a compiere le loro scelte di donne socialmente, culturalmente ed economicamente istruite.
Del resto, la folle deriva denunciata dal quotidiano inglese non è forse la logica conseguenza dell’idea ormai imperante secondo cui un figlio è un bene a cui si ha diritto? Di quella idealizzazione della scelta come unica e assoluta via di emancipazione? Che differenza vi è tra lo scandaloso e antico retaggio dell’idea secondo cui la nascita di una figlia va maledetta (per tutti i motivi che sappiamo) e la scelta fatta sedute a un tavolino di design (per tutti i motivi che possiamo immaginare)? La pratica primitiva che teme la dote di una futura sposa è davvero più colpevole di chi magari, avendo già un maschio, vuole la femmina? Non è in entrambi i casi una gravidanza che non risponde ai “desideri” di chi aspetta?
  

Avvenire.it, 28 febbraio 2012 – INTERVISTA - Valadier, i filosofi del post-umano di Lorenzo Fazzini

«Si è tentatiti di riprendere la formula di Gaston Fessard a proposito della Francia minacciata dall’ideologia nazista: Umanità, preoccupati di non perdere la tua anima! La perdita di sè mediante la dissoluzione animista avviene quando si rifiuta il pensiero che crea la grandezza umana e ci "distingue" dall’insieme del reale». Paul Valadier, gesuita, filosofo del Centre Sèvres, la facoltà della Compagnia di Gesù a Parigi, risponde con puntiglio all’offensiva postumanista che attraversa il pensiero filosofico contemporaneo. Nel suo recente L’exception humaine (Cerf) traccia la rotta per difendere l’uomo da ogni decostruzione e fuga in avanti verso un umanità postumana.

Professor Valadier, sono numerosi i pensatori che lei critica sotto accusa in quanto precursori o sostenitori del post-umanesimo: Michel Foucault, Judith Butler, Jean-Marie Schaeffer. Perché questa pervicace volontà di superare la persona?
«I pensatori che propugnano il postumanesimo vogliono distruggere l’umanesimo. Ma per sostituirvi cosa? All’orizzonte non si vede nessuna proposta. La mia tesi è la seguente: l’eccezionalità umana va preservata. L’uomo si caratterizza per la sua vulnerabilità; egli però non deve vivere nell’orgoglio della sua specificità all’interno del cosmo. Ritengo che le posizioni di quanti vogliono decostruire l’umano siano pericolose. Quel che si deve costruire è un nuovo umanesimo».

Su quali basi?
«Penso alla celebre definizione di Pascal sulla grandezza e la miseria dell’uomo. La ragione non condanna l’essere umano al dominio della natura. Essa deve puntare alla previsione: l’uomo è vulnerabile, perciò bisogna prevedere le medicine per curarlo; possono esserci carestie, bisogna accumulare cibo in previsione di quei periodi di difficoltà; ci saranno tempi di gelo, bisogna prevedere la costruzione di case. Questo non significa un’attitudine dispotica: la ragione umana - come sosteneva il filosofo belga Jean Ladrière - non è solo dominio. Eppure siamo "obbligati" ad essa dalla nostra natura. Certo, la ragione può diventare folle: lo vediamo nella distruzione ecologica attuale, ma non per questo dobbiamo buttar via (come si suol dire) il bambino con l’acqua calda».

Lei denuncia anche come oggi i postumanisti mettano "il cristianesimo alla sbarra degli accusati". L’anti-cristianesimo di questi pensatori è essenziale o un tratto derivato del loro pensiero?
«Schaeffer lo dice esplicitamente: il dominio forsennato dell’uomo sulla natura, con le conseguenze negative in termini ecologici, proviene dalla Bibbia. E quindi l’elemento ebraico-cristiano deve essere abbattuto. Io invece sostengo qualcosa di diverso: se si legge davvero la Genesi, si vede come l’uomo sia anzitutto vulnerabile e separato dalla natura, che egli deve governare ma non in modo dispotico. In fin dei conti, dietro la posizione decostruzionista, io rintraccio un certo buddismo edulcorato, per cui l’uomo si confonde con la natura e quindi dovremmo tornare alla visione di una Terra Madre (Gea). Qui s’annida un’idea che risale al pensiero di Schopenauer, il quale si diceva cristiano, ma in realtà il suo pensiero era buddhista. Egli propugnava un annullamento del soggetto umano per far spazio alla natura. Tale posizione schopenaueriana è arrivata a noi con gli strutturalisti e ora con i postumanisti. In realtà la tradizione biblica, che è ebraico-cristiana, suppone che il soggetto umano sia diverso dall’universo, ma al tempo stesso che non ne sia il distruttore tirannico».

Quindi, il postumanesimo va sia contro il cristianesimo sia contro la classicità greco-romana e il pensiero occidentale…
«In questa linea di pensiero esiste una critica al razionalismo filosofico, ma allo stesso tempo un sentimento anticristiano spiccato: non dimentichiamo che Cartesio si diceva cristiano! Nei postumanisti troviamo il rifiuto dell’intero universo biblico. Nel mio libro parto dall’immagine della creazione di Adamo dipinta da Michelangelo nella Cappella Sistina: orbene, è l’uomo che trova il proprio volto in quello di Dio, non la formica! Che io sappia Dio non si è rivelato agli insetti, ma all’uomo! L’essere umano è il vero volto di Dio sulla terra».

Il pensiero teologico è all’altezza della sfida dei postumanisti?
«Penso che la teologia, soprattutto cattolica, oggi non sia sufficientemente attrezzata. Noto inoltre un certo paradosso: da un lato la teologia si ripiega su se stessa in maniera identitaria, dall’altro gli ultimi due Papi sottolineano molto il ruolo importante della ragione. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno ribadito che la fede si deve confrontare con la razionalità e la ragione deve restare aperta a ciò che la fede suggerisce. Comunque, grazie all’insistenza dei pontefici, cresce la consapevolezza che non possiamo fare a meno di una teologia che si confronti con il pensiero contemporaneo».

Lei "salva" Cartesio e Hans Jonas nella sfida con i postumanisti: oggi quali pensatori "laici" considera alleati?
«Senza consacrarlo come teologo cattolico, penso che Jürgen Habermas sia un interlocutore decisamente interessante e un grande filosofo. Così come un suo discepolo "infedele" (come sono tutti i discepoli …), il tedesco Axel Honneth, abbia molto da dirci».

E i veri "nemici" dell’umanesimo?
«Mi preoccupa la visione decostruzionista di Jacques Derrida. E poi la teoria del genere suscita in me preoccupazione: Butler è una filosofa molto intelligente, ma le sue idee (al di là della giusta denuncia di un certo machismo nel pensiero occidentale e del suo allarme ecologico) sono fuorvianti: seguendola, non si sa più chi è l’uomo e la donna, non esiste più un’identità chiara della persona».

La guerrigliera, l'aborto e l'illuminazione



Se il Giudice Ordina la Cura Di Bella e Mancano i Soldi per Terapie efficaci - ADRIANA BAZZI - CORRIERE DELLA SERA, 28 FEBBRAIO 2012

Ci risiamo. Alla fine degli anni Novanta Carlo Madaro, pretore a Maglie, in Puglia, aveva emanato un'ordinanza che imponeva all'Asl salentina di somministrare la cura Di Bella (una politerapia anti-cancro inventata dal modenese Luigi Di Bella) a un giovane paziente. E aveva dato il la a un dibattito sul diritto alle cure (anche non «certificate» dalla ricerca scientifica) e alla loro rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale (Ssn). In questi giorni un altro giudice di Bari, Maria Procoli, ha riaperto la questione, su ricorso di un malato di tumore, e ha ordinato all'Asl di fornire i farmaci al paziente gratuitamente, cioè a carico del Ssn.
Si pongono adesso due problemi, uno vecchio e uno nuovo. Quello vecchio è: i giudici possono trasformarsi in medici e prescrivere una terapia? Il buon senso e le regole della medicina scientifica dicono di no. Oggi si somministra una terapia quando gli studi scientifici dicono che può avere un effetto benefico, per esempio, in termini di aumento della sopravvivenza. Queste prove non sembrano esistere per la cura Di Bella.
L'altro problema, nuovo, è quello delle risorse economiche. Oggi le terapie anticancro sono sempre più costose. I nuovi farmaci «personalizzati», capaci cioè di aggredire particolari tumori a seconda della loro carta di identità genetica, hanno costi esorbitanti. E i sistemi sanitari dei Paesi occidentali stanno facendo due più due. Oggi, tanto per fare un esempio, un farmaco anti-melanoma, efficace nell'aumentare la vita dei pazienti, secondo la letteratura scientifica, rischia di non essere disponibile perché costa troppo.
E allora. Dobbiamo sacrificare questo tipo di farmaci a favore di una terapia Di Bella che non ha conferme scientifiche? Dove dobbiamo «allocare» (brutto termine tecnico) le risorse?
Certo, l'ideale sarebbe dare tutto a tutti (anche quando l'effetto è placebo, cioè determinato dalla suggestione, perché il benessere di una persona può dipendere anche da cure alternative). Ma oggi come oggi i sistemi sanitari devono basarsi su criteri oggettivi per la dispensabilità delle cure e per la rimborsabilità. Perché non si può più dare tutto a tutti.

Le terapie contro il dolore cominciano ad aumentare



È iscritta a parlare l’etica di Paola Binetti 28 febbraio 2012, http://www.liberal.it


L'altro giorno nella Sala Stampa della Camera non ha fatto granché notizia la presentazione di un Codice etico sottoscritto da settanta parlamentari in modo assolutamente bipartisan. Pochissimi i riferimenti sulla stampa nazionale, qualche passaggio in televisione, soprattutto in TG Parlamento. Eppure sulla necessità di rinnovare la politica dal di dentro sono tutti d'accordo. Ce n'è un bisogno urgente: irrinunciabile e indifferibile. Il nostro Paese sembra imputare all'incompetenza e alla corruzione del mondo politico la drammatica situazione economico-finanziaria che gli italiani stanno vivendo. Si chiedono loro competenze concrete, che dimostrino la loro idoneità a legiferare e a governare. Si pretende un cambiamento radicale di stile e di comportamento sul piano etico. Il nuovo Codice proposto dai 70 parlamentari vuole ripartire dall'articolo 54, secondo comma, della nostra Costituzione. L'articolo in questione, sconosciuto ai più, stabilisce che i cittadini chiamati a svolgere funzioni pubbliche devono adempierle "con disciplina ed onore". Un'espressione molto sintetica, ma di grande forza espressiva perché impone non solo il rispetto della "legalità formale", ma anche l'osservanza di principi etico- morali, di cui il popolo italiano ha capito di non poter assolutamente fare a meno. Due parole che sembrano uscite dal lessico comune delle persone: "disciplina ed onore", e come accade quando le parole "muoiono", anche i valori che esprimono sembrano dissolversi rapidamente. Non a caso molte riforme cominciano con i cambiamenti linguistici: la neo-lingua di Orwell ha fatto scuola per decenni. Se non pronunci quelle parole è come se i concetti, i valori, che comunicano sparissero anche loro… Eppure è proprio da lì che occorre ricominciare, senza scivolare in una facile retorica, ma senza neppure farsi condizionare da una anti-retorica strumentale alla cancellazione dei valori in gioco. Occorre dire con semplicità, con chiarezza e con fermezza che i nostri Padri costituenti avevano, e hanno ancora oggi, assoluta ragione quando pretendono un forte senso dell'onore e della disciplina da chi svolge ruoli pubblici. Da questa norma costituzionale si deduce infatti che coloro che ricoprono incarichi istituzionali debbono compiere le proprie funzioni in modo imparziale, nel pieno rispetto della legge. Debbono perseguire l'interesse pubblico, collaborando lealmente con i diversi poteri dello Stato. Debbono improntare i propri comportamenti alla sobrietà, alla serietà ed alla morigeratezza indispensabili in quanti sono chiamati a rappresentare il Paese e le sue Istituzioni democratiche. Da qualche decennio invece si nota l'emergere di stili di vita difficilmente compatibili con la dignità di chi governa e con il decoro delle istituzioni e della vita pubblica. Si assiste a comportamenti in stridente contrasto con il tradizionale patrimonio morale del popolo italiano, che dai suoi legislatori e dai suoi governanti si attende un concreto esercizio delle cosiddette virtù repubblicane. Il senso dell'onore è il contenuto pregnante di queste virtù, mentre il senso della disciplina rappresenta lo sforzo necessario, costante, per passare dai propositi ai fatti, dalle belle parole alla realtà. Occorre ricominciare da valori facilmente riconoscibili come l'onestà e la sobrietà, la giustizia e la competenza, la lealtà e il rispetto per la verità, la mancanza di conflitti d'interessi e la solidarietà, soprattutto quando è in atto una pesante crisi economica che penalizza le famiglie più a rischio. Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica è stato segnato proprio dalla drammatica scoperta che quell'ethos condiviso, a cui è in gran parte attribuibile il miracolo italiano degli anni del primo dopoguerra, si era ormai dissolto nella coscienza di molti dei suoi governanti. La seconda Repubblica sarebbe dovuta ripartire da un rinnovato impegno sul piano dell'etica pubblica, un impegno che cancellasse lo squallore della corruzione dilagante, vero cancro già ampiamente metastatizzato della nostra società, e così efficacemente denunciato da Mani pulite. Questa speranza si trasmise rapidamente agli italiani, che sentivano un urgente bisogno di ricominciare a credere e a sperare nella possibilità di contare su di una buona politica. Oggi, 20 anni dopo, gli italiani scoprono che quella malattia non era stata estirpata, che si è riprodotta e la nostra società stenta a credere che si possa guarire da un cancro così malignamente diffuso: dubita del malato, delle medicine e dei potenziali medici. Nell'opinione pubblica, ormai già da alcuni anni, si stanno diffondendo sentimenti di profondo disagio e di insofferenza per la condotta di quegli uomini politici, che venendo meno alle responsabilità connesse agli incarichi istituzionali hanno avuto comportamenti inadeguati al loro ruolo. Hanno cercato di assicurare a sé stessi o ai propri "amici" vantaggi legati alle funzioni che svolgono, abusando dei propri poteri e delle risorse di cui dispongono in ragione dell'ufficio che ricoprono. La risonanza che trova sulla stampa l'informazione relativa alla condotta pubblica e privata di questi uomini politici insinua nella opinione pubblica che non si tratta di casi isolati, ma di uno stile e di un modo di procedere di tutta la politica. Non è certamente così, ma la condotta di chi ricopre incarichi pubblici non dovrebbe mai perdere di vista una sua specifica esemplarità. Le cadute di tono di alcuni politici, spesso oggettivamente molto gravi, amplificate dai media anche per i pesanti risvolti penali che mostrano, creano un effetto alone che coinvolge l'intera classe politica. A cominciare da coloro che condividono con lui la stessa appartenenza politica o per qualsiasi ragione hanno con lui un qualche motivo di prossimità. L'argomentazione che con mag- itagiore frequenza risuona è: «Non potevano non sapere, perché non potevano non vedere, non sentire…». E oggi è diventato impossibile, anche per gli "innocenti"giustificare la propria mancanza di reazione, trincerandosi dietro un generico rispetto della privacy o una presunta discrezione. Tra le colpe dei politici più in voga in questo momento c'è anche quella di omissione: la mancata denuncia di un comportamento scorretto, la tendenza ad ignorare legittimi sospetti, stanno assumendo la forma di una complicità pigra, ma non inerte. Parte integrante del senso dell'onore di cui parla il già citato articolo 54 è anche il coraggio della denuncia, la forza dell'indignazione davanti al male, la concretezza dell'intervento proposto come alternativa efficace davanti ad una conclamata forma di corruzione o di conflitto di interessi. Lo stesso Benedetto XVI nel recente Messaggio per la Quaresima, rivolgendosi a tutti, senza distinzioni di ruolo, ha ricordato il valore di una antica tradizione della Chiesa: la correzione fraterna, oggi caduta in parziale disuso. «E qui desidero richiamare un aspetto della vita cristiana che mi pare caduto in oblio: la correzione fraterna», e citando il Libro dei Proverbi ha ricordato: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» e subito dopo si è soffermato ad analizzare cosa significhi correzione fraterna: la denuncia di chi indulge al male… «Non bisogna tacere di fronte al male. Penso qui all'atteggiamento di quei cristiani che, per rispetto umano o per semplice comodità, si adeguano alla mentalità comune, piuttosto che mettere in guardia i propri fratelli dai modi di pensare e di agire che contraddicono la verità e non seguono la via del bene. Il rimprovero cristiano, però, non è mai animato da spirito di condanna o recriminazione; è mosso sempre dall'amore e dalla misericordia e sgorga da vera sollecitudine per il bene del fratello». Il codice etico, sottoscritto da parlamentari credenti e non credenti, vuole ripartire anche da qui. Dal coraggio della denuncia, quando necessario, ma senza appiattirsi in una posizione di sterile recriminazione, l'obiettivo resta quello di riposizionare continuamente la vita politica nella ricerca della giustizia sociale, nella affermazione convinta che il bene comune è il suo obiettivo essenziale. Non c'è dubbio che lo smarrimento di tanti valori etici abbia accresciuto il distacco tra cittadini e Istituzioni, rendendo queste ultime meno credibili ed affidabili. E come naturale conseguenza abbia generato sfiducia negli operatori economici, che dubitano della capacità del Paese e dei suoi governanti di reagire efficacemente alla crisi in atto. Il Governo Monti ha segnato una linea di discontinuità proprio in tal senso. Attraverso la chiave della competenza specifica, indiscussa, dei suoi ministri ha cercato di armonizzare l'etica del saper fare, con l'etica della comunicazione: il saper dire, rifuggendo dalle facili promesse che cercano un consenso a buon mercato, per attestarsi sul piano di un rigore personale, estraneo a potenziali conflitti di interesse. Evidentemente il Governo Monti si è dato un suo codice etico, a cui cerca di attenersi nei fatti, senza scivolare nella tecnica dell'annuncio fine a se stesso. L'Italia non si è mai trovata tanto chiaramente dinanzi alla verità di una situazione, che le impone di correggere abitudini e stili di vita. Cosa facile da dire, ma difficile da applicare. E il gruppo dei parlamentari che ha presentato la proposta di un proprio Codice etico intende ripartire dalla propria classe di appartenenza: la politica, per poi estendere questa sollecitazione a tutto il Paese, con il preciso desiderio di provare insieme a cambiare comportamenti personali e stile istituzionale. Coloro che hanno sottoscritto la mozione, con cui chiedono l'approvazione di un Codice etico, considerano necessaria l'introduzione di un complesso di regole deontologiche e di meccanismi di controllo e sanzione per garantire, attraverso la correttezza e la moralità dei comportamenti di quanti ricoprono cariche elettive o di nomina politica, l'etica pubblica e l'integrità della classe dirigente politica italiana. È un compito che non può essere lasciato solo all'iniziativa spontanea, pur sempre necessaria. Senza una forte motivazione interiore nessun apparato sanzionatorio risulta efficace. Ma l'autodisciplina delle forze politiche da sola non è sufficiente per prevenire e sanzionare l'illegalità ed il malcostume. È necessario un quadro chiaro e coerente di valori e di regole comuni, per assicurare a tutti i livelli di governo - nazionale e locale - standard uniformi di correttezza e moralità nella condotta di chi è chiamato a ricoprire cariche elettive o di nomina politica. Negli Stati Uniti già da tempo sono stati attivati presso il Congresso degli organi deontologici autorevoli e severi, come il Committee on Standards of Official Conduct della Camera dei rappresentati ed il Select Committee on Ethics del Senato federale. Più recentemente, nel 2008 è stato istituito l'OCE, Office of Congressional on Ethics, organismo indipendente, composto in egual misura da democratici e repubblicani. Il suo compito è quello di indagare su casi di violazione del codice etico da parte di uomini politici, componenti del loro staff, pubblici funzionari, ecc. Sono organismi che svolgono un importante ruolo consultivo a disposizione di parlamentari e funzionari, perché le sanzioni inferte ai comportamenti scorretti sono così pesanti, che è molto diffusa la consuetudine di consultare prima gli esperti che vi lavorano. Davanti all'offerta di un mutuo a condizioni agevolate, il parlamentare in questione chiede prima se può accettarlo o meno. Davanti ad una proposta di sponsorizzazione da parte di una grande Azienda, conviene chiedere prima se è lecito accettarla o se potrebbe configurarsi una sorta di conflitto di interessi. Le lobby svolgono un ruolo molto aggressivo negli USA e c'è una normativa molto precisa che ne disciplina i comportamenti. Altrettanto precisa, pressoché speculare, è anche la normativa che regola i comportamenti dei politici e del loro staff. La linea di demarcazione tra comportamenti eticamente corretti e comportamenti che non lo sono è segnata soprattutto da potenziali forme di conflitto d'interesse, dietro le quali è molto facile scivolare verso una corruzione invasiva e inarrestabile. L'esigenza di innalzare il livello di moralità della politica è stata ritenuta prioritaria anche in Francia, dove nell'aprile dello scorso anno è stato approvato il Code de déontologie della Assemblée nationale e poche settimane dopo è stato nominato il primo Déontologue de l'Assemblée nationale, un Organo volto a garantire l'indipendenza, l'imparzialità e la probità dei deputati francesi. La proposta di un codice etico in questo caso riguarda soprattutto i politici, perché evidentemente l'etica politica deve ricominciare da lì almeno per tre ragioni: perché è lì che ha subito le offese più gravi; perché la politica, nel bene e nel male, resta un punto di riferimento per tutto il Paese; perché una buona politica è anche una politica forte, capace di imprimere un deciso cambiamento di rotta al sistema-Paese. Ma tutto ciò impone ai cittadini un dovere di partecipazione alla vita democratica, che si ispiri rigorosamente a criteri di etica pubblica. Resistere a pressioni ai limiti dell'illegalità è condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre rovesciare almeno due dei paradigmi più perniciosi per il Paese. Quello che vede i furbi sempre in pole position, laddove furbo è un termine antitetico a quello di eticamente corretto e quello di un assistenzialismo diffuso, per cui il principio di sussidiarietà si dissolve, rinunziando ad esprimere la propria dignità creativa e il suo naturale senso di responsabilità, delegando ancora una volta tutto allo Stato, Un liberismo senza regole, totalmente egocentrico, e uno statalismo dirigista sono come Scilla e Cariddi; definiscono una strozzatura del sistema sociale in cui è fin troppo facile andare a sbattere e naufragare. Senza una forte consapevolezza etica i cittadini non possono contribuire alla formazione degli orientamenti politici e delle opzioni legislative necessarie per promuovere il bene comune. Ad un anno dalla fine della legislatura, un gruppo di politici "in carica" propone di rielaborare la difficile esperienza di questi ultimi anni rilanciando la centralità del Parlamento come forza di rinnovamento morale. Si vuole ribaltare una visione sciatta e rassegnata del Parlamento, che lo immagina specchio ed espressione di tutte le debolezze e di tutte le fragilità che connotano il Paese. Il Parlamento non può essere solo una spugna che assorbe interessi individuali, che finiscono col configgere tra di loro, o dinamiche lobbistiche che pure entrano in stato di tensione permanente tra di loro. Il Parlamento può ritrovare il senso della sua mission specifica senza attendere passivamente il nuovo anno e la nuova legislatura, rincorrendo la speranza di un mitico cambiamento che farà nuove tutte le cose. Per questo può e deve ricominciare da oggi: hic et nunc. Non sarà facile, ma sono in molti quelli che ci stanno provando…  

Lettera al cardinale Scola


Malattie rare e farmaci orfani: ricerca & sviluppo per garantire il futuro



«Nessuno parla della buonasanità» di Raffaella Frullone, 28-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

La malasanità fa sempre notizia. Se ne è parlato di nuovo la scorso settimana, in relazione allo scandalo del Pronto Soccorso dell’ospedale romano Umberto I. Casus belli la vicenda di una donna di 59 anni, finita in coma dopo un trauma cranico e ricoverata per 4 giorni nei locali del reparto di medicina d’urgenza dell’ospedale. Se da pazienti la vicenda desta indignazione e scandalo, noi abbiamo voluto interpellare un addetto ai lavori, Carlo Nicora, Direttore generale degli Ospedali riuniti di Bergamo.

Come è possibile che carenze strutturali possano portare a lasciare un paziente così grave in un letto così provvisorio?
 Bisogna fare una premessa generale. Un paziente con una situazione di salute urgente, trasportato al pronto soccorso di un ospedale, di fatto viene preso in carico e contestualmente vengono analizzati i suoi bisogni clinico-terapeutico e assistenziali, garantendo quindi un livello di risposta sicuramente superiore rispetto al territorio. Pertanto il permanere in pronto soccorso, oggi da intendere in modo più completo come medicina d’urgenza, non è di per sé un elemento negativo a patto che terapia ed assistenza siano garantite.
Non conosco se non quanto riportato dalla stampa rispetto alla vicenda Umberto I di Roma e lascio quindi ogni commento alle figure individuate per fare chiarezza, ma le carenze strutturali di per sé sono analizzabili ex ante e quindi conosciute; a questo punto, stante la delicatezza del pronto soccorso, possono essere messi in capo soluzioni o ripieghi organizzativi, gestionali, professionali tutti rivolti al poter offrire la migliore risposta con le risorse disponibili. Purtroppo i miracoli non sono previsti dal Servizio Sanitario Nazionale...

A fare notizia sono sempre i singoli episodi, spesso casi limite, ma che cosa significa davvero parlare di malasanità, quali sono i problemi reali dei nostri ospedali e quali  gli elementi necessari per garantire il circolo virtuoso dovuto ai pazienti?
 Statisticamente e forse per logiche di mercato, gli organi di comunicazione in generale e quindi anche per la sanità enfatizzano spesso la metà marcia della mela.
Individuare quali sono i problemi reali dei nostri ospedali non è certamente semplice sia per la presenza di sistemi sanitari regionali differenti sia per l’eterogeneità degli ospedali a livello nazionale. Credo sia utile porre l’accento su un aspetto cruciale quello della responsabilità individuale e aziendale. Non solo nel senso giuridico del termine, che in sanità tutti enfatizzano, ma soprattutto in quello personale, cioè nella capacità di mettersi in gioco, di prendersi carico dei problemi, di trovare risposte efficienti ed efficaci. 

Come possono personale medico e infermieristico lavorare in situazione in cui ci sono gravi carenze gestionali e strutturali? E’ possibile sopperire? Come?
 Per come è formulata la domanda mi viene da rispondere che tale modalità di lavoro non deve rappresentare la norma ma eventualmente essere limitata a brevi periodi e per cause  non prevedibili o straordinarie, dove peraltro la disponibilità delle professioni mediche ed infermieristiche si conferma sempre, rappresentando un aspetto di quella responsabilità di cui sopra. In alternativa i vari livelli di responsabilità in azienda (direzione sanitaria, direzione di struttura complessa, direzione infermieristica) hanno il compito/dovere di affrontare le differenti situazioni trovando soluzioni, soprattutto evitando il ”non è di mia competenza”.

Quanto conta l’approccio del medico alla professione? E’ possibile mettere al centro l’uomo anche in situazioni complesse e che impediscono di esercitare la professione come si dovrebbe?
Sembra un paradosso ma le attività dei Pronto Soccorso, se analizzate su lunghi periodi, sono ripetitive e quindi facilmente interpretabili. A questo punto, con una flessibilità che va oltre alla routine ma che risponde ad un bisogno sanitario a cui dare risposta con le risorse a disposizione, è possibile organizzarsi in modo nuovo (turnistica del personale  periodica, riduzione dei ricoveri programmati in situazione di crisi del PS, ecc).
Qualunque sia la complessità organizzativa e i problemi che deve risolvere, il rapporto con il paziente non viene né può essere messo in discussione o sacrificato; a mio parere spesso questo alibi, se analizzato fino in fondo e in maniera responsabile, è un falso problema.

Lei dirige una struttura importante nel Nord Italia, quante storie di buona sanità non vengono raccontate?
Tante, anzi direi tantissime e del fatto che restino nascoste me ne dispiaccio personalmente e per tutti i miei collaboratori. Ci sono esempi non solo di grande eccellenza clinica ma di grande umanità, capacità di accoglienza e di speranza che non fanno notizia. Fortunatamente molti pazienti ci testimoniano ogni giorno, con comunicazioni dirette o tramite le lettere ai giornali, la loro riconoscenza.


E’ possibile che il numero crescente di denunce di casi di malasanità sia dettato dal mancato rapporto di fiducia tra medico e paziente? Come è possibile ricostruire questa fiducia?
L’aumento delle denunce riflette un crescente livello di conflittualità sociale, che stiamo osservando nel mondo occidentale, e che spesso riduce l’atto medico ad un contratto tra le parti. Non dobbiamo dimenticare che in questi ultimi anni, in molti ospedali, tantissimo è stato fatto per migliorare la comunicazione con i pazienti: URP, carta dei servizi, qualità totale, accreditamento all’eccellenza, indagini di customer, risk management, codice etico. Personalmente ritengo decisivo ricordare sempre, a me stesso e ai miei collaboratori, lo scopo del nostro agire quotidiano e cioè dare la miglior risposta ad un bisogno di salute dei nostri pazienti. Sembra poco, ma cambia totalmente la prospettiva e questa è un’arma vincente.

Procreazione, la risposta non viene dalla tecnica di Massimo Introvigne, 28-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it

Sabato 25 febbraio Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i partecipanti alla XVIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, dedicata al tema «Diagnosi e terapia dell’infertilità». Un tema che interessa alla Chiesa, ha detto il Papa, perché «esprime la possibilità concreta di un fecondo dialogo tra dimensione etica e ricerca biomedica».

Le persone non sono cose né animali, e di fronte ai problemi dell’infertilità occorre «richiamare e considerare attentamente la dimensione morale, ricercando le vie per una corretta valutazione diagnostica ed una terapia che corregga le cause dell’infertilità». Si tratta infatti «non solo di donare un figlio alla coppia, ma di restituire agli sposi la loro fertilità e tutta la dignità di essere responsabili delle proprie scelte procreative, per essere collaboratori di Dio nella generazione di un nuovo essere umano». La scienza può fornire strumenti preziosi di diagnosi e di terapia, ma sempre ricordando che «l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico “luogo” degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono».


La Chiesa chiede «una scienza che mantiene desto il suo spirito di ricerca della verità, a servizio dell’autentico bene dell’uomo, e che evita il rischio di essere una pratica meramente funzionale». La dignità della procreazione, infatti, «non consiste in un “prodotto”, ma nel suo legame con l’atto coniugale, espressione dell’amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale». Il Papa cita l’Istruzione «Donum vitae» del 1987 della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo la quale «per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna» (n. 126). Questo ha dirette implicazioni per il problema dell’infertilità. «Le legittime aspirazioni genitoriali della coppia che si trova in una condizione di infertilità devono […] trovare, con l’aiuto della scienza, una risposta che rispetti pienamente la loro dignità di persone e di sposi», il che significa resistere «al fascino della tecnologia della fecondazione artificiale».


Questa resistenza è anzitutto culturale. Il Pontefice ricorda che «in occasione del X anniversario dell’Enciclica Fides et ratio, ricordavo come “il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. È questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità” (Discorso ai Partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 16 ottobre 2008: AAS 100 [2008], 788-789). Effettivamente lo scientismo e la logica del profitto sembrano oggi dominare il campo dell’infertilità e della procreazione umana, giungendo a limitare anche molte altre aree di ricerca».

Dopo questo attacco molto duro ai pregiudizi ideologici e alla brama di denaro che spesso stanno dietro al mercato della fecondazione artificiale, Benedetto XVI assicura che «la Chiesa presta molta attenzione alla sofferenza delle coppie con infertilità, ha cura di esse e, proprio per questo, incoraggia la ricerca medica». Ma la Chiesa sa anche che «la scienza, tuttavia, non sempre è in grado di rispondere ai desideri di tante coppie». E ricorda «agli sposi che vivono la condizione dell’infertilità, che non per questo la loro vocazione matrimoniale viene frustrata. I coniugi, per la loro stessa vocazione battesimale e matrimoniale, sono sempre chiamati a collaborare con Dio nella creazione di un’umanità nuova. La vocazione all’amore, infatti, è vocazione al dono di sé e questa è una possibilità che nessuna condizione organica può impedire. Dove, dunque, la scienza non trova una risposta, la risposta che dona luce viene da Cristo».

L’infertilità accettata con cristiana rassegnazione alla sofferenza può dunque essere occasione di crescita spirituale. Ma questo è oggi difficile da far capire, «in un contesto medico-scientifico dove la dimensione della verità risulta offuscata» e dove il Papa ricorda il suo stesso «accorato appello espresso nell’Enciclica Deus caritas est: “Per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. […] La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio” (n. 28). D’altro canto proprio la matrice culturale creata dal cristianesimo – radicata nell’affermazione dell’esistenza della Verità e dell’intelligibilità del reale alla luce della Somma Verità – ha reso possibile nell’Europa del Medioevo lo sviluppo del sapere scientifico moderno, sapere che nelle culture precedenti era rimasto solo in germe».


Anche sul terreno dell’infertilità si combatte dunque la battaglia fra un ottuso scientismo e una scienza aperta alla fede e quindi alla vera dignità della persona. Benedetto XVI conclude con un forte appello agli scienziati: «Non cedete mai alla tentazione di trattare il bene delle persone riducendolo ad un mero problema tecnico! L’indifferenza della coscienza nei confronti del vero e del bene rappresenta una pericolosa minaccia per un autentico progresso scientifico». E ricorda loro «l’augurio che il Concilio Vaticano II rivolse agli uomini di pensiero e di scienza: “Felici sono coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri” (Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza, 8 dicembre 1965: AAS 58 [1966], 12)».



lunedì 27 febbraio 2012


AI CONFINI DELL'UMANO: LE SFIDE DELLA BIOTECNOLOGIA - La questione antropologica odierna è stata oggetto del Congresso Internazionale promosso da Famiglia Domani di Luca Marcolivio

 ZI12022704 - 27/02/2012
Permalink: http://www.zenit.org/article-29721?l=italian

CITTA’ DEL VATICANO, lunedì, 27 febbraio 2012 (ZENIT.org) – La tecnologia applicata al corpo umano è arrivata ad un livello di sviluppo tale da iniziare a prospettare seriamente la possibilità di “decostruire” l’uomo, andando oltre la sua stessa natura.
Una dissertazione sui rischi di questa deriva etico-scientifica è stata proposta sabato e domenica scorsi presso il Palazzo San Pio X, durante il congresso internazionale Ai confini dell’umano. La persona umana nell’epoca della rivoluzione biotecnologica, promosso dall’associazione Famiglia Domani.
Nel suo intervento introduttivo, il cardinale Raymond Leo Burke si è soffermato sulla dimensione della sofferenza dell’uomo, alla luce della sofferenza di Cristo che, come richiama San Paolo (Col 24-26), siamo tenuti, in un certo senso, ad assumere, identificandoci con il suo patire.
“Se noi abbiamo la comprensione del mistero della sofferenza, sapremo rispondere a quelli che dicono che questa vita è inutile o non ha senso e non permetteremo che nessuna vita sia sprecata o disprezzata. Ma, come dice Cristo, chi ha fatto questo al più piccolo o al più bisognoso lo ha fatto a me”, ha detto a Zenit il porporato americano.
“Senza questa visione che, in definitiva, è quanto la legge naturale e la retta ragione ci insegnano, il mondo diventa un teatro di violenza e morte”, ha aggiunto il cardinale Burke.
Hai poi preso la parola monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, che ha riflettuto sulla “portata profetica” della Humanae vitae.
L’enciclica promulgata da Paolo VI nel 1968 segna uno spartiacque nella storia del magistero, poiché giunge in un “momento delicatissimo della vita ecclesiale e sociale”, in cui era marcata, all’interno della Chiesa, la tentazione di abbandonare la concezione tradizionale del matrimonio e della famiglia.
Era egemone, in quegli anni, “un vero e proprio complesso di inferiorità nei confronti di quella tecnoscienza che tendeva a considerare famiglia e vita come oggetti di conoscenza scientifica e di manipolazione tecnologica”, ha osservato monsignor Negri.
La Humanae Vitae, in definitiva, metteva in guardia dalle degenerazioni che avrebbero caratterizzato gli anni futuri, in particolare la dissacrazione del rapporto uomo-donna, ridotto a “fatto biologico e sessuale, senza nessuna grandezza umana e ideale”, ha aggiunto il presule.
Le conseguenze disastrose della disobbedienza al magistero sui temi della vita sono state sottolineate da Mercedes Wilson, presidente dell’associazione Family for the Americas, la quale posto l’accento in particolare sulla diffusione delle malattie veneree e sul crollo demografico.
L’integralità del concetto di vita umana è stato illustrato da Rainer Beckmann, avvocato, magistrato e docente di medicina legale all’Università di Heidelberg. Essendo la persona umana “ben di più di un oggetto fisico” ma “un insieme di corpo e anima”, la fine della vita è determinata esclusivamente dalla separazione dei due principi.
Non è valido, pertanto, secondo Beckmann, il criterio della “morte cerebrale”, nella misura in cui l’essere umano non può essere identificato con la sola attività del cervello. Si può parlare di morte a tutti gli effetti esclusivamente quando “tutti gli organi vitali cessano di funzionare in modo irreversibile”, ha affermato il giurista tedesco.
L’ambiguità rappresentata dalla “morte cerebrale”, del resto, come sottolineato dal filosofo Joseph Seifert (Pontificia Università Cattolica del Cile), si presta a numerosi abusi nella pratica del trapianto di organi vitali.
Di carattere etico-giuridico sono state le considerazioni del professor Mario Palmaro, docente di filosofia del diritto all’Università Europea di Roma. Per ciò che riguarda l’aborto, Palmaro ha fatto notare come negli ultimi quarant’anni quasi tutti gli ordinamenti occidentali abbiano legalizzato una pratica che, in precedenza, era moralmente e giuridicamente condannata.
In Europa in particolare vi sono senza dubbio legislazioni più permissive e altre più restrittive sull’aborto ma nessuna di queste può esimersi dall’essere considerata “ingiusta”. Inoltre, ha aggiunto Palmaro, le legislazioni abortiste sono dense di “conseguenze antropologiche” e, indubbiamente, il loro mantenimento non può che contribuire all’assimilazione, a livello di massa, di una mentalità contro la vita.
Un aspetto del problema, che ormai è sempre meno tabù, è rappresentato dagli studi sulla sindrome post-aborto, illustrati dalla professoressa Claudia Navarini, docente di filosofia morale all’Università Europea di Roma.
Il mito ideologico della “autodeterminazione della donna” ha portato per molti anni a rimuovere le gravi conseguenze fisiche e psicologiche che si manifestano nelle donne che praticano l’aborto volontario.
Tuttavia è ormai evidente, dalla letteratura più recente, la fortissima incidenza di sindromi quali l’insonnia, la depressione, il calo di autostima, fino alle tendenze suicide tra le madri mancate, anche a molti anni di distanza dall’avvenuta interruzione di gravidanza.
Un’altra deriva antropologica odierna è quella relativa al gender, ovvero la gestione della condotta psico-sociale della propria sessualità, determinata non dalla natura ma dalla “libera scelta” della persona.
A proposito del gender, la professoressa Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto alla LUMSSA, ha analizzato la questione come un prodotto del post-femminismo, di cui già si registrano conseguenze a livello di diritto internazionale, sulla base di una forzatura del principio di non discriminazione.
Questa “agenda” implica pressioni da parte delle lobby omosessualiste internazionali per la totale equiparazione dei diritti di gay ed etero: dal diritto ad un’educazione sessuale libera, al diritto alla contraccezione, fino al cambio anagrafico di identità sessuale e all’adozione di bambini da parte di coppie gay.
Le implicazioni esposte dalla professoressa Palazzani, sono un risvolto particolare di quello che, nel suo intervento, il professor Matteo D’Amico, dirigente e formatore dell’AESPI, ha definito un più generale “totalitarismo biotecnologico”, ovvero l’imposizione di una “religione secolare” e nichilista, fondata sullo strapotere della scienza sulla dignità dell’uomo e sui parametri antropologici della civiltà greco-romana e poi cristiana.
Considerazioni di carattere più schiettamente medico-scientifico, senza trascurare i risvolti etici, sono state apportate dal neurologo brasiliano Cicero Galli Coimbra (Università di San Paolo), dal neonatologo Paul Byrne (Università di Toledo, Ohio) e dal neuro-cardiologo John Andrew Armour (Università di Montreal).
Dopo la commovente testimonianza di Gianna Emanuela Molla, che ha raccontato la splendida parabola umana di sua madre, la santa Gianna Beretta Molla, che, malata di fibroma all’utero, morì dando alla luce la sua ultima figlia, ha chiuso il congresso il professor Roberto de Mattei, docente di storia del cristianesimo all’Università Europea di Roma e presidente della Fondazione Lepanto.
“L’uomo è una persona, titolare di diritti inalienabili, perché ha un’anima. E ha un’anima perché, a differenza di qualsiasi altro vivente, ha una natura razionale”, ha osservato de Mattei.
Lo storico ha poi sottolineato che a nulla giova enfatizzare la titolarità di diritti e il “personalismo”, nella misura in cui, “prima di essere una persona, l’uomo ha una natura”.
E se da un lato l’antropologia cristiana riconosce come naturale la composizione dell’uomo in corpo e anima, l’antropologia materialista appiattisce e riduce l’uomo “al suo sentire, cioè alla sua animalità”.
Apparentata a quest’ultima concezione è anche la già citata teoria del gender che sfida la sessualità naturale dell’essere umano, in realtà creato maschio o femmina, senza ambiguità alcuna.
[Ha collaborato H. Sergio Mora]

Quando la scienza inciampa trova sempre qualche filosofo “d’ufficio”, di Mariano Bizzarri, docente universitario di biochimica - 27 febbraio, 2012, http://www.uccronline.it

«Con questo articolo diamo avvio alla collaborazione con Mariano Bizzarri, docente di Biochimica e professore di Patologia Clinica presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università “La Sapienza” di Roma. E’ direttore del “Systems Biology Group Lab” presso il medesimo Ateneo. E’ segretario generale della ISSBB (Italian Society for Space Biomedicine and Biotechnology) e Presidente del Consiglio Scientifico dell’Agenzia Spaziale Italiana»


Certo, a ben guardare la copertina del n. 1/2012 di Micromega, in cui il ritratto di Che Guevara campeggia a fianco di una sorta di mostro cibernetico, sarebbe ben difficile dubitare che l’uomo – o almeno certi uomini – possano discendere dalla scimmia. Lo aveva già scritto Elio Vittorini – fascista della prima ora e poi redentosi nello scoprirsi improvvisamente comunista, all’indomani del 25 luglio -  quando distingueva tra “Uomini e no”. Così anche per Telmo Pievani , c’è “Scienza” e altre cose che – a suo parere – “Scienza non sono”. Questo modo manicheo di guardare alla ricerca scientifica, accaparrandosi solo i risultati a favore di una tesi precostituita e “rimovendo” tutti gli altri, è invero proprio di coloro che, per la verità, hanno ben poca dimestichezza con la scienza reale. Quella che si fa, concretamente in laboratorio o sul campo. Che insegna molta umiltà e lascia poco spazio al flusso ininterrotto di pubblicazioni che solo un filosofo può permettersi. Ho sempre rilevato quanto fosse anomalo come i più ardenti difensori della scienza positivista allignassero tra i filosofi progressisti, orfani di Marx, incapaci di concepire la Fede se non come un grumo di superstiziosi, costretti a rivolgere il loro bisogno di pietas verso l’idolo ultimo: la Scienza innalzata a suprema dispensatrice di quelle certezze che sarebbero altrimenti  incapaci di  costruirsi.

Per Pievani, enfant prodige coccolato dall’intellighenzia progressista, la teoria di Darwin non è un contributo storicizzato alla ricerca della verità, ma dogma di fede, dato che ha ricevuto ampia e ripetuta conferma sperimentale. Evidentemente Pievani ha poca dimestichezza con l’imponente mole di dati che, pur movendo dalla visione evoluzionistica, hanno nel corso degli ultimi decenni mostrato lacune rilevanti al modello darwinista. Basti, per tutti, citare dall’ultimo libro di Piattelli-Palmarini e J. Fodor, “Gli errori di Darwin”: «Non sappiamo molto bene come funzioni l’evoluzione; non lo sapeva neanche Darwin e non lo sa esattamente […] nessun’altro. Nessuno degli scienziati che lavora in ambito sperimentale è ormai più “un genuino adattamentista”; anche se fanno piacere, questi “riallineamenti” non sono “la norma nella biologia in generale […] certo non sono la norma per l’opinione informata in campi […] come la filosofia della mente, la semantica del linguaggio naturale, la teoria della sintassi, le teorie del giudizio e della decisione, la pragmatica e la psicolinguistica. In tutte queste discipline il neodarwinismo è assunto come un assioma: non viene mai, letteralmente, messo in questione. Una concezione che sembri contraddirlo, direttamente o per implicazione, è ipso facto rifiutata, per quanto plausibile possa sembrare. Interi dipartimenti, riviste e centri di ricerca operano secondo questo principio. Di conseguenza il darwinismo sociale cresce rigoglioso, come il darwinismo epistemologico, il darwinismo psicologico, l’etica evoluzionistica e, il cielo ci scampi, l’estetica evoluzionistica.  Se volete vedere i loro monumenti date un’occhiata alle pagine scientifiche dei quotidiani». Come dir meglio?

Sappiamo però come tale volume sia stato recepito dalla critica. Dopo aver invano cercato di impedirne la pubblicazione in Italia, le corazzate della libera informazione (“Repubblica” e “Corriere della Sera” in testa), lo hanno infangato in tutti i modi possibili. E i due poveri malcapitati, nonostante la loro comprovata competenza e fede anti-religiosa, sono stati messi alla gogna. Il fatto è che la critica al darwinismo va al di là della pur accesa diatriba scientifica. E investe ambiti ideologici (politici) e metafisici. L’adesione (acritica e cieca) al darwinismo è oggi la cartina di tornasole per decidere chi possegga una concezione del mondo “realmente scientifica” e chi sia invece un povero mentecatto. Per Pievani la «scienza [è oggi] in grado di spiegare la meravigliosa e ambivalente unicità di Homo sapiens senza ricorrere a salti ontologici o trascendenze». Siamo contenti che Egli possa trarre da ciò una rassicurante certezza. Ma questa è materia di psicologia. Pievani non ci dice in realtà nulla di come e dove questa verità sia stata acquisita. Un esercito sterminato di ricercatori sta infatti cercando ancora le risposte. Forse Pievani trarrebbe beneficio dal raggiungerli in laboratorio piuttosto che continuare a scrivere libri che, alla lettera, non aggiungono nulla, ma proprio nulla, alla “verità scientifica”. Pievani deve farsene una ragione: quando la comunità scientifica discute ancora accanitamente a proposito di un argomento, questo accade perché è ancora alla ricerca di una spiegazione organica, razionale e non contraddittoria. Insomma, tutto quello che la teoria di Darwin non è.

Un articolo abbastanza recente (M. Lynch, The frailty of adaptive hypotheses for the origins of organismal complexity PNAS, 2007, 104: 8597–8604), ha messo criticamente in evidenza come, a proposito di Darwin, occorra fare chiarezza tra ciò che è il dato scientifico e quello che appartiene alla mitologia che ci si è costruito sopra. E’ utile riproporre questa tabella riassuntiva che bene evidenzia i punti principali del darwinismo su cui, contrariamente a quanto possa pensare o dire Pievani, c’è molto da “discutere”. Nel corso degli anni la teoria dell’evoluzione ha dovuto riconsiderare l’ipotesi lamarkiana (includendo nel modello l’eredità epigenetica e quella acquisita), ridimensionando il ruolo delle mutazioni e della selezione naturale, ammettendo l’incapacità di spiegare i “salti” evoluzionistici, gli “anelli mancanti” (stiamo ancora cercandoli da qualche parte), e i processi morfogenetici. Pievani cita incautamente il “caso”, assimilandolo quasi ad “arbitrarietà”. Proprio la disciplina che più estensivamente ha studiato il “caso” (pensiamo qui alla termodinamica dei sistemi dissipativi del Nobel Prigogine) ha contribuito a rimettere in discussione l’ipotesi darwinista. L’evoluzione dei sistemi dissipativi si svolge infatti per salti (facendo pervenire il sistema su stati stabili noti come attrattori) e non per continuità “progressiva”, come previsto dal darwinismo classico. Gli organismi complessi posseggono una dinamica non lineare, estremamente sensibile alla fluttuazioni di stimoli i più diversi (e non necessariamente genetici), capace di orientare il sistema verso l’acquisizione di un numero definito di forme possibili a fronte delle infinite possibilità teoriche. In altri termini, l’evoluzione è consentita solo se, all’interno dello spazio delle fasi, il sistema riesce a raggiungere uno degli attrattori previsti. L’attrattore ha una straordinaria capacità di resistere alle perturbazioni indotte (mutazioni, cambiamenti ambientali) e ciò ne assicura la stabilità. Questo spiega perché a fronte di infinite possibilità gli esseri viventi – dalla cellula all’Uomo – assumano solo un numero definito di conformazioni (forme), privilegiate da una logica che non è più quella delle interazioni microscopiche (bottom), ma impressa a livello globale dall’alto (top-down).

Le forme non sono quindi accidenti casuali dell’evoluzione, ma correlazioni ottimali prescelte da una ratio. Ed è questa ratio che può sfruttare o meno l’eventualità rappresentata da modificazioni casuali: il caso viene utilizzato per produrre ordine solo se è coerente con il disegno impresso nello spazio delle fasi. Materia per riflessione, non per pamplets ideologici e polemiche pretestuose. Insomma, c’è molto da fare e da capire (come ricercatore ne sono contento: saremmo altrimenti disoccupati!). Darwin – è proprio il caso di dirlo – non è il Vangelo. E prima o poi qualcuno dovrebbe dirlo a Pievani. Il Nostro si può sempre consolare con qualche filosofia orientale. Ma altrettanto chiaramente va detto che strumentalizzare la scienza per sostenere una visione politica e filosofica è ben misero sotterfugio. La verità è che da sempre l’uomo è alla ricerca di una spiegazione del tutto. E’ stata cercata nella magia, nella religione, nella filosofia politica (“proletari di tutto il mondo unitevi e poi capirete…”) e ovviamente nella Scienza. Non mi pare che qualcuno abbia però trovato la soluzione giusta. Questo è l’atteggiamento laico per eccellenza: ammettere le limitazioni, riconoscere i fallimenti. E da qui ripartire, inventandosi un approccio diverso. O magari riscoprendo un uso diverso di vecchi strumenti. Per questo, fare di Darwin un dogma è non solo un errore, ma un’offesa per coloro che la scienza la fanno davvero.

Accoglienti, cioè fertili



Avvenire.it, 25 febbraio 2012 - PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA - Prevalga scienza orientata alla dignità dell'uomo di Benedetto XVI

Signori Cardinali,
venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,

sono lieto di incontrarvi in occasione dei lavori della XVIII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita. Saluto e ringrazio voi tutti per il generoso servizio in difesa e a favore della vita, in particolare il Presidente, Mons. Ignacio Carrasco de Paula, per le parole che mi ha rivolto anche a nome vostro. L’impostazione che avete dato ai vostri lavori manifesta la fiducia che la Chiesa ha sempre riposto nelle possibilità della ragione umana e in un lavoro scientifico rigorosamente condotto, che tengano sempre presente l’aspetto morale. Il tema da voi scelto quest’anno, "Diagnosi e terapia dell’infertilità", oltre che avere una rilevanza umana e sociale, possiede un peculiare valore scientifico ed esprime la possibilità concreta di un fecondo dialogo tra dimensione etica e ricerca biomedica. Davanti al problema dell’infertilità della coppia, infatti, avete scelto di richiamare e considerare attentamente la dimensione morale, ricercando le vie per una corretta valutazione diagnostica e una terapia che corregga le cause dell’infertilità. Questo approccio muove dal desiderio non solo di donare un figlio alla coppia, ma di restituire agli sposi la loro fertilità e tutta la dignità di essere responsabili delle proprie scelte procreative, per essere collaboratori di Dio nella generazione di un nuovo essere umano. La ricerca di una diagnosi e di una terapia rappresenta l’approccio scientificamente più corretto alla questione dell’infertilità, ma anche quello maggiormente rispettoso dell’umanità integrale dei soggetti coinvolti. Infatti, l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio, costituisce l’unico "luogo" degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono.

È mio desiderio, pertanto, incoraggiare l’onestà intellettuale del vostro lavoro, espressione di una scienza che mantiene desto il suo spirito di ricerca della verità, a servizio dell’autentico bene dell’uomo, e che evita il rischio di essere una pratica meramente funzionale. La dignità umana e cristiana della procreazione, infatti, non consiste in un "prodotto", ma nel suo legame con l’atto coniugale, espressione dell’amore dei coniugi, della loro unione non solo biologica, ma anche spirituale. L’Istruzione Donum vitae ci ricorda, a questo proposito, che "per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce con profondissimo vincolo gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna" (n. 126). Le legittime aspirazioni genitoriali della coppia che si trova in una condizione di infertilità devono pertanto trovare, con l’aiuto della scienza, una risposta che rispetti pienamente la loro dignità di persone e di sposi. L’umiltà e la precisione con cui approfondite queste problematiche, ritenute da alcuni vostri colleghi desuete dinanzi al fascino della tecnologia della fecondazione artificiale, merita incoraggiamento e sostegno. In occasione del X anniversario dell’Enciclica Fides et ratio, ricordavo come "il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore svolgono, a volte, un ruolo determinante. È questa una forma di hybris della ragione, che può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità" (Discorso ai Partecipanti al Congresso Internazionale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 18 ottobre 2008: AAS 100 [2008], 788-789). Effettivamente lo scientismo e la logica del profitto sembrano oggi dominare il campo dell’infertilità e della procreazione umana, giungendo a limitare anche molte altre aree di ricerca.

La Chiesa presta molta attenzione alla sofferenza delle coppie con infertilità, ha cura di esse e, proprio per questo, incoraggia la ricerca medica. La scienza, tuttavia, non sempre è in grado di rispondere ai desideri di tante coppie. Vorrei allora ricordare agli sposi che vivono la condizione dell’infertilità, che non per questo la loro vocazione matrimoniale viene frustrata. I coniugi, per la loro stessa vocazione battesimale e matrimoniale, sono sempre chiamati a collaborare con Dio nella creazione di un’umanità nuova. La vocazione all’amore, infatti, è vocazione al dono di sé e questa è una possibilità che nessuna condizione organica può impedire. Dove, dunque, la scienza non trova una risposta, la risposta che dona luce viene da Cristo.

Desidero incoraggiare tutti voi qui convenuti per queste giornate di studio e che talora lavorate in un contesto medico-scientifico dove la dimensione della verità risulta offuscata: proseguite il cammino intrapreso di una scienza intellettualmente onesta e affascinata dalla ricerca continua del bene dell’uomo. Nel vostro percorso intellettuale non disdegnate il dialogo con la fede. Rivolgo a voi l’accorato appello espresso nell’Enciclica Deus caritas est: "Per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. […] La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio" (n. 28). D’altro canto proprio la matrice culturale creata dal cristianesimo – radicata nell’affermazione dell’esistenza della Verità e dell’intelligibilità del reale alla luce della Somma Verità – ha reso possibile nell’Europa del Medioevo lo sviluppo del sapere scientifico moderno, sapere che nelle culture precedenti era rimasto solo in germe.

Illustri scienziati e voi tutti membri dell’Accademia impegnati a promuovere la vita e la dignità della persona umana, tenete sempre presente anche il fondamentale ruolo culturale che svolgete nella società e l’influenza che avete nel formare l’opinione pubblica. Il mio predecessore, il beato Giovanni Paolo II ricordava che gli scienziati, "proprio perché sanno di più, sono chiamati a servire di più" (Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 11 novembre 2002: AAS 95 [2003], 206). La gente ha fiducia in voi che servite la vita, ha fiducia nel vostro impegno a sostegno di chi ha bisogno di conforto e di speranza. Non cedete mai alla tentazione di trattare il bene delle persone riducendolo ad un mero problema tecnico! L’indifferenza della coscienza nei confronti del vero e del bene rappresenta una pericolosa minaccia per un autentico progresso scientifico.

Vorrei concludere rinnovando l’augurio che il Concilio Vaticano II rivolse agli uomini di pensiero e di scienza: "Felici sono coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri" (Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza, 8 dicembre 1965: AAS 58 [1966], 12). È con questi auspici che imparto a voi tutti qui presenti e ai vostri cari la Benedizione Apostolica.

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Avvenire.it, 27 febbraio 2012 – IDEE - Scola: I tre pilastri della Solidarietà, di Angelo Scola

Parlare in modo credibile di solidarietà significa aggirare due regimi di discorso dominanti, che rappresentano ormai due luoghi comuni: la solidarietà come appello retorico, puramente sentimentale, a “fare del bene”; e la solidarietà come maquillage del capitalismo, cioè come “etichetta” per sdoganare con l’inganno un modello economico non raramente predatorio, magari sotto forma di “aiuti umanitari” in cambio di ricchezza. In entrambi i casi, come è facile capire, non è in gioco nessuna “esigenza etica”, né tantomeno una “speranza spirituale”.

È chiaro dunque che la “maniera di dare” (Lévinas) fa davvero la differenza: un conto è dare perché si riconosce una interdipendenza ineludibile e perciò una corresponsabilità in relazione a un bene comune da condividere (il che, guarda caso, è proprio il senso etimologico di solidarietà); un conto è dare perché si ha a cuore solo se stessi.

Forse è per via di questa differenza, divenuta sempre più marcata, che le scienze sociali si stanno dando da fare per mettere in questione la solidarietà, se non addirittura per ripensarla da cima a fondo. La dottrina sociale della Chiesa, dal canto suo, ha ben presente l’impoverimento concettuale cui fa seguito la graduale estenuazione del senso stesso delle buone pratiche solidali. Così non ha rimandato il compito di sfidare i luoghi comuni, suggerendo con coraggio un’articolata architettura. D’altra parte, come si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa (nn. 162-163), i principi della dottrina sociale, tra i quali ovviamente c’è anche la solidarietà, devono essere apprezzati nella loro unità, interrelazione e articolazione. Quindi estrapolare il concetto di solidarietà è già un errore.


Non è allora per caso che Benedetto XVI, in occasione della quattordicesima sessione della Pontificia accademia per le Scienze sociali, ha ritenuto imprescindibile annodare la solidarietà ad altri tre concetti fondamentali della dottrina sociale: il bene comune, la sussidiarietà e la dignità umana. L’idea è questa: perché abbia senso parlare di solidarietà, occorre riconoscere un bene comune sociale, che è innanzitutto il bene dell’essere insieme (in comune).

Di tale bene comune, la solidarietà esprime appunto la compartecipazione nei beni e nei pesi sociali; d’altra parte, se vogliamo godere di questo bene comune in un modo non lesivo della dignità umana non possiamo mortificare (paternalisticamente) l’agire degli attori sociali: la sussidiarietà serve proprio a questo scopo, cioè esprime l’iniziativa (singola o collettiva), altrettanto fondamentale e non riducibile al tutto sociale stesso. Da tutto ciò emerge un vero e proprio schizzo architettonico a forma di croce. Dice infatti Benedetto XVI: «Possiamo tratteggiare le interconnessioni fra questi quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno orizzontale, che rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che rappresenta il “bene comune”».

Ci sono dunque in questo “schizzo” due assi fondamentali che dobbiamo trattenere, se vogliamo smantellare i luoghi comuni del discorso corrente sulla solidarietà. Sull’asse orizzontale: non è possibile rispettare la dignità umana (altro grande luogo comune) senza aver cura solidale di chi è in difficoltà; ma non è possibile una solidarietà autentica senza garantire alle persone una fondamentale libertà di iniziativa. Così, se la sussidiarietà corrisponde alla dimensione di singolarità irriducibile della persona come protagonista e non oggetto della società, la solidarietà corrisponde a quella della appartenenza sociale: duplice dimensione, la cui espressione e il cui rispetto sono indispensabili per una socialità a misura della dignità di ogni persona umana. Sull’asse verticale: il bene comune è il bene condiviso nella stessa socialità, che come bene umano non ha automatica attuazione ma va voluto e praticamente perseguito. Esso sta a fondamento della società, come un bene di persone il cui valore dà sostanza e insieme eccede il bene comune. Per questo il bene comune compiutamente inteso non si conclude con quello storico sociale, ma è aperto al bene comune delle persone come tali.
In questo senso non è possibile rispettare fino in fondo la dignità umana senza adombrare una prospettiva escatologica di compimento della persona e di tutte le persone. Se il bene comune della convivenza diventasse orizzonte intrascendibile, il rischio più grande sarebbe quello della deriva totalitaria, cioè dell’appiattimento della persona entro la soffocante misura di un’aspettativa di salvezza intrastorica: ogni totalitarismo è, in fondo, la divinizzazione di un’idea mondana di vita buona.

Ovviamente questo non deve significare sottomettere la politica al regime della teologia. Significa, però, liberarsi dal delirio di poter garantire da soli la promessa di felicità che spinge gli esseri umani a costruire società ordinate secondo giustizia. Se ora proviamo a leggere sulla base dello schizzo proposto da Benedetto XVI questa necessaria verticalizzazione del bene comune, che cosa succede? Diventa comprensibile quello che già Maritain aveva indicato nel 1947: c’è un bene comune – come san Tommaso insegna – che vale di più del bene dei singoli consociati; ma questo bene comune, che Maritain chiama “bene comune immanente”, vale meno di quel bene cui la comunità umana è ultimamente ordinata e che per Maritain (come per Tommaso) è il «Bene comune increato delle Tre Persone divine».

Si capisce allora perché Benedetto XVI affermi che la vera solidarietà compie se stessa quando diviene carità e che la vera sussidiarietà compie se stessa lasciando spazio all’amore: perché è qui, nella carità e nell’amore, che Dio “accade” come risposta inaudita alla promessa inscritta nel bene comune immanente. Questo schizzo architettonico diventa allora un riferimento essenziale per tutte quelle dinamiche contemporanee che puntano a un’ipotesi di vita buona umanamente sostenibile. In particolare, le due coordinate (orizzontale e verticale) disegnano un framework che sembra diventare irrinunciabile per interpretare lo spazio sociale in senso autenticamente democratico.

L’asse orizzontale (sussidiarietà-solidarietà) è infatti compatibile solo con un’adeguata valorizzazione del protagonismo tipico nella società civile: l’idea, verso cui si stanno orientando le più acute interpretazioni sociologiche contemporanee, è proprio che c’è un capitale di solidarietà che solo gli attori della società civile sono in grado di generare e di cui nessuno Stato democratico può fare a meno. Da qui l’accento posto in maniera decisa su assetti istituzionali in grado di garantire, attraverso il principio di sussidiarietà, la libertà e le forme civili dell’essere insieme.

L’asse verticale (bene comune immanente-Bene comune increato) esige invece quella libertà che, da più parti ormai, viene riconosciuta sempre più consapevolmente come irrinunciabile: la libertà religiosa. Si tratta infatti di giungere a riconoscere che la dimensione socio-politica non può essere l’orizzonte esclusivo della persona umana. Certo, anche solo parlare di questo progetto architettonico è divenuto oggi tanto affascinante quanto impegnativo. Ma questa difficoltà è parte del problema che l’etica cristiana deve affrontare, posto che voglia sostenere ragionevolmente la speranza di una vita sociale degna dell’umano.

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