sabato 31 marzo 2012
Da lunedì in Italia il contraccettivo-abortivo «dei cinque giorni» - L’impostura
della pillola che fa sparire la realtà di Francesco Ognibene, 31 marzo 2012, http://www.avvenire.it/
L’arrivo lunedì prossimo nelle
farmacie italiane di EllaOne, la «pillola dei cinque giorni», non può essere
archiviato come l’esito ineluttabile di un iter autorizzativo, una faccenda di
carte bollate. Il farmaco formalmente va solo ad ampliare l’elenco degli
anticoncezionali in commercio. Ma la sua progettazione, mirata ad allungare da
tre a cinque giorni la "copertura" contraccettiva dopo un rapporto
sessuale per evitare il concepimento, apre questioni che vanno persino oltre la
potenziale abortività del farmaco, contestata dai suoi fan – gli stessi
dell’aborto come "diritto", beninteso – ma di fatto innegabile se si
pensa che la pillola è controindicata in gravidanza e andrà assunta solo dopo
un test negativo di maternità. La partita culturale, educativa e sociale della
«pillola dei cinque giorni», a ben vedere, riguarda anche chi la considera solo
un "contraccettivo d’emergenza", com’è stata catalogata dalla
inesauribile vena creativa di certa burocrazia sanitaria.
Nella diffusa ansia di risolvere
questioni epocali imboccando la prima scorciatoia disponibile, come a voler
chiudere alla svelta i conti con la coscienza, è reperibile infatti uno dei
segni che contraddistinguono il nostro tempo. Quando una domanda che incombe
sulla collettività interessa territori sui quali ormai sono pubblicamente
considerate plausibili molteplici opzioni, scatta l’ossessione della cultura
dominante per la tolleranza e il rispetto dei valori altrui – quali che siano
–, nel nome di una neutralità etica che è la negazione stessa della vita in
comune. E si cerca affannosamente una soluzione che eviti lacerazioni e dissidi,
delegando a ciascuno la scelta del comportamento da assumere al riparo da
qualunque "interferenza". Si lascia fare, basta che non disturbi. È
l’illusione che dentro la società si debba creare una sorta di ambiente
asettico, disinfettato accuratamente da qualsiasi assioma precostituito e
valido per tutti. Ognuno è libero di regolarsi come crede, meglio se nel modo
più semplice e sbrigativo.
Un simile clima culturale –
alquanto opprimente, a ben vedere – assume in modo spontaneo tra i suoi
oggetti-simbolo la pillola: se c’è un nodo che non si sa come sciogliere,
l’ideale è prescrivere o ingoiare una pillola, nella vivissima speranza che
tutto passi, o che almeno nessuno si lagni. Una pasticca ben congegnata ha
l’effetto magico di nascondere le cause del malessere etico e delle domande che
ne nascono, sopprimendo il sintomo. Una soluzione farmaceutica a un
interrogativo diffuso: niente di meglio per chi non vuole storie, o non si
sente di "imporre" ad altri il proprio sguardo sulla realtà. E se la
società mostra chiaramente di non aver più idea di come gestire la sfera
affettiva e sessuale, schiacciandola al solo alfabeto dell’emotività e delle
pulsioni a briglia sciolta, allora l’offerta di un’assicurazione contro la vita
non richiesta finisce con l’assumere la portata di un talismano, meglio se
tascabile come una pillola.
Il profilo di EllaOne, che
l’azienda produttrice si preoccupa di non trasformare in una clava per le
prevedibili battaglie "libertarie" dei soliti noti, commercialmente
pericolose, pare studiato apposta per sedurre la fragile fibra culturale e
pedagogica della società liquida, strizzando l’occhio a una platea di
consumatori giovani o giovanissimi. Lo fa con la sua promessa di allargare
l’ombrello sopra la testa di chi non vuole saperne di associare l’idea della
sessualità al suo possibile e naturalissimo orientamento procreativo.
A forza di far sparire le cose e
i loro nomi, si sta abituando la generazione dei più giovani a sostituire i
desideri ai fatti. E la pillola dei cinque giorni – che non a caso qualcuno
vorrebbe "da banco" come una caramella balsamica – è lì a spegnere
sul nascere ogni inquietudine che spinge a far tornare la consistenza del reale
al posto dell’impostura delle sconfinate "libertà". La consapevolezza
dei propri sentimenti e dei gesti che li esprimono, la responsabilità che nasce
dal sapersi parte della realtà e non di una sua raffigurazione onirica
conformata a piacimento, sono componenti decisive di una personalità e di una
società adulte. Non è però forse la negazione sistematica di queste esigenze
elementari il segno inequivocabile di una resa delle coscienze, di uno
smottamento della pedagogia condivisa?
La questione educativa è materia
sempre più complessa, d’accordo: ma sbrigarsela con una pillola è davvero
troppo.
La verità sulla “pillola dei cinque giorni dopo”? E’ potenzialmente
abortiva - di Giulia Tanel, 29 mar 2012, Bioetica, http://www.libertaepersona.org
Un’inchiesta del canale tematico
Doctor’s life documenta come abortire sia sempre più facile.
Oramai, infatti, bastano 24 ore
di tempo, una connessione internet, un’autocertificazione sul proprio stato di
salute e sessanta euro per vedersi recapitata a casa una confezione del
“farmaco” EllaOne, meglio conosciuta con il nome di “pillola dei cinque giorni
dopo”.
Ma che funzioni svolge, nel
concreto, tale pillola? E quali sono i principi che ne regolamentano la
distribuzione in Italia?
La “pillola dei 5 giorni dopo” va
assunta entro le 120 ore dal rapporto considerato a rischio.
Il principio attivo contenuto
nella pillola EllaOne è l’ulipristal acetato, che appartiene alla categoria
degli antiprogestinici; esso ha la funzione di impedire l’azione del
progesterone, l’ormone che crea le condizioni adatte alla fecondazione
dell’ovulo e all’annidamento dello stesso nell’utero.
Bloccando la produzione del
progesterone, la “pillola dei 5 giorni dopo” impedisce che l’utero si prepari
ad accogliere un eventuale ovulo fecondato che, quindi, una volta giunto
nell’utero non trova pareti fertili dove annidarsi.
Nella sostanza dei fatti, dunque,
EllaOne svolge una funzione potenzialmente abortiva. Il termine
“potenzialmente” serve ad indicare il fatto che nessuno saprà mai se era
avvenuta o meno la fecondazione e se aveva dunque preso il via una nuova vita.
In Italia, nel giugno del 2011,
il Consiglio Superiore della Sanità ha approvato l’introduzione della “pillola
dei 5 giorni dopo”, catalogandola come “contraccettivo di emergenza”.
Da quanto si evince dal paragrafo
precedente, tuttavia, la definizione di “contraccettivo” è errata: un
contraccettivo ha infatti la funzione di impedire la fecondazione, mentre
EllaOne agisce quando essa è già avvenuta, in quanto svolge una funzione
antinidatoria.
Sono già molti i medici che hanno
deciso di fare obiezione di coscienza non prescrivendo tale “farmaco”, in
quando la sua natura è potenzialmente abortiva.
Gli obiettori sono sempre mal
visti, ma in questo caso lo sono ancora di più, in quanto, in Italia, per
acquistare EllaOne sono necessari una prescrizione medica e un test di
gravidanza che sia risultato negativo.
Quest’ultimo particolare del test
è una clausola tutta italiana e ha generato moltissime polemiche. Come ha
evidenziato molto bene in un’intervista a Tempi.it il dottor Renzo Puccetti,
infatti, i test di gravidanza non testimoniano l’avvenuta fecondazione, bensì
l’annidamento dell’embrione dell’utero. Se una donna, dunque, fa un test di
gravidanza il giorno dopo il rapporto sessuale, esso risulterà negativo anche
se è avvenuta la fecondazione.
I problemi connessi ad EllaOne
sono dunque molti.
La prima implicazione è di
carattere morale, in quanto non ci si trova di fronte ad una pillola
contraccettiva, bensì potenzialmente abortiva.
Il secondo aspetto problematico
riguarda il fatto che la commercializzazione di EllaOne è in palese contrasto
con la leggi vigenti in Italia, sempre in virtù della sua potenziale funzione
abortiva.
La terza difficoltà è infine
connessa al test di gravidanza che, nella teoria, dovrebbe essere fonte di
discriminazione, ma che nella sostanza non ha alcuna valenza, in quanto
risulterà negativo anche se la fecondazione è avvenuta.
A questi tre aspetti ne va
aggiunto un quarto, assurto tristemente alle cronache nei giorni scorsi: la
commercializzazione dei farmaci on-line.
Come si evidenziava in apertura
del presente articolo, infatti, ormai abortire è sempre più facile e acquistare
una confezione di EllaOne lo è ancora di più: non servono neanche la
prescrizione medica e il test di gravidanza.
EUTANASIA/ Quella legge sul suicidio che difende i malati terminali - INT.
Alistair Thompson, sabato 31 marzo 2012, http://www.ilsussidiario.net
Il Parlamento inglese ha
approvato una mozione di sostegno alle linee guida sul suicidio assistito
elaborate due anni fa dal Director of Public Prosecutions, Keir Starmer. Al
procuratore nazionale era stato sottoposto il caso di un marito che desiderava accompagnare
la moglie, malata terminale, in una clinica svizzera dove si pratica
l’eutanasia. L’uomo chiedeva alla magistratura se sarebbe stato penalmente
perseguibile per il suo gesto. In risposta, Starmer ha elaborato delle linee
guida in cui si afferma che aiutare una persona a suicidarsi è un reato che va
perseguito se avviene per finalità d’interesse, mentre non lo è se il motivo è
la compassione. Il Parlamento si è espresso a favore delle linee guida, ma si è
rifiutato di cambiare la legge del 1961 sul suicidio in base a cui aiutare
qualcuno a togliersi la vita rappresenta un reato. Ilsussidiario.net ha
intervistato Alistair Thompson, portavoce di Care Not Killing, un’associazione
non profit inglese che promuove le cure palliative e combatte l’eutanasia.
Thompson, dopo questa mozione la
legge inglese è più permissiva nei confronti del suicidio assistito?
Il Parlamento si è trovato a
discutere un emendamento presentato dalla parlamentare Joan Ruddock.
L’esponente laburista voleva che le linee guida sul suicidio assistito
assumessero il valore di legge, cambiando la norma esistente, il Suicide Act
del 1961. Il Parlamento però ha respinto ogni tentativo di modificare la legge.
Ritiene che questa decisione di
non cambiare la legge rappresenti un risultato positivo?
Sì. La legge britannica sul
suicidio, che è in vigore da 41 anni, ha sempre difeso i disabili, gli anziani
e i malati terminali. Si tratta di persone che possono subire pressioni o fare
pressioni su altri per essere aiutati a togliersi la vita. La nostra
associazione ritiene che invece di difendere il diritto all’eutanasia, occorra
impegnarsi affinché i disabili possano accedere alle cure palliative più
avanzate e ad altre forme di assistenza.
Le linee guida introducono una
differenza tra “compassione” e “motivi d’interesse”, stabilendo che
l’assistenza al suicidio può essere perseguita solo nel secondo caso. Che cosa
ne pensa di questa distinzione?
Le linee guida prendono in
considerazione un vasto numero di fattori, e non soltanto le motivazioni, ma
restano ferme sul fatto che aiutare un’altra persona a suicidarsi va contro la
legge. La novità introdotta dal documento di Starmer è che quando qualcuno è
fortemente motivato dalla compassione, e non vi è alcun guadagno finanziario, o
altre forme di guadagno, allora è meno probabile che il pubblico ministero apra
un’inchiesta. Non apre quindi la porta a una legalizzazione del suicidio
assistito attraverso una scorciatoia, in quanto la legge rimane la stessa. Le
linee guida del Director of Public Prosecutions sono né più né meno il testo
redatto da un magistrato, cioè da qualcuno che può interpretare la legge ma non
può cambiarla.
Che cosa l’ha colpita di più del
dibattito sul suicidio assistito al parlamento inglese?
Nel corso del dibattito c’è stato
un discorso molto commovente del parlamentare Craig Whittaker, che ha
raccontato un episodio della sua vita familiare. Il fratello, 17enne e malato
terminale di cancro, fece diverse pressioni sulla famiglia affinché lo aiutasse
a togliersi la vita. Il padre si rifiutò di farlo, ma a distanza di 20 anni,
pur restando convinto di avere fatto la scelta migliore, si trova a combattere
ancora con i sensi di colpa per non avere aiutato il figlio malato. Whittaker
ha osservato che in molti pensano ai diritti dei malati terminali, ma nessuno
si interroga sulla situazione dei familiari che subiscono delle pressioni da
parte di chi chiede loro di aiutarli a morire.
Hanno parlato anche i
rappresentanti dei disabili?
La baronessa Jane Campbell,
affetta da atrofia muscolare spinale fin dall’infanzia, ha tenuto un grande
discorso, sottolineando che numerosi disabili si sentirebbero schiacciati per
il fatto di gravare sulle loro famiglie come un peso per il fatto di dovere
essere accuditi o comportare delle spese. Sarebbe questo a spingerli a chiedere
di porre fine alla loro vita. Il rischio quindi è il messaggio che passi sia
che per chi è disabile o anziano, la vita ha meno valore rispetto a chi è
giovane e sano. Di fatto il Parlamento, pur non cambiando la legge, ha espresso
il suo formale apprezzamento nei confronti delle linee guida sul suicidio
assistito.
Da un punto di vista pratico, che
cosa cambierà per i malati terminali?
Nulla, la legge non è stata
modificata e le linee guida di fatto non introducono alcuna novità sostanziale.
L’importante è che ciascun caso sia indagato a fondo sia dalla polizia sia
dalla procura, e se avvengono pressioni ai danni di persone malate affinché si
tolgano la vita, questi reati siano perseguiti ai sensi della legge. In questo
modo si proteggono le persone più deboli della società.
(Pietro Vernizzi)
venerdì 30 marzo 2012
La prima «iniziativa» nella Ue - Impegno da cittadini di Giuseppe
Anzani, 30 marzo 2012, http://www.avvenire.it
Ci chiediamo spesso se esiste
davvero una cittadinanza europea o no. Non se vi sia da qualche parte una
definizione formale (quella c’è, è nell’art. 17 del Trattato di Maastricht,
però con rango basso, di complemento) ma nel senso sostanziale di una nostra
appartenenza identitaria, noi gente di 27 Paesi senza patria comune. A lungo
abbiamo cullato il sogno di un’Europa unita, lungo il cammino e la fatica di
smorzare i particolarismi, gli inciampi d’orgoglio nazionale, lo scetticismo, i
ripieghi. Dal traguardo ancora ci separa una distanza che mette a prova la
tenacia di credere che là ci conduce il destino, la speranza investita. E per
giunta, se intendiamo per cittadinanza non soltanto l’appartenere a un insieme
che dispensa diritti, ma il contare qualcosa, e l’esser dunque
"sovrani" per qualche sfumatura di potere condiviso, l’emozione è
desolata: l’Europa dei Paesi democratici è in deficit di democrazia. C’è
l’Europa dei mercanti, l’Europa dei banchieri, e quella delle lobby e dei
poteri forti; l’Europa dei cittadini, dei popoli fratelli, della casa comune, è
un approdo non ancora raggiunto.
Dall’umiliazione ci può trarre
fuori, almeno un poco, una novità normativa. Entra in vigore proprio domani un
Regolamento (n. 211/2011) che disciplina la «iniziativa dei cittadini»
introdotta a suo tempo dal Trattato di Lisbona. Se si mettono insieme almeno un
milione di cittadini di almeno sette Stati membri, possono presentare alla
Commissione una richiesta specifica: quella di proporre «un atto legislativo
dell’Unione, ai fini dell’applicazione dei trattati». Non è una pura
«petizione», destinata a marcire nei cassetti. È un diritto di rango analogo
a quello che ha il Parlamento (art. 225)
e il Consiglio (art. 241) secondo il Trattato. La Commissione, entro tre mesi
dal termine di raccolta delle firme, dovrà obbligatoriamente dare risposta.
Ma che cosa giungerà dalla base
popolare verso i vertici delle istituzioni europee? In questi giorni si
annuncia dall’Italia e da Bruxelles, quale prima esperienza assoluta di questa
prova nuovissima di democrazia, l’iniziativa ideata dal deputato europeo Carlo
Casini, presidente del Movimento per la Vita italiano, d’intesa con altri
esponenti dell’Unione, costituiti in Comitato. Il tema è quello della vita. È
la dignità e il diritto alla vita di ogni essere umano, fin dal concepimento. La speranza di questo infaticabile
tessitore di iniziative a favore della vita, anche sul piano normativo (che ha
dato preziose ricadute giurisprudenziali), e l’impegno del Movimento per la
vita in Italia e nei vari Stati sono di raccogliere molto più del milione di
firme necessarie, e di coinvolgere tutti i Paesi dell’Unione.
Una parola nuova, gemmata fra le
parole classiche in uso nell’Europa «dei valori», è il concepito come «uno di
noi». Quante volte nei Trattati si parla di dignità e di diritti umani; è
giusto dire ora per esplicito l’identica appartenenza, per la vita nascente. È
infatti la visione antropologica della vita umana ciò che caratterizza la
civiltà, o segna il tramonto dell’umanesimo in una cultura ostile. E’ in corso
una grande prova.
Per i cristiani c’è qualcosa di
più. È un recupero possibile di quelle «radici d’Europa» sin qui neglette,
delle ragioni antiche e nuove della fede della sua gente.
Lo sguardo che si volge al
concepito in modo evangelico rintraccia quella vicenda divina che ha
intersecato la storia umana (e che nel Simbolo di Nicea si esprime proprio in
quell’attimo: «conceptus est de Spiritu Sancto»); e subito rammenta ciò che la
«Gaudium et Spes» (n. 22) dice del mistero dell’Incarnazione («il Figlio di Dio
si è unito in certo modo a ogni uomo»). La dignità di ogni uomo concepito, cui
è unito il Concepito divino. Una dignità sacra, una intimità ecclesiale. Si
capisce che i vescovi d’Europa, riuniti a Bruxelles, abbiano unanimemente
deciso di appoggiare l’iniziativa.
Ci spetta ora l’impegno di cittadinanza,
ciascuno per la sua parte. Contiamoci a milioni. Che bello cogliere insieme,
col frutto della nuova democrazia, il frutto della vita.
L'inflessibile debolezza delle leggi italiane di Michele Ainis, 30
marzo 2012, http://www.corriere.it
C'è un che di talebano nel nostro
modo d'affrontare le questioni. O di qua o di là, senza vie di mezzo. In mezzo
c'è solo un campo di battaglia, percorso da furori ideologici, intransigenze,
spiriti belluini. Vale per i rapporti di lavoro, come la riforma dell'articolo
18. Per le materie politiche, come la nuova legge elettorale, dove è in corso
una sfida all'arma bianca fra seguaci del proporzionale e del maggioritario.
Per i temi etici, come il testamento biologico o le nozze gay. Uno vince,
l'altro perde.
Il bottino del vincitore è sempre
rinfoderato in una legge, tagliente come lama di coltello sulla gola
dell'esercito sconfitto.
Da qui norme rifiutate da una
buona metà della popolazione, e perciò scarsamente rispettate. Il seme
dell'illegalità trova anche in questo il suo terreno di coltura, in un sistema
di regole percepite come ingiuste, vessatorie. Da qui, inoltre, un ordinamento
punteggiato da miriadi di corpi contundenti, perché le leggi sono troppe, come
i combattimenti ingaggiati dai partiti. Da qui infine lo svuotamento della
funzione stessa della legge. La democrazia è compromesso, diceva Kelsen. La sua
principale istituzione - il Parlamento - serve per l'appunto a favorire il
dialogo fra le parti avverse. Sicché ogni legge dovrebbe riflettere questa
capacità d'ascolto, di comprensione delle ragioni altrui.
C'è modo di siglare una tregua
fra i guerrieri del diritto? Se non sul merito dei singoli provvedimenti
normativi, potremmo forse ottenerla rovesciando il metodo, le procedure
stabilite dalle leggi. E ponendole al servizio di tre nuove virtù cardinali:
flessibilità, provvisorietà, verificabilità. È il caso, per esempio, della
correzione dell'articolo 18. Quali argomenti la sorreggono? Rimuovere un
ostacolo agli investimenti produttivi, liberalizzare il mercato del lavoro per
moltiplicare le assunzioni, dicono i suoi sostenitori. Balle, ribattono i
difensori dello status quo: l'articolo 18 non c'entra un fico secco con la
piena occupazione. In questi termini non ne usciremo mai, salvo consultare il
sindacato degli astrologhi prima di battezzare la riforma. Ma potremmo uscirne
fissando una data di scadenza alla nuova disciplina: un anno, meglio due. E
chiedendo nel frattempo all'Istat di certificarne gli effetti sulla cifra dei
disoccupati. Se diminuiscono, la riforma viene adottata in pianta stabile;
altrimenti le lancette dell'orologio tornano all'indietro.
Un'idea bislacca? Mica tanto.
Venne in mente a Thomas Jefferson, tra i padri fondatori della democrazia
americana. Lui pensava che ogni legge, persino la Carta costituzionale, non
dovesse superare 19 anni di durata, lo spazio d'una generazione. E infatti
negli Stati Uniti è maturata ormai da tempo un'esperienza di sunset law , ossia
un diritto che «tramonta» se l'organo legislativo non lo conferma
espressamente. Leggi a termine, che s'accendono e si spengono come un cerino.
Dunque leggi sperimentali, peraltro col vantaggio di decongestionare
l'ordinamento normativo. In caso contrario le regole anacronistiche rimangono
in vigore per tutti i secoli a venire: e i morti afferrano i vivi. Le leggi
inutili indeboliscono quelle necessarie, diceva Montesquieu.
Anche in Italia, però, non siamo
a digiuno d'esperienze. La legge Golfo-Mosca sulle quote di genere nei consigli
d'amministrazione entrerà in vigore a luglio, garantendo alle donne un quinto
delle poltrone. Dal 2015 la percentuale diventerà un terzo, nel 2022 la legge
esaurirà la sua efficacia. Giusto così: le quote infliggono una deroga al
principio d'eguaglianza (formale), e ogni deroga è giocoforza temporanea,
altrimenti si trasforma in regola. Sarebbe irragionevole moltiplicare questo
modello normativo? Prendiamo il caso della legge elettorale: qui invece serve
un po' di stabilità, ma serve al contempo una normativa duttile, flessibile. E
quindi: voto di preferenza o liste bloccate? Ciascuna soluzione offre vantaggi
e svantaggi. Potremmo allora scegliere il modello danese delle liste variabili,
nel quale ogni partito decide il tipo di organizzazione delle liste con cui si
presenta agli elettori. Dopo di che gli elettori votano, giudicando
contestualmente il metodo applicato dai partiti.
Faremmo molto male a
sottovalutare il peso delle forme, delle procedure. Dopotutto il diritto si
riduce a questo: è una forma che conforma il nostro vivere comune. Quando non
riusciamo a trovare un accordo sulle cose, cerchiamolo almeno sulle regole con cui
facciamo le cose.
"Sarà una bambina? Allora non lo voglio..." Aborti selettivi
a Milano, di Maria Sorbi - 30 marzo 2012, http://www.ilgiornale.it
Milano - Le donne cinesi e
indiane si presentano in ambulatorio, prenotano un’ecografia. E quando vengono
a sapere che sono in attesa di una bambina chiedono di abortire.
«Femmina? - cominciano a piangere
- No, mio marito mi ammazza». Ovviamente nessun ospedale italiano accetta di
assisterle per interrompere la gravidanza, poiché la richiesta viene fatta
troppo tardi rispetto a quanto permette la legge 194. Ma loro si arrangiano per
altre vie. No, non più nei sudici laboratori clandestini, non più con l’aiuto
di chirurghi-macellai che le operano con ferri da tetano.
Ora l’aborto selettivo viene
fatto con una banale pillola, in casa. L’unica difficoltà, ampiamente
superabile, è trovare un medico disposto a firmare una ricetta. In farmacia,
spiegano i medici, esistono parecchi medicinali che servono a tutt’altro e
curano varie patologie (ad esempio la gastrite) ma che tra gli effetti
collaterali possono anche provocare l’aborto. Somministrati con un certo
dosaggio, ecco che portano a interrompere la gravidanza. Producono gli stessi
risultati della pillola abortiva ma senza alcun tipo di assistenza medica. Una
pratica atroce, ma messa ancora in atto, eccome. Non solo in Cina e in India ma
anche dagli asiatici che vivono nelle nostre città, soprattutto nei capoluoghi
più affollati. A dirlo sono le cifre: la differenza fra il numero di maschi e
di femmine, fra i nuovi nati, solitamente dovrebbe aggirarsi attorno a un
fisiologico 5%.
Invece sale al 10-15%. Il
sospetto che quindi si pratichi l’infanticidio femminile e forte. Negli ultimi
quattro anni per ogni cento neonate cinesi in Italia ci sono stati 109 maschi:
percentuale alta ma non altissima, rispetto alla norma di 105. Se però si
considerano solo le nascite dei terzogeniti e dei figli successivi, allora le
cose cambiano e si scopre che la «sex ratio» sale fino a 119. Significa che le
famiglie lasciano al caso il primo figlio e forse anche il secondo: ma, se il
maschio non è arrivato, dal terzo in poi non corrono più rischi e si affidano
all’aborto.
Ancora più avvilenti sono i dati
della comunità indiana in Italia: 116 maschi ogni cento femmine, 137 dal
terzogenito in su. «La discrepanza sospetta tra maschi e femmine - spiega Nadia
Muscialini, responsabile del centro antiviolenza dell’ospedale San Carlo di
Milano - rispecchia la stessa proporzione degli aborti selettivi che vengono
fatti in Cina». «Per di più - aggiunge il medico - affrontiamo anche tanti casi
di spose bambine o ragazzine in attesa che ci chiedono un aiuto per non fare la
fine delle loro madri». Cioè per non doversi sposare in giovane età, per poter
invece proseguire gli studi e per non essere costrette a un destino
preconfezionato né vivere sottomesse a mariti spesso violenti. La struttura di
assistenza aperta fra il pronto soccorso e il corpo divisionale ha raccolto lo
scorso anno 796 richieste di aiuto e 463 sono le donne prese in carico, al 61%
italiane, mentre fra le straniere prevalgono le donne di origine sudamericana
(38%), dell’Est Europa (27%) e dell’Africa (29%).
Tra queste tante richieste,
rifiutate, di aborti post ecografia. E anche tanti casi di violenza: «Il 30%
delle violenze - spiega la Muscialini - sulle donne comincia durante la
gravidanza. E non stiamo parlano dolo di donne straniere ma anche di parecchie
italiane. L’uomo, per una forma di invidia primitiva, esercita così una forma
di possesso, di supremazia».
Un’altra tipologia di donne che
chiedono aiuto è quella delle straniere che lavorano ma che non possono gestire
direttamente il denaro che guadagnano, totalmente in mano al marito.
«Queste donne spesso non hanno
nemmeno i soldi per fare la spesa o per comprate il materiale scolastico per i
figli. Noi le aiutiamo appoggiandoci anche al Banco Alimentare».
Famiglie anche noi, di Tommaso Cerno, 30 marzo 2012, L'Espresso
Conviventi. Gay. Divorziati. Aumentano le unioni di fatto, mentre calano i matrimoni. Ma per lo Stato italiano non esistono. Né hanno diritti
Famiglie fantasma. Coppie invisibili. Lui e lei. Lui e lui. Lei e lei. Convivono, tirano su insieme i figli e pagano le tasse come tutti. Ma per lo Stato non esistono. Sono le nuove famiglie dell’Italia che cambia. Gente che non si sposa perché è vietato, come nel caso degli omosessuali, ma vive come una coppia qualunque. O gente che non ce la fa più. Strozzata dalle lungaggini di un divorzio all’italiana, dove passi anche tredici anni fra aule di tribunale, parcelle e alimenti da versare. E non hai né i soldi né la voglia di risposarti. Gente diversa, con stili di vita differenti. Ma unita da una condizione comune: sono tutti cittadini di serie B, milioni di italiani senza diritti. Niente eredità al partner, nemmeno dopo decenni di vita insieme. In ospedale non entri, passano solo parenti e coniugi. Se vuoi il mutuo agevolato, ti rispondono picche: per lo Stato sei single. Discriminazioni quotidiane contro cui il 13 febbraio ha puntato il dito la Cassazione, con una sentenza che allarga alle coppie gay il diritto di “essere famiglia”. Un’apertura rivoluzionaria che imbarazza la politica, ma incassa la pur timida reazione del ministro Elsa Fornero, e addirittura quella del cardinale Carlo Maria Martini. Riaprendo il dibattito su Pacs e matrimoni gay. Che il Parlamento rinvia da più di vent’anni.
GUERRA DI CIFRE
La nuova radiografia della casa degli italiani parla chiaro. I matrimoni tradizionali sono crollati a 217 mila nel 2010, contro i 230 mila dell’anno prima (trent’anni fa erano 420 mila l’anno). Le famiglie di fatto, al contrario, aumentano a ritmi di Pil cinese, 15 per cento in più ogni anno secondo Istat e Censis. Tra conviventi, divorziati, gay, vedovi che si rifanno una vita e figli con un solo genitore.
Ma quante sono? Difficile fare una stima. E non è certo un caso, attacca Marco Volante, presidente della Linfa, la lega italiana nuove famiglie: “È la politica che nasconde queste coppie. Nessuno vuole scoperchiare il fenomeno. L’Istat raccoglie solo quelle ufficiali. E nel 2001 l’Istat sospese addirittura il censimento con una scusa, perché dava fastidio. Ma le rilevazioni a campione segnano una crescita”. Eccole. Le coppie “ufficiali” – quelle cioè che dichiarano la convivenza – salgono dal 2 per cento del 1995 al 6 del 2009 (circa 500 mila). Le proiezioni 2011 segnano un ulteriore salto quasi del 40 per cento, fino a sfiorare quota 900 mila. Sempre meno figli vivono con genitori sposati (in un anno sono 739 mila in meno), mentre aumentano i figli di conviventi (più 274 mila) e pure le famiglie con un solo genitore (più 345 mila). Fatti due conti si arriva già oltre i 2 milioni e mezzo di persone, quando all’appello mancano tantissimi casi. Queste cifre non tengono conto, infatti, di gay e lesbiche (se ne stimano oltre 3 milioni, con circa 100 mila figli a carico), mancano i single che attendono il divorzio per anni, mancano le coppie stabili che – per ragioni economiche – non convivono, o mantengono la doppia residenza. E ancora non si contano i vedovi che si danno assistenza reciproca, né le famiglie ricostruite, quelle che un tempo lo Stato chiamava “famigliastre”, formate dopo un divorzio. E che oggi sono più di un milione e 100 mila: “Le coppie di fatto sono esplose e i dati Istat non illustrano bene il fenomeno”, spiega il sociologo Marzio Barbagli: “Per capire come sta cambiando il Paese vanno analizzate le coppie non sposate fra i 25 e i 40 anni, quelle consapevoli, dove la percentuale sale dall’8 per cento a oltre il 30 per cento del totale. A Bologna, come in altre città del Nord, si arriva anche al 40 per cento. Fino a qualche anno fa era diverso, ora l’Italia somiglia sempre più al Nord Europa”.
REGISTRI BOOM
Se il Parlamento latita, sindaci e cittadini s’arrangiano da soli. E così, senza grande clamore, anche i registri delle unioni civili si moltiplicano. Non c’è un elenco. Né un censimento. Per la prima volta “l’Espresso” ha verificato quanti Comuni abbiano istituito gli elenchi delle famiglie di fatto. In funzione ce ne sono 82 (vedi il grafico accanto), in due casi i registri sono stati in vigore per un breve periodo, poi cancellati, altri 23 municipi li hanno discussi, ma non adottati. I pionieri stanno a Empoli, dove già nel 1989 esisteva un registro, poi arrivò Pisa nel 1992. Gli ultimi arrivati sono Napoli e Palermo a fine 2011 e Ferrara, lo scorso febbraio. Ci sono grandi città e piccoli paesi. Giunte di destra e sinistra. Tanto che, se le coppie iscritte non sono milioni, ma qualche migliaio, il dato non deve confondere: “Il registro, per ora, è un contenitore vuoto e ha un valore solo simbolico. È normale che non ci sia la corsa. In Francia, quando approvarono il Pacs, ci fu una partenza al rallentatore, ma dallo scorso anno ci sono più Pacs che matrimoni”, spiega l’assessore padovano Alessandro Zan. Nella sua città ha scelto una strada ancora più innovativa. Padova è stata la prima in Italia a inventarsi il certificato comunale di “vincolo affettivo”. Tu vai in municipio e il sindaco mette nero su bianco che hai un compagno. Etero o gay non importa. “Per ora un centinaio di coppie hanno chiesto il certificato e negli ultimi mesi il trend cresce”, spiega Zan. A Roma li chiamano i Pacs alla veneta. E lui ci crede: “Fissano una data certa e dichiarano la condizione di coppia. Serve per esigere dallo Stato quei pochi diritti che i conviventi hanno, ma che senza un documento non si applicano: dalle graduatorie degli alloggi popolari all’assistenza ospedaliera”. Diritti negati a milioni di altre coppie. Che spesso non discriminano solo gli adulti. Ma anche i bambini.
FIGLIO DI DUE MADRI
È la storia di Matteo T. (il nome è di fantasia), ha compiuto 6 mesi il 19 marzo. Quel che non sa, piccolo così, è di essere già discriminato. Per tutti ha due mamme, per l’Anagrafe una sola. È figlio di Lorenza T., 40 anni, impiegata di un Automobil Club lombardo. Mentre della compagna Emiliana nei documenti non c’è traccia, anche se chi passa più tempo con Matteo è proprio la mamma numero due: “Quando è nato, io potevo usufruire della maternità, ma abbiamo fatto una scelta diversa. Emiliana ha deciso di mettersi a lavorare da casa, facendo un enorme sacrificio di carriera, solo per stare con nostro figlio. Io sono tornata al lavoro e lei si occupa del bambino”, racconta Lorenza. Lo sforzo non ha alcun valore per lo Stato. Per la legge quella famiglia non esiste. E se ne sono accorte le due mamme quando si sono presentate all’asilo nido: “Il modulo chiede il reddito del nucleo e, in questo caso, dobbiamo fornire l’importo complessivo visto che da 9 anni Emi ed io siamo nello stesso stato di famiglia”. Peccato che il sogno svanisca alla riga successiva: “Dopo la voce “madre” c’è la voce “padre”, così non possiamo completare il modulo. Non sapremmo dove scrivere il nome di Emiliana”, si sfoga Lorenza. Si trattasse di un cavillo linguistico basterebbe barrare la casella e metterci “genitore”, ma il problema è che la normativa lo vieta. Emiliana non è un vero genitore. E Lorenza, per l’asilo, è sola.
SPOSO INVISIBILE
Alla fine c’è chi ci rinuncia. Domenico Pasqua, 53 anni, architetto calabrese trapiantato a Roma, sarà presto un “ex italiano”. Fra pochi mesi sul passaporto ci sarà la cittadinanza belga. Il fatto è che, da ormai 24 anni, Domenico sta con Jef Nuyts, 59 anni, di Anversa. Tre anni fa si sono sposati in Belgio, dove sono marito e marito. Una storia d’amore condivisa con parenti, amici e vicini di casa. Tutti tranne lo Stato italiano. Qui da noi quei signori dopo un quarto di secolo sono due perfetti estranei: “Sono arrabbiatissimo con l’Italia. In Belgio Jef e io abbiamo la comunione dei beni, possiamo assisterci, abbiamo i diritti di una qualsiasi coppia. Quando atterriamo a Fiumicino, tutto svanisce”, racconta Domenico. Facendo gli scongiuri, hanno cominciato a pensare al futuro ed è così che Domenico ha deciso di rifiutare la cittadinanza italiana: “Sono costretto, per tutelare Jef. In Italia i miei parenti possono impugnare il testamento e mettere le mani sulla nostra casa. Se anche non lo facessero, Jef pagherebbe un mucchio di tasse, perché per le nostre leggi lui non è un mio congiunto”. Unica strada sarebbe rivolgersi alla Corte dei diritti dell’uomo, ma una sentenza può arrivare solo dopo avere perso tutti e tre i gradi di giudizio in Italia. Che, con i tempi lumaca della giustizia, vuol dire aspettare anche 15 anni.
FUGA DALL’ITALIA
Ecco che sono sempre più i gay e le lesbiche se si sposano all’estero. Visto che Italia e Grecia sono rimasti gli unici Paesi europei senza tutele (vedi grafico a pag. 41). E così sono centinaia le coppie che volano in Norvegia, Francia o Spagna, ma anche Canada e Stati Uniti. Come Matteo Cavalieri, 26 anni, e Matteo Giorgi, 36. Avevano scelto Las Vegas, poi hanno scoperto che a New York avevano approvato i matrimoni gay proprio il giorno del loro arrivo. Era il 27 luglio 2011. “Abbiamo voluto essere i primi ed è stato facilissimo. È bastato compilare un modulo on line, poi ci siamo presentati al municipio, abbiamo pagato 30 dollari e ci siamo sposati nella Grande Mela”. Ad Atlantic Beach, per la precisione, in riva al mare. Poi il viaggio di nozze coast to coast e, al rientro in Italia, nella buca delle lettere a Bologna c’era già il loro certificato di matrimonio. “È molto bello e molto inutile qui in Italia”, raccontano. Ora l’ultima moda sono le pampas. A Buenos Aires è boom di unioni. Lì basta un documento d’identità per residenti (concesso per un lavoretto di 3 mesi) ed è fatta. Se poi ti sposti a Santa Fè, a due ore e mezza di auto dalla capitale, basta meno: domicilio, anello e una firma.
Qualche piccolo passo avanti, per la verità, s’è fatto anche in Italia. Come la sentenza di qualche giorno fa a Reggio Emilia, dove il tribunale ha assegnato il permesso di soggiorno a un giovane uruguayano gay, sposato in Spagna con un italiano. Ma anche stavolta c’è voluto un giudice per riconoscere un diritto che nel resto d’Europa è garantito: “Non si è chiesto il riconoscimento del matrimonio spagnolo, perché l’avrebbero negato, ma il diritto per i due coniugi, sebbene non riconosciuti, ad avere una vita famigliare in Italia. Proprio quello che afferma la sentenza della Cassazione di febbraio. E il giudice ha detto sì”, spiega l’avvocato Antonio Rotelli di Lenford, la rete di legali specializzati nei diritti civili.
Un sì che arriva dopo centinaia di sentenze negative. Gay e lesbiche, ma anche etero che non potevano sposarsi, hanno dovuto per anni arrangiarsi come potevano per vivere in Italia con un partner extracomunitario. Storie come quella di Fabrizio L., 64 anni, che ha lavorato una vita all’estero e ha deciso di tornare a godersi la pensione con Kiyoshi, il compagno giapponese con cui condivide tutto da 25 anni. “Quando siamo arrivati ci siamo resi conto che serviva il permesso di soggiorno stabile. E così l’ho assunto come colf, una cosa umiliante”, racconta. Ora c’è il problema dell’eredità. “Ho 18 anni più di Kiyoshi e, alla mia morte, voglio lasciargli i diritti di cui godrebbe un coniuge. Anche la pensione di reversibilità assicurata dai contributi Inps che verso da più di vent’anni. Non so da che parte girarmi”.
FRA EX MOGLIE E MARITO
Mentre la Linfa, l’Arcigay e “Famiglie arcobaleno”, l’associazione delle coppie di genitori gay chiedono diritti, sempre più coppie eterosessuali si uniscono alla battaglia. Ne sa qualcosa l’attrice Rossana Podestà, diva degli anni Sessanta. Il 14 settembre è morto il suo compagno Walter Bonatti, famoso alpinista e scrittore. Dividevano tutto, ma non s’erano mai sposati. E così lei non è potuta entrare all’ospedale: “Mi hanno allontanata dalla rianimazione dicendo “tanto lei non è la moglie”", ha denunciato, chiedendo se fosse possibile trattare così una persona di fronte alla morte dell’uomo che ama. La risposta purtroppo è stata un sì. Ed è così per tutti. Francesco L. ha 45 anni e vive a Padova. “Sto divorziando da mia moglie e ho un figlio di 14 anni. Nel frattempo ho una nuova famiglia e Elena, la mia compagna, aspetta due gemelli”, racconta. Per lo Stato, però, tutto ruota attorno a alla prima moglie. S’è tenuta la casa e il figlio, sebbene il giudice abbia dato l’affido congiunto. Un mese fa Francesco è caduto con lo scooter ed è finito in ospedale. Elena è corsa lì, ma ha trovato la sorpresa: “Non solo non le hanno permesso di entrare, ma l’unica che parlava coi medici era mia moglie”. Oltre al danno, la beffa. n
Ma il governo Monti tace
di Susanna Turco
Non so, vedremo, ci pensino altri. Si sono avventati come furetti sulle liberalizzazioni, faine sulle pensioni, panzer sull’articolo 18. Ma quando si tratta di unioni civili e matrimoni gay, il governo Monti vira in una mimesi classica della politica: il pesce in barile. La vis sanguinaria che per esempio ha portato Elsa Fornero a spiegare che “sulla riforma del lavoro indietro non si torna”, sulle coppie di fatto si smorza, s’ammolla e diventa ben che vada volenteroso auspicio: “Il ministro si impegna ad affermare e diffondere la cultura contro la discriminazione”, risponde ferma il ministro del Lavoro, titolare alle Pari opportunità, a “Vanity fair” che le aveva chiesto di intervenire. Ma aggiunge: “Compete al Parlamento legiferare su questioni da tempo all’ordine del giorno”. L’afflato filo-europeista che pure pervade l’esecutivo si ferma insomma all’economia: a soffiare sui diritti civili non arriva. Là, il fronte più avanzato è l’elegante lavarsene le mani dello “spetta alle Camere”.
Eppure è solo l’Italia, tra i Paesi fondatori dell’Ue, ad avere zero norme che riconoscano le unioni di fatto. E, volendo, il governo qualcosa potrebbe farla. Abrogare la circolare Amato che vieta la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, per citare una tra le richieste di Arcigay e Certi diritti, che chiedono di “passare dalle parole ai fatti”. Già, ma a parte Fornero sul tema persino le parole scarseggiano. “Ci manca che si apra anche questo fronte”, commentano nell’entourage di un ministero di prima fascia. In effetti, qualsiasi tentativo di cavar fuori un’opinione cade nel vuoto. Il mutismo prevale, a braccetto con i troppi impegni. Non ha intenzione di aprire bocca il cattolico ministro della Cultura Lorenzo Ornaghi. Vuol prima documentarsi il titolare della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi. È impegnato e irraggiungibile il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. E così pure il ministro dell’Interno Cancellieri. Oberata di incombenze la Guardasigilli Paola Severino. Non ce la fa a pronunciarsi nemmeno Renato Balduzzi, ministro della Salute: ma lui ha una storia che vale di rimbalzo come spiegazione. Da consigliere giuridico dell’allora ministro Bindi scrisse nel 2007 il testo dei Dico: e, fra l’altro, passò una notte a lambiccarsi per trovare un’espressione alternativa a “dichiarazione congiunta” che non piaceva a Rutelli. Si capisce che non voglia tornarci su. Svicola il ministro Andrea Riccardi, che pure ha le deleghe sulla Famiglia: “Il riconoscimento delle coppie omosessuali non è nel programma di governo”, si è limitato a precisare quando la Cassazione ha rilanciato il tema delle unioni gay chiamando il legislatore a coprire il vuoto. “Ci domandiamo allora a che serva il ministro della Famiglia”, commentò l’Idv Silvana Mura. Come a dire che il governo, anche quello di Monti, è sempre del Paese nel suo complesso che dovrebbe occuparsi. Difficile che lo faccia: per vocazione tecnica, ma anche per formazione. “La sentenza afferma un principio di pari opportunità vero”, ha spiegato Fornero a “Che tempo che fa”: ma, ha aggiunto, “come formazione sono un po’ tradizionalista”. Ricordava Diane Keaton, che in “Manhattan” ripeteva a Woody Allen: “Noi siamo di Philadelphia, di queste cose non parliamo”.
Dacci la nostra discriminazione quotidiana
Sono storie di ordinaria discriminazione. Piccoli e grandi diritti calpestati, ogni giorno, a migliaia di famiglie di fatto. Nell’Italia che non riconosce le coppie non sposate. E su cui nemmeno il tribunale può nulla.
EREDITÀ NEGATA
Marco e Filippo hanno vissuto insieme 16 anni. Poi un incidente d’auto ha messo fine al loro amore. Così a Milano, dove abitavano, s’è ripresentata la famiglia di Filippo. Saliti dalla Calabria per impugnare il testamento del figlio, che per anni non avevano voluto vedere. E si sono ripresi la casa. Sbattendo fuori Marco. “L’eredità in Italia è rigidamente legata al matrimonio. I beni passano solo a coniugi e parenti”, spiegano i legali della rete Lenford. E anche in caso di testamento, la famiglia può intervenire. Mentre, se nessuno protesta, chi resta in vita deve comunque pagare tasse molte elevate, perché la successione no-tax riguarda solo parenti e congiunti.
SCUSI, MA LEI CHI È?
Antonio e Fabrizio si conoscono a Roma nel 1996. Convivono per sette anni, poi Antonio si ammala di un grave linfoma a soli 27 anni. “Per l’ospedale io non esistevo, per cui non mi volevano far passare né informare sulla situazione di Antonio”, racconta Fabrizio. “Il medico mi disse: “Scusi, ma lei chi è?”". Dopo la chemioterapia il quadro si aggrava. Negli ultimi mesi la coppia presenta la domanda per il contributo di disoccupazione. Niente. In più Fabrizio non può ottenere le ore di permesso sul lavoro per assistere Antonio. “Ho dovuto usare le ferie e ho prosciugato il conto. I suoi parenti erano all’estero. Io ero lì. Ma per la legge esistevano solo loro”
NIENTE LEASING
Paolo vive a Milano con il suo compagno Andrea. Condividono la stessa casa. E la linea telefonica è intestata a Fabio. Ecco che, quando Paolo si presenta alla società di leasing il funzionario gli spiega che, per accedere a quel particolare servizio, è necessario essere intestatari di una linea telefonica fissa. Paolo spiega che il numero è intestato a Fabio, ma che loro vivono insieme e sono una coppia stabile da cinque anni. Niente da fare. O si cambia il contratto, o tanti saluti.
SALMA RAPITA
Roberto e Stefano sono una coppia che ha abitato per vent’anni a Roma. Poi la tragedia, una leucemia si porta via Stefano e i genitori, che non avevano mai gradito quella relazione, si riportano la salma del figlio in Sardegna. Ma Stefano era stato chiaro: “Voglio essere sepolto a Roma, per sentirti vicino”. Ed è così che Roberto ingaggia una lunga battaglia contro la burocrazia. Destinata a finire dopo anni con un nulla di fatto.
DOPPIO CANONE RAI
Giorgia è perseguitata dalla Rai. Sono tre anni che riceve, a cadenza regolare, il bollettino per pagare il canone. Il problema è che lei s’è trasferita dal compagno, Marcello, a Torino. Guardano insieme la tv e lui il canone lo paga regolarmente. “Per la Rai restiamo due nuclei famigliari diversi, quindi per la burocrazia io e Giorgio dovremmo pagare due volte il bollettino”.
LICENZA ADDIO
Luciano faceva il tassista in Veneto dal 1997. Poi una malattia l’ha strappato al suo compagno Ivano, con cui conviveva. Orfano e senza figli, per la legge non aveva eredi diretti. E così la sua licenza è stata ritirata dal Comune. “Abbiamo cercato, attraverso un avvocato, di trasferirla, ma io non esisto per lo Stato. E così anche la sua auto: è rimasta tre mesi sotto casa e poi è stata portata via”.
“Io, vedova negata di Nassiriya”
“Rivolgo un appello al presidente della Repubblica Napolitano e al ministro della Difesa Di Paola: se l’Italia vuole davvero essere civile ed europea, come dice Monti, lo Stato mi inviti ufficialmente il prossimo 12 novembre alle commemorazioni della strage di Nassiriya dove, assieme agli altri, morì il mio compagno Stefano”. Adele Parrillo, la “vedova fantasma” di Nassiriya, non ce la fa più. Quel 12 novembre 2003 nella strage morì anche il regista Stefano Rolla, assieme agli altri 18 italiani. Era il suo compagno di vita. L’uomo con cui divideva tutto e progettava di avere presto un figlio. L’uomo a cui lo Stato ha conferito la Croce d’Onore e intitolato vie e piazze. Mentre ad Adele non spedì nemmeno l’invito per i funerali. “Non eravamo sposati, quindi per lo Stato io non sono niente. È vergognoso quello che sto subendo da quasi dieci anni. Nonostante la sentenza del Tar che stabilisce che la mia relazione con Stefano equivale, nei fatti, a quella di moglie e marito”, racconta a “l’Espresso”. Sei anni di vita insieme dove avevano condiviso tutto, cancellate da quell’esplosione mentre girava il lungometraggio “Guerrieri di Pace”. Da quel tragico giorno in Italia ci sono vedove di serie A e serie B: “Quando si è inaugurato a Roma il monumento dedicato alle vittime di Nassiriya il sindaco Alemanno e il governatore Polverini invitarono 230 persone. Nemmeno in quel caso ci fu spazio per me”, continua Adele. “Non sto chiedendo riconoscimenti economici o altro, chiedo solo di poter stare lì insieme a tutti gli altri”, si sfoga. Ancora oggi nessuno ha fatto nulla perché questa discriminazione avesse fine. “Ma è venuto il momento che davvero le cose cambino in questo Paese. E il 12 novembre potrebbe essere la data in cui lo Stato dà un segno di civiltà”. È arrabbiata con la politica. E con chi ripete che non può essere una sentenza a decidere: “Usiamo le sentenze perché la politica latita. Monti è un tecnico? Faccia una cosa tecnica, garantisca l’eguaglianza sociale a mezza Italia, che oggi lo Stato dimentica”.
“Sì” tra gay entro otto anni
colloquio con Franco Grillini
“Faccio una profezia: fra 8 anni in Italia ci saranno comunque Pacs e matrimoni omosessuali. Se la politica non farà niente, entro quella data l’Europa ce lo imporrà”. Franco Grillini, leader storico del movimento gay, fu il pioniere delle coppie di fatto. Una battaglia che combatte da ormai quasi 30 anni.
Quando lanciò i Pacs?
“Era il 1985, al primo congresso Arcigay. Si litigò, perché all’epoca i gay non volevano le unioni civili, c’era il mito di “abbattere” la famiglia borghese. Oggi si chiede il matrimonio. Pensi lei come cambiano i tempi”.
Ancora nessuna legge, però.
“Boicottaggi continui. In Parlamento la prima proposta fu presentata dal Psi nel 1988. Scoppiò il finimondo. Prime pagine, tv, condanna del Vaticano. Nel 1996, con Prodi, c’erano 22 proposte di legge, ma nessun capogruppo chiese di inserirle. Il 21 ottobre 2002 presentai il “Pacs” con 161 firme. Sembrava il momento buono. Ma fu calendarizzato solo nel 2005, quando finì la legislatura”.
Così arrivò il “Dico” di Rosy Bindi.
“Anche quello nacque da un veto. Paola Binetti disse “no” allo sconto sulla tassa di successione per le coppie di fatto, che Visco aveva approvato, così la legge sui Pacs fu cambiata al ribasso”.
Erano una buona soluzione?
“Macché. Erano ridicoli. Per evitare che una coppia andasse all’Anagrafe e si “lanciasse il riso”, dissero, un convivente doveva spedire all’altro una raccomandata. E l’altro, a casa, firmava. E poi ci volevano 9 anni di convivenza, quando uno sposa la badante dopo due giorni, e nessuno dice niente”.
Ora la Cassazione riconosce le unioni gay. Cambierà qualcosa?
“Beh, è rivoluzionario. Dice che una coppia che invoca gli stessi diritti del matrimonio deve vederseli riconoscere. Dobbiamo inondare i tribunali italiani di pratiche, così la politica prenderà atto di una realtà che, dall’Istat alla Chiesa, si cerca di nascondere sotto il tappeto”.
E stavolta pensa che la politica romperà il grande tabù?
“Se perfino il cardinale Martini apre uno spiraglio, se anche Casini e l’Udc discutono di questo, vuol dire che il vento è cambiato. Sarà il tema caldo delle elezioni del 2013. Se poi la politica non farà nulla, la Ue lo imporrà. Entro 8 anni. Quando tutti i Paesi si saranno adeguati, toccherà a noi”.
«Ti lascio ma non divorzio» Il démariage all'italiana di Elvira Serra,corriere
della sera, 30 Marzo 2012, http://www.dirittiglobali.it
«Ha un'altra donna, però non mi
fa mancare nulla»
MILANO — Al colmo della
confusione, il quotidiano dei vescovi se n'è dovuto occupare ragionando più o
meno in questi termini: non bastano quelli che vogliono divorziare alla
velocità della luce, non bastano gli omosessuali che altrettanto rapidamente
vorrebbero sposarsi, in mezzo sta prendendo forma un ibrido sociologico
rappresentato dalla coppia presidenziale tedesca Joachim Gauck-Daniela Schadt,
dove lei, compagna e convivente da più di dieci anni, non essendo la legittima
moglie, che invece è la signora Gerhild, madre dei quattro figli di Gauck, è
stata simpaticamente soprannominata da Die Welt la «First Girl», prima ragazza,
con buona pace delle primavere passate, giacché «First Lady» non si poteva. «Al
diffondersi del démariage ci stiamo purtroppo abituando», scriveva l'altroieri
Francesco D'Agostino su Avvenire, prendendo in prestito il termine coniato
dalla sociologa francese Irène Théry che sul tema della
«dematrimonializzazione» ha scritto un saggio.
«Io e mio marito ci siamo
lasciati dodici anni fa, lui aveva conosciuto un'altra, più giovane, con la
quale vive ancora adesso. Ci eravamo sposati nel 1975. Nessuno dei due ha
chiesto la separazione, men che meno il divorzio. Potrei dire che l'ho fatto
per i figli, ma forse è un alibi. Diciamo che con una separazione avrei perso
dei diritti, invece mio marito, professionista, è abbastanza attento a non
farmi mancare niente, malgrado economicamente avessimo un rapporto abbastanza
equilibrato. Se me lo riprenderei oggi? No. Ma se dovesse avere bisogno di me
sarei in prima linea per lui. Passiamo ancora tutte le feste comandate insieme
(senza l'altra, ndr)», racconta con preghiera di anonimato una moglie di 66
anni del Varesotto.
Il démariage all'italiana manca
della spregiudicatezza, o meglio della serenità con cui viene esibito in
Germania, dove però le coppie di fatto sono tutelate. E non è un caso se si
pensa che l'articolo 143 del nostro codice civile include «l'obbligo reciproco
alla fedeltà». Però i numeri lasciano intuire un fenomeno molto diffuso. Spiega
il divorzista Gian Ettore Gassani: «Un terzo delle coppie italiane sono
separate in casa: magari arrivano a un compromesso, per affetto o per evitare
una nuova povertà quando condividono lo stesso tetto. Solo il 65% dei separati
poi chiede il divorzio. Significa che una buona fetta della popolazione non lo
vuole, e immagino anche per ragioni di ordine religioso».
Anche la matrimonialista
Annamaria Bernardini de Pace osserva le nuove coppie che, dice, «vorrebbero
tutti i diritti senza assumersi i doveri». E fa degli esempi: «Le donne
all'inizio di una relazione sono contente, non fanno tante domande. Poi però
cominciano a chiedersi: ma se lui muore la pensione va alla moglie? Chi mi
tutela? Chi riconosce il mio ruolo? E, dall'altra parte, ci sono le mogli che
non vogliono concedere il divorzio per non perdere il cognome del marito, la
rendita, o altri vantaggi. In alcuni casi ho consigliato ai miei clienti di
dare alla consorte una liquidazione una tantum che tenesse conto parzialmente
dell'asse ereditaria».
A Milano nel 2008 il 37,3% dei
bambini sono nati fuori dal matrimonio: dieci anni prima la percentuale era del
28%. In Italia la media è del 16,7%. «E parliamo di figli riconosciuti da
entrambi i genitori, quindi voluti, non in situazioni clandestine», puntualizza
la sociologa della famiglia Carla Facchini, che si è occupata del fenomeno
all'università di Milano-Bicocca. Va avanti: «Sono dati che devono farci
riflettere sulla deistituzionalizzazione del matrimonio. Non divorziare e non
separarsi si lega alla minore propensione ad assumersi oneri economici di lungo
periodo, vista la crisi, e alla possibilità di fare scelte reversibili».
Forse non è da sottovalutare l'analisi che fa la
terapista di coppia Gianna Schelotto: «I divorzi costano sì in termini di tempo
e di soldi. Ma c'è anche la componente emotiva, il dolore e la sofferenza che
comportano. Mantenere una situazione sospesa permette a tutti di far finta di
credere quello che preferiscono: alla moglie, che il marito non ama abbastanza
quell'altra; al marito, che così resta un padre presente».
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società
Associazione Italiana Psichiatri, 30 marzo 2012, http://www.aipsimed.org/
La neurobiologia interpersonale,
una delle ultime frontiere della neuropsichiatria, indaga le conseguenze
dell’amore sul corpo e come il cuore influenza il cervello. Dai test risulta
chiaro che i sentimenti aiutano a sentire meno il dolore fisico e persino a
riprendersi da un ictus. La studiosa americana Diane Ackerman ha sperimentato
gli effetti positivi nella cura a base di affetto sul suo compagno dopo essere
stato colpito da ictus.
Gli esperimenti che Diane
Ackerman ha pubblicato sul New York Times sono impressionanti: «Ho cominciato a
sperimentare nuovi modi di comunicare: attraverso gesti, emozioni facciali,
giochi, empatia e una tonnellata di affetto. Lentamente il cervello del marito
ha cominciato a rimettersi in moto rispondendo alle sollecitazioni». A
dimostrazione che sono i sentimenti a guidare il cervello.
La più grande scoperta della
neurobiologia interpersonale è che il cervello non smette mai di modificarsi,
come sostiene la teoria di Dan Siegel dell’Università di Pasadena, soprattutto
mentre facciamo amicizia e scegliamo il nostro amore. «Il corpo – spiega
Ackerman – ricorda quell´unicità sentita con la mamma e cerca il proprio
equivalente nel partner adulto». La sincronia tra la mente del bambino e quella
della madre è stata fotografare grazie alla scansione elettronica del cervello
ed è la stessa sincronia registrata proprio tra gli innamorati. Naomi
Einseberger dell´Università della California è arrivata a conclusioni simili,
partendo però dalla situazione opposta: ha dimostrato che le aree del cervello
che registrano il dolore fisico sono le stesse che si accendono quando si viene
lasciati dal partner.
FONTE: La Repubblica, pag. 43. edott.it
"Un casco che riesce a leggere il pensiero: aiuterà i malati di
Sla" di NATASCIA MARCHI, http://www.lanazione.it/
Siena, 24 marzo 2012 - SPOSTARE
un elicottero indossando un casco capace di leggere i movimenti. E’ «Brain
control», la geniale idea di Liquidweb, start-up senese operante nel settore
dell’Information and communication technologies, con esperienza particolare di
tecnologia mobile. «Dopo un addestramento iniziale — spiega uno degli
sviluppatori, Giorgio Scibilia — il caschetto impara, a seconda della persona
che lo indossa, a riconoscere i segnali necessari per muovere l’oggetto
interessato. Il nostro obiettivo è quello di utilizzarlo per scopi medici, come
per i malati di Sla».
«L’elicottero è semplicemente un
modo per misurare le reali possibilità del progetto — spiega Pasquale Fedele,
fondatore di Liquidweb —. Abbiamo mappato la particolare attività elettrica che
si sviluppa nel cervello, relativa in particolare ai movimenti e usiamo questi
pensieri per controllare un tablet dove gira uno specifico software. In questo
modo è possibile controllare tecnologie mediante il pensiero, dal mandare sms a
controllare la tv. Sono cose basilari, ma per chi è imprigionato nel proprio
corpo, come alcuni malati di Sla per esempio, possono cambiare la vita. Questi
pazienti negli stadi più avanzati non sono neanche in grado di parlare, e
quindi è necessario trovare un modo per aiutarli a comunicare. Quello che viene
fatto nei centri ricerche per i pazienti è costruire dispositivi e ausili che
sfruttino le capacità del paziente, ma essendo queste malattie progressive,
andando invece direttamente a mappare alcuni pensieri, si può standardizzare la
modalità di dialogo tra il paziente e i sistemi che si vuol controllare,
permettendogli così anche agli stadi finali di beneficiarne».
Un progetto brillante che ha
visto anche importanti riconoscimenti, da Italia degli Innovatori a Smau di
Milano, alla ricerca dei finanziamenti necessario per essere sviluppato
ulteriormente. «Se ci trasferissimo all’estero avremmo già i contatti per gli
investitori — continua Pasquale Fedele —, perché difficilmente si investe su
realtà molto distanti. Abbiamo ancora dei compiti da fare a casa, prima di
metterlo sul mercato, ma noi vorremmo farli a a Siena». Forse non sarà un caso
se la stessa genialità e creatività riscontrata negli sviluppatori di
Liquidweb, tutti laureati alla facoltà di ingegneria di Siena, le abbiamo
riscontrate anche in ViDiTrust, spin-off dell’Università senese. L’azienda,
nata nel 2010, propone tecnologie di anticontraffazione sviluppate attraverso
l’impiego di tecniche di elaborazione digitale. L’azienda ha da poco brevettato
il sistema vIDify, progettato per rendere unico e riconoscibile qualsiasi
prodotto stampato, fornendo così uno strumento per la lotta alla
contraffazione. «L’idea ha una certa analogia — spiega Giacomo Cancelli, di
ViDiTrust —, con il marchio univoco che ogni pistola lascia sul bossolo, e per
il quale è possibile associarlo al mezzo da cui è stato sparato. Anche una
stampante lascia sempre un’impronta digitale, presente ma invisibile all’occhio
umano. Noi la analizziamo, e poi generiamo un timbro intelligente che contiene
informazioni specifiche. Il timbro viene quindi applicato al prodotto, che
viene così immesso sul mercato con una sorta di carta d’identità». Grazie a
ViDify se un’etichetta, per esempio, va in stampa nella tipografia autorizzata
allora è autentica, altrimenti saremo di fronte ad un falso. Grazie al sistema
vIDify nessuno è in grado di falsificare il timbro intelligente e l’utente
finale potrà avere la sicurezza di comprare prodotti autentici e di qualità.
«Abbiamo poi sviluppato un applicativo per smartphone — continua Giacomo
Cancelli —, per acquisire il timbro. Un nostro servizio va ad analizzare il
timbro e decide se l’oggetto è autentico o meno. L’applicativo è free, quindi
scaricabile da chiunque, noi vendiamo il brand alle aziende interessate».
Quella dei ricercatori di ViDiTrust diventa quindi una risposta concreta, al
grande problema della pirateria internazione, e perlopiù a «basso costo»,
assicura Giacomo Cancelli, «il sistema, infatti, è facilmente integrabile in
tutti i tipi di processi aziendali perchè non richiede nessuna modifica alla
catena di produzione».
Studio asiatico: la
religione non serve per scongiurare la morte, Luca Pavani, 29 marzo, 2012,
http://www.uccronline.it
Secondo una visione naturalistica della religione, essa
avrebbe senso soltanto come consolazione verso la tragedia della morte (teoria
“del comfort”). L’uomo sarebbe religioso non perché Dio si sia reso
incontrabile nella storia, ma perché “l’invenzione di Dio” aiuterebbe la
persona a fuggire dall’idea della morte, a non temerla.
In poche parole siamo di fronte ad una fallacia argomentativa
in quanto si scambia arbitrariamente un possibile effetto con la causa. Va
detto comunque che certamente esiste chi, magari vecchio e malato, sceglie di
abbracciare la religione come motivo di consolazione. Ma, come ha giustamente
scritto Simone Weil, «la religione in quanto fonte di consolazione è un
ostacolo alla vera fede, e in questo senso l’ateismo è una purificazione»
(Quaderni II, 1940/42, postumo, 1953), cioè è un aiuto verso chi abbraccia
forme fideiste, è un pungolo che spinge a rivedere la propria posizione per
abbracciare il contenuto vero della fede. Anche perché, secondo l’antropologo
dell’Università di Oxford , Jonathan Lanman, «dal punto di vista psicologico,
abbiamo poche prove che le nostre menti crederanno in qualcosa solo perché sarebbe
confortante farlo».
Il messaggio cristiano non serve come consolazione, ma è
l’unico a rendere pienamente sensato vivere ora, dando un significato vero e adeguato “qui e
ora” (“hic et nunc”). Non c’è altro motivo della felicità nell’istante, del condurre
un’esistenza all’altezza della propria umanità. Come veniva riportato su
“Avvenire” , citando il teologo Giussani: «l’avvenimento cristiano non
identifica solo qualcosa che è accaduto e con cui tutto è iniziato, ma ciò che
desta il presente (…). Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè
cambiato, se non da una contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che
mi sta accadendo ora». Al cristiano interessa vivere fino in fondo l’istante,
nessuna consolazione. Se fosse vero che i cristiani sono concentrati solo
sull’”altra vita”, non si capirebbe perché abbiano creato tanta cultura nella
storia umana (musica, arte, scienza…). Come ha scritto il sempre ottimo Claudio
Magris, «il cristiano crede che il paradiso, una società perfetta realizzata
una volta per tutte, non sia possibile sulla terra, ma questo è di per sé un
fermento progressivo, che aiuta a resistere contro le delusioni che
puntualmente avvengono quando si attende una rivoluzione che risolva tutto e
per sempre». Inoltre, gli ha risposto il cardinale Agostini, prefetto emerito
della Congregazione per le Chiese Orientali, «c’è per ogni cristiano la
responsabilità di ciò che accade a lui e ai suoi fratelli, cosicché è chiamato
ad adoperarsi continuamente perché questa vita sia meno ingiusta [...]. Se ti
salvi non puoi farlo come se fossi solo, lo devi fare vivendo con gli altri ed
aiutando gli altri. Il cristiano è colui che annuncia; è missionario, e non può
ignorare la condizione degli altri, che è fatta di aspettative, di incertezze,
di negazioni. Questa è la condivisione, la responsabilità e la solidarietà con
il mondo». Altro che indifferenza per “questa vita”!
Tornando al tema principale, se la religione servisse davvero
per scongiurare il pensiero della morte (la cosiddetta “fuga religiosa”), non
si capisce perché i credenti spendano mediamente più soldi per prolungare la
loro vita in caso di malattia, come dimostra questa ricerca . In questi giorni
è stato pubblicato un altro interessante studio da parte di ricercatori dell’University
of Malaya i quali, intervistando circa 5000 studenti in Malesia, Turchia, e
Stati Uniti, hanno scoperto che le persone religiose (islamiche, in
particolare) temono maggiormente la morte di quelle non religiose. A questo
punto avrebbe dunque ragione chi sostiene che in realtà sia l’ateismo ad essere
consolatorio rispetto alla morte, sopratutto in chi ha vissuto o vuole vivere
una vita disordinata e “autoreferente”. La cosa certa è che l’irreligiosità
banalizza ogni fase dell’esistenza (“l’uomo non è nient’altro che..”, si sente
ripetere dagli ateologi) sopratutto la sua fine: verso questa interpretazione
vanno le ricerche in cui si mostra che i non credenti hanno elevati tassi di
suicidio, addirittura il doppio di chi crede in Dio.
Ci vogliono geneticamente modificati di Tommaso Scandroglio, 30-03-2012,
http://www.labussolaquotidiana.it
Davvero troppa cultura a volte fa
male. Anzi, fa sicuramente male quando questa cultura è guasta. Una prova ci
viene da un articolo dal titolo Human Engineering and Climate Change pubblicato
di recente sulla rivista scientifica Ethics, Policy and Environment da tre
professori universitari: Matthew Liao docente di bioetica alla New York
University, il neuroscienziato Anders Sandberg e la filosofa Rebecca Roache
docenti presso la Future of Humanity Inst. dell’Università di Oxford. Insomma
tre cervelli non da poco, verrebbe da dire. Quali tesi hanno partorito cotali
menti? L’articolo propone soluzioni a dir poco eccentriche al problema
dell’inquinamento ambientale e dei consumi energetici.
Si parte dalla costatazione che
l’inquinamento è prodotto anche dagli allevamenti animali perché mucche, maiali
e pecore producono gas serra, mangiano vegetali e per aver pascolo si è
costretti a deforestare. Ora è chiaro che fino a quando la gente vorrà
consumare carne gli allevamenti continueranno a prosperare e di conserva ad
inquinare. Dunque ecco la soluzione: occorre indurre le persone a non mangiare
carne somministrando a queste ultime pillole che provochino avversione alle
proteine animali oppure modificando il sistema immunitario in modo tale da aver
nausea solo al pensiero di uno spiedino arrosto o di una salsiccia al vino
rosso.
Il secondo intervento a beneficio
dell’amato pianeta terra è ancora più drastico. Anche qui si parte da una
premessa corretta per poi approdare ad una conclusione bizzarra. La premessa è
questa: più una persona è grassa, anzi: grossa, più consuma. Il rimedio è
talmente semplice che a scriverlo il lettore si darà del cretino per non averci
pensato lui per primo: basta abbassare l’altezza delle persone. Più saremo
bassi meno volume occuperemo, meno consumeremo. I tre cervelloni iper-laureati
di cui sopra hanno infatti stimato che se le prossime generazioni doneranno
alla causa ambientalista un 15 cm della loro altezza, la massa corporea
diminuirà del 21% e di conseguenza i tassi metabolici – e dunque i consumi – di
un bel 15-18%. Per ridurre l’altezza le soluzioni passano dalla Fivet, a cure
ormonali, ad interventi sul genoma umano.
Poi l’articolo propone un’altra
soluzione per ridurre gli sprechi, degna della Marvel, la casa editrice che
pubblica Spiderman e Batman: occorre modificare la capacità visiva dell’uomo
affinchè possa vedere anche al buio come i gatti. Se modifichiamo la struttura
dell’occhio rendendolo capace di vedere anche nell’oscurità non dovremmo
accendere così tante luci alla sera. Gli “scienziati” sono assolutamente
espliciti sul punto: “Se ognuno avesse occhi di gatto, non sarebbe necessaria
tanta illuminazione e si potrebbe ridurre l’uso di energia globale
considerevolmente”. Il discorso non fa una piega.
E’ quanto mai evidente che le
soluzioni proposte fanno a pugni con il buon senso, ma, sotto altra
prospettiva, sono assolutamente coerenti con il dogma di carattere apodittico
che precede queste soluzioni e che mai bisogna contestare: si deve preservare
l’ambiente costi quel che costi. Se il prezzo da pagare è quello di non
mangiare carne, di assomigliare a dei nani e di strabuzzare gli occhi allora
l’umanità è obbligata a compiere questo sacrificio in onore della Dea Terra.
I rimedi inventati da questi tre
accademici allora non sono stravaganze di chi vuol mettersi in luce (o in
ridicolo), ma si inseriscono con ferrea logica in un piano ben strutturato
della ideologia ambientalista: prima la foca e poi l’uomo. Perciò le trovate
ecosostenibili dei tre proff. in questa prospettiva non sono panzane grandi
come una casa, effetti patologici di menti bizzarre, bensì inevitabili e
fisiologiche conseguenze di premesse errate.
E la premessa errata è questa:
l’uomo è il cancro del pianeta da estirpare quanto prima. Il 18 Novembre 2009
l’Unfpa nel suo rapporto annuale sullo stato della popolazione mondiale
suggeriva che l’unica strada è quella della diminuzione delle nascite perché
sono gli uomini che producono la tanto temuta CO2. Il rapporto faceva eco ai
risultati di una ricerca del professor Thomas Wire della London School of
Economics, commissionata dall’Optimum Population Trust, pubblicata nell’agosto
del 2009. Questa indagine affermava che per ogni 7 dollari spesi in
contraccezione ci guadagniamo in ecologia: ben una tonnellata in meno di
anidride carbonica emessa nell’atmosfera grazie al fatto che i contraccettivi
impediscono la nascita di bebè produttori di CO2. Il rapporto del prof. Wire lo
faceva capire chiaramente sin dal titolo: “Meno emettitori, emissioni più
basse, costi minori”.
Sulla stessa falsa riga si è
mosso Rajendra Pachauri, il segretario dell’IPCC (Intergovernmental Panel on
Climate Change), che aprì nel dicembre del 2009 i lavori del Vertice di
Copenhagen sui cambiamenti climatici. Pachauri suggerì di aumentare le tasse
sugli aerei, dato che da soli emettono il 2-3% di CO2 di tutto il pianeta, e di
eliminare le bottiglie di acqua da frigo dai ristoranti.
Ancor più fantasioso il progetto
proposto dall’Ong peruviana Glaciares e vincitore sempre nel 2009 del concorso
“100 idee per salvare il pianeta” indetto dalla Banca Mondiale: dipingere di
vernice bianca le montagne del Perù. Il bianco riflette il calore e in tal modo
i ghiacciai non si scioglieranno e così preserveremo una risorsa preziosa
dell’ecosistema.
In terra nostrana come non
ricordare poi l’uscita di Fulco Pratesi, presidente del WWF Italia, che nel
2007 suggerì di lavarsi poco per risparmiare acqua: "Un solo bagno il
sabato mattina consente di risparmiare molta acqua, senza pregiudicare
l’odorato dei vicini. Un rapido esame della biancheria consente di giudicare
quale capo debba essere cambiato. Le camicie, meglio non bianche e non strette
da cravatte, mi possono durare anche tre giorni. Le mutande durano anche
qualcosa in più dei tre giorni. La canottiera resiste da un sabato all’altro.
Quanto alle calze, d’inverno possono aspettare tre giorni”. E così scoprimmo
che il sudiciume è a basso impatto ambientale.
Gli esempi a voler continuare - è
proprio il caso di dirlo – si sprecherebbero e andrebbero come abbiamo visto
dalla geo-ingegneria, che vuole modificare-preservare l’ambiente,
all’ingegneria umana che vuole invece impedire che nuovi esseri umani vengano
alla luce con la contraccezione o con l’aborto oppure addirittura vuole
modificare il suo DNA perché sia ecosostenibile. L’uomo è dunque l’unico essere
vivente da non preservare.
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