venerdì 30 marzo 2012


Famiglie anche noi, di Tommaso Cerno, 30 marzo 2012, L'Espresso  


Conviventi. Gay. Divorziati. Aumentano le unioni di fatto, mentre calano i matrimoni. Ma per lo Stato italiano non esistono. Né hanno diritti
Famiglie fantasma. Coppie invisibili. Lui e lei. Lui e lui. Lei e lei. Convivono, tirano su insieme i figli e pagano le tasse come tutti. Ma per lo Stato non esistono. Sono le nuove famiglie dell’Italia che cambia. Gente che non si sposa perché è vietato, come nel caso degli omosessuali, ma vive come una coppia qualunque. O gente che non ce la fa più. Strozzata dalle lungaggini di un divorzio all’italiana, dove passi anche tredici anni fra aule di tribunale, parcelle e alimenti da versare. E non hai né i soldi né la voglia di risposarti. Gente diversa, con stili di vita differenti. Ma unita da una condizione comune: sono tutti cittadini di serie B, milioni di italiani senza diritti. Niente eredità al partner, nemmeno dopo decenni di vita insieme. In ospedale non entri, passano solo parenti e coniugi. Se vuoi il mutuo agevolato, ti rispondono picche: per lo Stato sei single. Discriminazioni quotidiane contro cui il 13 febbraio ha puntato il dito la Cassazione, con una sentenza che allarga alle coppie gay il diritto di “essere famiglia”. Un’apertura rivoluzionaria che imbarazza la politica, ma incassa la pur timida reazione del ministro Elsa Fornero, e addirittura quella del cardinale Carlo Maria Martini. Riaprendo il dibattito su Pacs e matrimoni gay. Che il Parlamento rinvia da più di vent’anni.
GUERRA DI CIFRE
La nuova radiografia della casa degli italiani parla chiaro. I matrimoni tradizionali sono crollati a 217 mila nel 2010, contro i 230 mila dell’anno prima (trent’anni fa erano 420 mila l’anno). Le famiglie di fatto, al contrario, aumentano a ritmi di Pil cinese, 15 per cento in più ogni anno secondo Istat e Censis. Tra conviventi, divorziati, gay, vedovi che si rifanno una vita e figli con un solo genitore.
Ma quante sono? Difficile fare una stima. E non è certo un caso, attacca Marco Volante, presidente della Linfa, la lega italiana nuove famiglie: “È la politica che nasconde queste coppie. Nessuno vuole scoperchiare il fenomeno. L’Istat raccoglie solo quelle ufficiali. E nel 2001 l’Istat sospese addirittura il censimento con una scusa, perché dava fastidio. Ma le rilevazioni a campione segnano una crescita”. Eccole. Le coppie “ufficiali” – quelle cioè che dichiarano la convivenza – salgono dal 2 per cento del 1995 al 6 del 2009 (circa 500 mila). Le proiezioni 2011 segnano un ulteriore salto quasi del 40 per cento, fino a sfiorare quota 900 mila. Sempre meno figli vivono con genitori sposati (in un anno sono 739 mila in meno), mentre aumentano i figli di conviventi (più 274 mila) e pure le famiglie con un solo genitore (più 345 mila). Fatti due conti si arriva già oltre i 2 milioni e mezzo di persone, quando all’appello mancano tantissimi casi. Queste cifre non tengono conto, infatti, di gay e lesbiche (se ne stimano oltre 3 milioni, con circa 100 mila figli a carico), mancano i single che attendono il divorzio per anni, mancano le coppie stabili che – per ragioni economiche – non convivono, o mantengono la doppia residenza. E ancora non si contano i vedovi che si danno assistenza reciproca, né le famiglie ricostruite, quelle che un tempo lo Stato chiamava “famigliastre”, formate dopo un divorzio. E che oggi sono più di un milione e 100 mila: “Le coppie di fatto sono esplose e i dati Istat non illustrano bene il fenomeno”, spiega il sociologo Marzio Barbagli: “Per capire come sta cambiando il Paese vanno analizzate le coppie non sposate fra i 25 e i 40 anni, quelle consapevoli, dove la percentuale sale dall’8 per cento a oltre il 30 per cento del totale. A Bologna, come in altre città del Nord, si arriva anche al 40 per cento. Fino a qualche anno fa era diverso, ora l’Italia somiglia sempre più al Nord Europa”.
REGISTRI BOOM
Se il Parlamento latita, sindaci e cittadini s’arrangiano da soli. E così, senza grande clamore, anche i registri delle unioni civili si moltiplicano. Non c’è un elenco. Né un censimento. Per la prima volta “l’Espresso” ha verificato quanti Comuni abbiano istituito gli elenchi delle famiglie di fatto. In funzione ce ne sono 82 (vedi il grafico accanto), in due casi i registri sono stati in vigore per un breve periodo, poi cancellati, altri 23 municipi li hanno discussi, ma non adottati. I pionieri stanno a Empoli, dove già nel 1989 esisteva un registro, poi arrivò Pisa nel 1992. Gli ultimi arrivati sono Napoli e Palermo a fine 2011 e Ferrara, lo scorso febbraio. Ci sono grandi città e piccoli paesi. Giunte di destra e sinistra. Tanto che, se le coppie iscritte non sono milioni, ma qualche migliaio, il dato non deve confondere: “Il registro, per ora, è un contenitore vuoto e ha un valore solo simbolico. È normale che non ci sia la corsa. In Francia, quando approvarono il Pacs, ci fu una partenza al rallentatore, ma dallo scorso anno ci sono più Pacs che matrimoni”, spiega l’assessore padovano Alessandro Zan. Nella sua città ha scelto una strada ancora più innovativa. Padova è stata la prima in Italia a inventarsi il certificato comunale di “vincolo affettivo”. Tu vai in municipio e il sindaco mette nero su bianco che hai un compagno. Etero o gay non importa. “Per ora un centinaio di coppie hanno chiesto il certificato e negli ultimi mesi il trend cresce”, spiega Zan. A Roma li chiamano i Pacs alla veneta. E lui ci crede: “Fissano una data certa e dichiarano la condizione di coppia. Serve per esigere dallo Stato quei pochi diritti che i conviventi hanno, ma che senza un documento non si applicano: dalle graduatorie degli alloggi popolari all’assistenza ospedaliera”. Diritti negati a milioni di altre coppie. Che spesso non discriminano solo gli adulti. Ma anche i bambini.
FIGLIO DI DUE MADRI
È la storia di Matteo T. (il nome è di fantasia), ha compiuto 6 mesi il 19 marzo. Quel che non sa, piccolo così, è di essere già discriminato. Per tutti ha due mamme, per l’Anagrafe una sola. È figlio di Lorenza T., 40 anni, impiegata di un Automobil Club lombardo. Mentre della compagna Emiliana nei documenti non c’è traccia, anche se chi passa più tempo con Matteo è proprio la mamma numero due: “Quando è nato, io potevo usufruire della maternità, ma abbiamo fatto una scelta diversa. Emiliana ha deciso di mettersi a lavorare da casa, facendo un enorme sacrificio di carriera, solo per stare con nostro figlio. Io sono tornata al lavoro e lei si occupa del bambino”, racconta Lorenza. Lo sforzo non ha alcun valore per lo Stato. Per la legge quella famiglia non esiste. E se ne sono accorte le due mamme quando si sono presentate all’asilo nido: “Il modulo chiede il reddito del nucleo e, in questo caso, dobbiamo fornire l’importo complessivo visto che da 9 anni Emi ed io siamo nello stesso stato di famiglia”. Peccato che il sogno svanisca alla riga successiva: “Dopo la voce “madre” c’è la voce “padre”, così non possiamo completare il modulo. Non sapremmo dove scrivere il nome di Emiliana”, si sfoga Lorenza. Si trattasse di un cavillo linguistico basterebbe barrare la casella e metterci “genitore”, ma il problema è che la normativa lo vieta. Emiliana non è un vero genitore. E Lorenza, per l’asilo, è sola.
SPOSO INVISIBILE
Alla fine c’è chi ci rinuncia. Domenico Pasqua, 53 anni, architetto calabrese trapiantato a Roma, sarà presto un “ex italiano”. Fra pochi mesi sul passaporto ci sarà la cittadinanza belga. Il fatto è che, da ormai 24 anni, Domenico sta con Jef Nuyts, 59 anni, di Anversa. Tre anni fa si sono sposati in Belgio, dove sono marito e marito. Una storia d’amore condivisa con parenti, amici e vicini di casa. Tutti tranne lo Stato italiano. Qui da noi quei signori dopo un quarto di secolo sono due perfetti estranei: “Sono arrabbiatissimo con l’Italia. In Belgio Jef e io abbiamo la comunione dei beni, possiamo assisterci, abbiamo i diritti di una qualsiasi coppia. Quando atterriamo a Fiumicino, tutto svanisce”, racconta Domenico. Facendo gli scongiuri, hanno cominciato a pensare al futuro ed è così che Domenico ha deciso di rifiutare la cittadinanza italiana: “Sono costretto, per tutelare Jef. In Italia i miei parenti possono impugnare il testamento e mettere le mani sulla nostra casa. Se anche non lo facessero, Jef pagherebbe un mucchio di tasse, perché per le nostre leggi lui non è un mio congiunto”. Unica strada sarebbe rivolgersi alla Corte dei diritti dell’uomo, ma una sentenza può arrivare solo dopo avere perso tutti e tre i gradi di giudizio in Italia. Che, con i tempi lumaca della giustizia, vuol dire aspettare anche 15 anni.
FUGA DALL’ITALIA
Ecco che sono sempre più i gay e le lesbiche se si sposano all’estero. Visto che Italia e Grecia sono rimasti gli unici Paesi europei senza tutele (vedi grafico a pag. 41). E così sono centinaia le coppie che volano in Norvegia, Francia o Spagna, ma anche Canada e Stati Uniti. Come Matteo Cavalieri, 26 anni, e Matteo Giorgi, 36. Avevano scelto Las Vegas, poi hanno scoperto che a New York avevano approvato i matrimoni gay proprio il giorno del loro arrivo. Era il 27 luglio 2011. “Abbiamo voluto essere i primi ed è stato facilissimo. È bastato compilare un modulo on line, poi ci siamo presentati al municipio, abbiamo pagato 30 dollari e ci siamo sposati nella Grande Mela”. Ad Atlantic Beach, per la precisione, in riva al mare. Poi il viaggio di nozze coast to coast e, al rientro in Italia, nella buca delle lettere a Bologna c’era già il loro certificato di matrimonio. “È molto bello e molto inutile qui in Italia”, raccontano. Ora l’ultima moda sono le pampas. A Buenos Aires è boom di unioni. Lì basta un documento d’identità per residenti (concesso per un lavoretto di 3 mesi) ed è fatta. Se poi ti sposti a Santa Fè, a due ore e mezza di auto dalla capitale, basta meno: domicilio, anello e una firma.
Qualche piccolo passo avanti, per la verità, s’è fatto anche in Italia. Come la sentenza di qualche giorno fa a Reggio Emilia, dove il tribunale ha assegnato il permesso di soggiorno a un giovane uruguayano gay, sposato in Spagna con un italiano. Ma anche stavolta c’è voluto un giudice per riconoscere un diritto che nel resto d’Europa è garantito: “Non si è chiesto il riconoscimento del matrimonio spagnolo, perché l’avrebbero negato, ma il diritto per i due coniugi, sebbene non riconosciuti, ad avere una vita famigliare in Italia. Proprio quello che afferma la sentenza della Cassazione di febbraio. E il giudice ha detto sì”, spiega l’avvocato Antonio Rotelli di Lenford, la rete di legali specializzati nei diritti civili.
Un sì che arriva dopo centinaia di sentenze negative. Gay e lesbiche, ma anche etero che non potevano sposarsi, hanno dovuto per anni arrangiarsi come potevano per vivere in Italia con un partner extracomunitario. Storie come quella di Fabrizio L., 64 anni, che ha lavorato una vita all’estero e ha deciso di tornare a godersi la pensione con Kiyoshi, il compagno giapponese con cui condivide tutto da 25 anni. “Quando siamo arrivati ci siamo resi conto che serviva il permesso di soggiorno stabile. E così l’ho assunto come colf, una cosa umiliante”, racconta. Ora c’è il problema dell’eredità. “Ho 18 anni più di Kiyoshi e, alla mia morte, voglio lasciargli i diritti di cui godrebbe un coniuge. Anche la pensione di reversibilità assicurata dai contributi Inps che verso da più di vent’anni. Non so da che parte girarmi”.
FRA EX MOGLIE E MARITO
Mentre la Linfa, l’Arcigay e “Famiglie arcobaleno”, l’associazione delle coppie di genitori gay chiedono diritti, sempre più coppie eterosessuali si uniscono alla battaglia. Ne sa qualcosa l’attrice Rossana Podestà, diva degli anni Sessanta. Il 14 settembre è morto il suo compagno Walter Bonatti, famoso alpinista e scrittore. Dividevano tutto, ma non s’erano mai sposati. E così lei non è potuta entrare all’ospedale: “Mi hanno allontanata dalla rianimazione dicendo “tanto lei non è la moglie”", ha denunciato, chiedendo se fosse possibile trattare così una persona di fronte alla morte dell’uomo che ama. La risposta purtroppo è stata un sì. Ed è così per tutti. Francesco L. ha 45 anni e vive a Padova. “Sto divorziando da mia moglie e ho un figlio di 14 anni. Nel frattempo ho una nuova famiglia e Elena, la mia compagna, aspetta due gemelli”, racconta. Per lo Stato, però, tutto ruota attorno a alla prima moglie. S’è tenuta la casa e il figlio, sebbene il giudice abbia dato l’affido congiunto. Un mese fa Francesco è caduto con lo scooter ed è finito in ospedale. Elena è corsa lì, ma ha trovato la sorpresa: “Non solo non le hanno permesso di entrare, ma l’unica che parlava coi medici era mia moglie”. Oltre al danno, la beffa. n

Ma il governo Monti tace
di Susanna Turco

Non so, vedremo, ci pensino altri. Si sono avventati come furetti sulle liberalizzazioni, faine sulle pensioni, panzer sull’articolo 18. Ma quando si tratta di unioni civili e matrimoni gay, il governo Monti vira in una mimesi classica della politica: il pesce in barile. La vis sanguinaria che per esempio ha portato Elsa Fornero a spiegare che “sulla riforma del lavoro indietro non si torna”, sulle coppie di fatto si smorza, s’ammolla e diventa ben che vada volenteroso auspicio: “Il ministro si impegna ad affermare e diffondere la cultura contro la discriminazione”, risponde ferma il ministro del Lavoro, titolare alle Pari opportunità, a “Vanity fair” che le aveva chiesto di intervenire. Ma aggiunge: “Compete al Parlamento legiferare su questioni da tempo all’ordine del giorno”. L’afflato filo-europeista che pure pervade l’esecutivo si ferma insomma all’economia: a soffiare sui diritti civili non arriva. Là, il fronte più avanzato è l’elegante lavarsene le mani dello “spetta alle Camere”.
Eppure è solo l’Italia, tra i Paesi fondatori dell’Ue, ad avere zero norme che riconoscano le unioni di fatto. E, volendo, il governo qualcosa potrebbe farla. Abrogare la circolare Amato che vieta la trascrizione dei matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, per citare una tra le richieste di Arcigay e Certi diritti, che chiedono di “passare dalle parole ai fatti”. Già, ma a parte Fornero sul tema persino le parole scarseggiano. “Ci manca che si apra anche questo fronte”, commentano nell’entourage di un ministero di prima fascia. In effetti, qualsiasi tentativo di cavar fuori un’opinione cade nel vuoto. Il mutismo prevale, a braccetto con i troppi impegni. Non ha intenzione di aprire bocca il cattolico ministro della Cultura Lorenzo Ornaghi. Vuol prima documentarsi il titolare della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi. È impegnato e irraggiungibile il ministro dell’Ambiente Corrado Clini. E così pure il ministro dell’Interno Cancellieri. Oberata di incombenze la Guardasigilli Paola Severino. Non ce la fa a pronunciarsi nemmeno Renato Balduzzi, ministro della Salute: ma lui ha una storia che vale di rimbalzo come spiegazione. Da consigliere giuridico dell’allora ministro Bindi scrisse nel 2007 il testo dei Dico: e, fra l’altro, passò una notte a lambiccarsi per trovare un’espressione alternativa a “dichiarazione congiunta” che non piaceva a Rutelli. Si capisce che non voglia tornarci su. Svicola il ministro Andrea Riccardi, che pure ha le deleghe sulla Famiglia: “Il riconoscimento delle coppie omosessuali non è nel programma di governo”, si è limitato a precisare quando la Cassazione ha rilanciato il tema delle unioni gay chiamando il legislatore a coprire il vuoto. “Ci domandiamo allora a che serva il ministro della Famiglia”, commentò l’Idv Silvana Mura. Come a dire che il governo, anche quello di Monti, è sempre del Paese nel suo complesso che dovrebbe occuparsi. Difficile che lo faccia: per vocazione tecnica, ma anche per formazione. “La sentenza afferma un principio di pari opportunità vero”, ha spiegato Fornero a “Che tempo che fa”: ma, ha aggiunto, “come formazione sono un po’ tradizionalista”. Ricordava Diane Keaton, che in “Manhattan” ripeteva a Woody Allen: “Noi siamo di Philadelphia, di queste cose non parliamo”.

Dacci la nostra discriminazione quotidiana
Sono storie di ordinaria discriminazione. Piccoli e grandi diritti calpestati, ogni giorno, a migliaia di famiglie di fatto. Nell’Italia che non riconosce le coppie non sposate. E su cui nemmeno il tribunale può nulla.
EREDITÀ NEGATA
Marco e Filippo hanno vissuto insieme 16 anni. Poi un incidente d’auto ha messo fine al loro amore. Così a Milano, dove abitavano, s’è ripresentata la famiglia di Filippo. Saliti dalla Calabria per impugnare il testamento del figlio, che per anni non avevano voluto vedere. E si sono ripresi la casa. Sbattendo fuori Marco. “L’eredità in Italia è rigidamente legata al matrimonio. I beni passano solo a coniugi e parenti”, spiegano i legali della rete Lenford. E anche in caso di testamento, la famiglia può intervenire. Mentre, se nessuno protesta, chi resta in vita deve comunque pagare tasse molte elevate, perché la successione no-tax riguarda solo parenti e congiunti.
SCUSI, MA LEI CHI È?
Antonio e Fabrizio si conoscono a Roma nel 1996. Convivono per sette anni, poi Antonio si ammala di un grave linfoma a soli 27 anni. “Per l’ospedale io non esistevo, per cui non mi volevano far passare né informare sulla situazione di Antonio”, racconta Fabrizio. “Il medico mi disse: “Scusi, ma lei chi è?”". Dopo la chemioterapia il quadro si aggrava. Negli ultimi mesi la coppia presenta la domanda per il contributo di disoccupazione. Niente. In più Fabrizio non può ottenere le ore di permesso sul lavoro per assistere Antonio. “Ho dovuto usare le ferie e ho prosciugato il conto. I suoi parenti erano all’estero. Io ero lì. Ma per la legge esistevano solo loro”
NIENTE LEASING
Paolo vive a Milano con il suo compagno Andrea. Condividono la stessa casa. E la linea telefonica è intestata a Fabio. Ecco che, quando Paolo si presenta alla società di leasing il funzionario gli spiega che, per accedere a quel particolare servizio, è necessario essere intestatari di una linea telefonica fissa. Paolo spiega che il numero è intestato a Fabio, ma che loro vivono insieme e sono una coppia stabile da cinque anni. Niente da fare. O si cambia il contratto, o tanti saluti.
SALMA RAPITA
Roberto e Stefano sono una coppia che ha abitato per vent’anni a Roma. Poi la tragedia, una leucemia si porta via Stefano e i genitori, che non avevano mai gradito quella relazione, si riportano la salma del figlio in Sardegna. Ma Stefano era stato chiaro: “Voglio essere sepolto a Roma, per sentirti vicino”. Ed è così che Roberto ingaggia una lunga battaglia contro la burocrazia. Destinata a finire dopo anni con un nulla di fatto.
DOPPIO CANONE RAI
Giorgia è perseguitata dalla Rai. Sono tre anni che riceve, a cadenza regolare, il bollettino per pagare il canone. Il problema è che lei s’è trasferita dal compagno, Marcello, a Torino. Guardano insieme la tv e lui il canone lo paga regolarmente. “Per la Rai restiamo due nuclei famigliari diversi, quindi per la burocrazia io e Giorgio dovremmo pagare due volte il bollettino”.
LICENZA ADDIO
Luciano faceva il tassista in Veneto dal 1997. Poi una malattia l’ha strappato al suo compagno Ivano, con cui conviveva. Orfano e senza figli, per la legge non aveva eredi diretti. E così la sua licenza è stata ritirata dal Comune. “Abbiamo cercato, attraverso un avvocato, di trasferirla, ma io non esisto per lo Stato. E così anche la sua auto: è rimasta tre mesi sotto casa e poi è stata portata via”.

“Io, vedova negata di Nassiriya”
“Rivolgo un appello al presidente della Repubblica Napolitano e al ministro della Difesa Di Paola: se l’Italia vuole davvero essere civile ed europea, come dice Monti, lo Stato mi inviti ufficialmente il prossimo 12 novembre alle commemorazioni della strage di Nassiriya dove, assieme agli altri, morì il mio compagno Stefano”. Adele Parrillo, la “vedova fantasma” di Nassiriya, non ce la fa più. Quel 12 novembre 2003 nella strage morì anche il regista Stefano Rolla, assieme agli altri 18 italiani. Era il suo compagno di vita. L’uomo con cui divideva tutto e progettava di avere presto un figlio. L’uomo a cui lo Stato ha conferito la Croce d’Onore e intitolato vie e piazze. Mentre ad Adele non spedì nemmeno l’invito per i funerali. “Non eravamo sposati, quindi per lo Stato io non sono niente. È vergognoso quello che sto subendo da quasi dieci anni. Nonostante la sentenza del Tar che stabilisce che la mia relazione con Stefano equivale, nei fatti, a quella di moglie e marito”, racconta a “l’Espresso”. Sei anni di vita insieme dove avevano condiviso tutto, cancellate da quell’esplosione mentre girava il lungometraggio “Guerrieri di Pace”. Da quel tragico giorno in Italia ci sono vedove di serie A e serie B: “Quando si è inaugurato a Roma il monumento dedicato alle vittime di Nassiriya il sindaco Alemanno e il governatore Polverini invitarono 230 persone. Nemmeno in quel caso ci fu spazio per me”, continua Adele. “Non sto chiedendo riconoscimenti economici o altro, chiedo solo di poter stare lì insieme a tutti gli altri”, si sfoga. Ancora oggi nessuno ha fatto nulla perché questa discriminazione avesse fine. “Ma è venuto il momento che davvero le cose cambino in questo Paese. E il 12 novembre potrebbe essere la data in cui lo Stato dà un segno di civiltà”. È arrabbiata con la politica. E con chi ripete che non può essere una sentenza a decidere: “Usiamo le sentenze perché la politica latita. Monti è un tecnico? Faccia una cosa tecnica, garantisca l’eguaglianza sociale a mezza Italia, che oggi lo Stato dimentica”.
“Sì” tra gay entro otto anni
colloquio con Franco Grillini
“Faccio una profezia: fra 8 anni in Italia ci saranno comunque Pacs e matrimoni omosessuali. Se la politica non farà niente, entro quella data l’Europa ce lo imporrà”. Franco Grillini, leader storico del movimento gay, fu il pioniere delle coppie di fatto. Una battaglia che combatte da ormai quasi 30 anni.
Quando lanciò i Pacs?
“Era il 1985, al primo congresso Arcigay. Si litigò, perché all’epoca i gay non volevano le unioni civili, c’era il mito di “abbattere” la famiglia borghese. Oggi si chiede il matrimonio. Pensi lei come cambiano i tempi”.
Ancora nessuna legge, però.
“Boicottaggi continui. In Parlamento la prima proposta fu presentata dal Psi nel 1988. Scoppiò il finimondo. Prime pagine, tv, condanna del Vaticano. Nel 1996, con Prodi, c’erano 22 proposte di legge, ma nessun capogruppo chiese di inserirle. Il 21 ottobre 2002 presentai il “Pacs” con 161 firme. Sembrava il momento buono. Ma fu calendarizzato solo nel 2005, quando finì la legislatura”.
Così arrivò il “Dico” di Rosy Bindi.
“Anche quello nacque da un veto. Paola Binetti disse “no” allo sconto sulla tassa di successione per le coppie di fatto, che Visco aveva approvato, così la legge sui Pacs fu cambiata al ribasso”.
Erano una buona soluzione?
“Macché. Erano ridicoli. Per evitare che una coppia andasse all’Anagrafe e si “lanciasse il riso”, dissero, un convivente doveva spedire all’altro una raccomandata. E l’altro, a casa, firmava. E poi ci volevano 9 anni di convivenza, quando uno sposa la badante dopo due giorni, e nessuno dice niente”.
Ora la Cassazione riconosce le unioni gay. Cambierà qualcosa?
“Beh, è rivoluzionario. Dice che una coppia che invoca gli stessi diritti del matrimonio deve vederseli riconoscere. Dobbiamo inondare i tribunali italiani di pratiche, così la politica prenderà atto di una realtà che, dall’Istat alla Chiesa, si cerca di nascondere sotto il tappeto”.
E stavolta pensa che la politica romperà il grande tabù?
“Se perfino il cardinale Martini apre uno spiraglio, se anche Casini e l’Udc discutono di questo, vuol dire che il vento è cambiato. Sarà il tema caldo delle elezioni del 2013. Se poi la politica non farà nulla, la Ue lo imporrà. Entro 8 anni. Quando tutti i Paesi si saranno adeguati, toccherà a noi”.

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