Chiudono i carceri per i folli di Andrea Zambrano, 14-02-2012, http://www.labussolaquotidiana.it/
Per i più entusiasti è la rivoluzione copernicana della
psichiatria, per i sognatori una svolta epocale nella battaglia per i diritti
umani. L’annunciata chiusura dei sei opg (Ospedali psichiatrici giudiziari)
attivi in Italia ci sta proponendo un catalogo interessante di reazioni che
spaziano dall’epica all’agiografica basagliana.
In pochi però si sono chiesti se sia saggia la decisione di
chiudere entro il 31 marzo 2013 le carceri per i “folli rei” senza però
costruirvi attorno strutture che rispondano contemporaneamente a requisiti di
terapia, sicurezza sociale e cura della persona.
Il dispositivo affida genericamente ad enti locali e Asl la
gestione di strutture più ridotte per i malati considerati non più pericolosi,
ma non entra nel merito di come queste debbano essere strutturate per
rispondere a quei requisiti.
Sullo sfondo le parole del presidente Giorgio Napolitano che
più volte ha definito gli opg una vergogna nazionale. Vergogna di fronte alla
quale, secondo un modo tipicamente italiano si risponde nel modo più pilatesco
possibile: anziché migliorare le strutture, meglio chiuderle. Via il dente via
il dolore, secondo un procedimento già visto anni fa con la santificazione di
Franco Basaglia e la legge 180.
Ma sarà davvero così? Chi conosce da vicino il dramma della
follia sa che il confine tra sicurezza e pericolo è molto sottile.
L’impressione è che ci troviamo di fronte un film già visto: quando entrò in
vigore la legge 180 i manicomi vennero chiusi e si brindò alla rivoluzione,
secondo una strana concezione della psichiatria per la quale la malattia
mentale è frutto della società capitalistica e per guarirla basta reimmettere
nella società chi ne è rimasto vittima.
Si sognarono case famiglia, strutture all’avanguardia
protette in modo che al malato psichiatrico potesse essere offerto un percorso
di reinserimento graduale e attento ai suoi bisogni. Ma l’Italia è il paese
delle riforme a metà. Così, buttate via le chiavi dei maleodoranti casermoni
dove la follia veniva umiliata e segregata, ci si dimenticò di applicare
pienamente la riforma: il matto venne affidato, scaricato, sulle famiglie
d’origine al motto egualitarista che il pazzo non è pericoloso, ma è la società
che deve cambiare.
Quella società piccolo borghese che per Basaglia, pur animato
da buona fede, era il principale ostacolo alla sua realizzazione. Iniziò così
per tante famiglie un calvario che le vide in prima linea come vittime della
riforma mentre il basaglianesimo veniva eretto a dogma della cultura marxista,
secondo la quale non è l’uomo che è malato, ma la società che produce la lotta
di classe.
Il matto divenne un Icaro antiborghese e la sua malattia il
simbolo della dissidenza, mentre allo psichiatra veniva attribuito un ruolo
demiurgico di promotore della rivoluzione. Intanto le famiglie, madri e padri
umiliati quotidianamente vivevano nel silenzio delle pareti domestiche drammi,
abbandoni e solitudini sedate a suon di psicofarmaci nell’indifferenza di
quelle strutture che avrebbero dovuto occuparsi di quel problema chiamato uomo.
L’impressione, con questa decisione, alla quale mancano
criteri applicativi, ma sulla cui copertura economica già si fanno balletti
consolatori, è ancora una volta la dimostrazione che la politica ha adbicato al
suo ruolo e scaricato sui deboli.
Perché prendersi cura di un malato mentale non vuol dire
cambiare la società, ma mettere al centro prima di tutto la persona malata,
come unica e irripetibile, con una psiche, un corpo e un contesto di
appartenenza: un uomo, con una follia e una dignità. Non con una missione
sociale da compiere.
Dunque: siamo di fronte ad un film già visto? La Bussola
Quotidiana lo ha chiesto al professor Adriano Segatori, psichiatra dell’Asl di
Gorizia autore del libro “Oltre l’utopia basagliana”. «Forse che la chiusura delle
case chiuse ha eliminato la piaga della prostituzione? », si chiede Segatori,
il quale sa che nel dibattito sulla chiusura degli Opg, dopo quel libro che
infrangeva il mito del basaglianesimo come ideologia, il ruolo della Cassandra
è suo.
Ben inteso: lo psichiatra non nega assolutamente la bontà
della legge 180 laddove conferisce status di malato a quello che prima era un
generico alienato rinchiuso, ma la sua testimonianza può offrire uno spunto per comprendere come
l’entusiasmo di molti partiti e dei media, sia eccessivo o possa portare ad un
binario morto. Segatori ricorda che «non basta eliminare un dispositivo, perché
il problema scompaia».
Qui il problema è quello di capire che cosa s’intenda per
strutture alternative perché «non è che se le strutture non funzionano, queste
vadano eliminate». E neppure «bisogna, come accaduto con l’ideologia
basagliana, democratizzare la patologia, come si fece negli Stati Uniti quando
dal manuale diagnostico statistico si tolse ai voti l’omosessualità come disturbo
di identità».
Dunque la domanda fondamentale, che nasconde un timore più
grosso è: «Parliamo di persone malate condannate per reati pesanti, dallo
stupro all'omicidio seriale. Così, quando e se accadranno fatti gravi, ci si
scaricherà la coscienza dicendo che la legge non è stata applicata in pieno?».
Il problema semmai è fare una valutazione su quante persone
possono essere dimesse «tenendo però presente che una volta giudicato
dimissibile un malato, cioè che su di lui è stato fatto il massimo che può
ottenere una cura, questi rimane pericoloso: quindi che ne sarà di lui? ».
C’è poi un'insidia nelle competenze e nei costi: «Quelle
poche strutture private attualmente alternative all’Opg costano 200 euro al
giorno: il superamento dell’Opg deve presupporre anche questo ragionamento». E’
chiaro che, considerata come una chiusura puramente burocratica «la decisione
del Senato si annuncia come una follia e un’utopia».
Che fare? «Meglio sarebbe eliminare tutte le forme di
malversazione e potenziare le strutture dotando il personale di mezzi e
strutture adeguate». Ma è evidente che il dibattito è filosofico, o meglio,
quasi teologico dal momento che per «molti colleghi di “Psichiatria
democratica", il basaglianesimo è un dogma politico e una fede».
Ecco che il rischio è fare della «sociologia irenistica»
tramandataci dal basaglianesimo, che ha cercato di spiegare la complessità del
disturbo psichico attraverso un corto circuito sociale, con il malato mentale
simbolo di una società ingiusta e l’operatore psichiatrico un demiurgo
rivoluzionario».
Segatori cerca dunque di sfatare il mito che «il matto deve
essere guarito da quella società che ha provocato la sua tragedia», e si oppone
ai rigidi schematismi secondo i quali al modello medico si è sostituito il
modello sociale, con l’integrazione sociale al posto della cura medica, i
diritti umani, al posto del prendersi cura.
«Il basaglianesimo - prosegue - si fondava solo sui diritti
del paziente a entrare in società, ma senza il dovere di rispettare le regole e
di assumersi le proprie responsabilità». Responsabilità che deve avere anche lo
psichiatra quando ammette con umiltà «che non c’è niente da fare: questo non
significa abbandonare la persona, ma non creare false illusioni».
Ultimo aspetto che vizia il dibattito è la contrapposizione
tra l’impostazione basagliana «meccanicista» perché per Basaglia «l’uomo è un
elemento la cui disfunzione è causata dalla società e dalla società deve essere
guarito», contro il suo opposto, codificato dall’esasperazione secondo cui il
problema cerebrale deve curarsi con i farmaci.
«In entrambi i casi manca la componente spirituale
dell’uomo, la sua componente psichica, che c’è al di là della società e dei
farmaci, che ha leggi proprie e che si affronta soltanto entrando in relazione
con la persona sofferente e la sua unicità». Chiudono i carceri per i folli
di Andrea Zambrano14-02-2012
Per i più entusiasti è la rivoluzione copernicana della
psichiatria, per i sognatori una svolta epocale nella battaglia per i diritti
umani. L’annunciata chiusura dei sei opg (Ospedali psichiatrici giudiziari)
attivi in Italia ci sta proponendo un catalogo interessante di reazioni che
spaziano dall’epica all’agiografica basagliana.
In pochi però si sono chiesti se sia saggia la decisione di
chiudere entro il 31 marzo 2013 le carceri per i “folli rei” senza però
costruirvi attorno strutture che rispondano contemporaneamente a requisiti di
terapia, sicurezza sociale e cura della persona.
Il dispositivo affida genericamente ad enti locali e Asl la
gestione di strutture più ridotte per i malati considerati non più pericolosi,
ma non entra nel merito di come queste debbano essere strutturate per
rispondere a quei requisiti.
Sullo sfondo le parole del presidente Giorgio Napolitano che
più volte ha definito gli opg una vergogna nazionale. Vergogna di fronte alla
quale, secondo un modo tipicamente italiano si risponde nel modo più pilatesco
possibile: anziché migliorare le strutture, meglio chiuderle. Via il dente via
il dolore, secondo un procedimento già visto anni fa con la santificazione di
Franco Basaglia e la legge 180.
Ma sarà davvero così? Chi conosce da vicino il dramma della
follia sa che il confine tra sicurezza e pericolo è molto sottile.
L’impressione è che ci troviamo di fronte un film già visto: quando entrò in
vigore la legge 180 i manicomi vennero chiusi e si brindò alla rivoluzione,
secondo una strana concezione della psichiatria per la quale la malattia
mentale è frutto della società capitalistica e per guarirla basta reimmettere
nella società chi ne è rimasto vittima.
Si sognarono case famiglia, strutture all’avanguardia
protette in modo che al malato psichiatrico potesse essere offerto un percorso
di reinserimento graduale e attento ai suoi bisogni. Ma l’Italia è il paese
delle riforme a metà. Così, buttate via le chiavi dei maleodoranti casermoni
dove la follia veniva umiliata e segregata, ci si dimenticò di applicare
pienamente la riforma: il matto venne affidato, scaricato, sulle famiglie
d’origine al motto egualitarista che il pazzo non è pericoloso, ma è la società
che deve cambiare.
Quella società piccolo borghese che per Basaglia, pur
animato da buona fede, era il principale ostacolo alla sua realizzazione.
Iniziò così per tante famiglie un calvario che le vide in prima linea come
vittime della riforma mentre il basaglianesimo veniva eretto a dogma della
cultura marxista, secondo la quale non è l’uomo che è malato, ma la società che
produce la lotta di classe.
Il matto divenne un Icaro antiborghese e la sua malattia il
simbolo della dissidenza, mentre allo psichiatra veniva attribuito un ruolo
demiurgico di promotore della rivoluzione. Intanto le famiglie, madri e padri
umiliati quotidianamente vivevano nel silenzio delle pareti domestiche drammi,
abbandoni e solitudini sedate a suon di psicofarmaci nell’indifferenza di
quelle strutture che avrebbero dovuto occuparsi di quel problema chiamato uomo.
L’impressione, con questa decisione, alla quale mancano
criteri applicativi, ma sulla cui copertura economica già si fanno balletti
consolatori, è ancora una volta la dimostrazione che la politica ha adbicato al
suo ruolo e scaricato sui deboli.
Perché prendersi cura di un malato mentale non vuol dire
cambiare la società, ma mettere al centro prima di tutto la persona malata,
come unica e irripetibile, con una psiche, un corpo e un contesto di
appartenenza: un uomo, con una follia e una dignità. Non con una missione
sociale da compiere.
Dunque: siamo di fronte ad un film già visto? La Bussola
Quotidiana lo ha chiesto al professor Adriano Segatori, psichiatra dell’Asl di
Gorizia autore del libro “Oltre l’utopia basagliana”. «Forse che la chiusura
delle case chiuse ha eliminato la piaga della prostituzione? », si chiede
Segatori, il quale sa che nel dibattito sulla chiusura degli Opg, dopo quel
libro che infrangeva il mito del basaglianesimo come ideologia, il ruolo della
Cassandra è suo.
Ben inteso: lo psichiatra non nega assolutamente la bontà
della legge 180 laddove conferisce status di malato a quello che prima era un
generico alienato rinchiuso, ma la sua testimonianza può offrire uno spunto per comprendere come
l’entusiasmo di molti partiti e dei media, sia eccessivo o possa portare ad un
binario morto. Segatori ricorda che «non basta eliminare un dispositivo, perché
il problema scompaia».
Qui il problema è quello di capire che cosa s’intenda per
strutture alternative perché «non è che se le strutture non funzionano, queste
vadano eliminate». E neppure «bisogna, come accaduto con l’ideologia
basagliana, democratizzare la patologia, come si fece negli Stati Uniti quando
dal manuale diagnostico statistico si tolse ai voti l’omosessualità come
disturbo di identità».
Dunque la domanda fondamentale, che nasconde un timore più
grosso è: «Parliamo di persone malate condannate per reati pesanti, dallo
stupro all'omicidio seriale. Così, quando e se accadranno fatti gravi, ci si
scaricherà la coscienza dicendo che la legge non è stata applicata in pieno?».
Il problema semmai è fare una valutazione su quante persone
possono essere dimesse «tenendo però presente che una volta giudicato
dimissibile un malato, cioè che su di lui è stato fatto il massimo che può
ottenere una cura, questi rimane pericoloso: quindi che ne sarà di lui? ».
C’è poi un'insidia nelle competenze e nei costi: «Quelle
poche strutture private attualmente alternative all’Opg costano 200 euro al
giorno: il superamento dell’Opg deve presupporre anche questo ragionamento». E’
chiaro che, considerata come una chiusura puramente burocratica «la decisione
del Senato si annuncia come una follia e un’utopia».
Che fare? «Meglio sarebbe eliminare tutte le forme di
malversazione e potenziare le strutture dotando il personale di mezzi e
strutture adeguate». Ma è evidente che il dibattito è filosofico, o meglio,
quasi teologico dal momento che per «molti colleghi di “Psichiatria democratica",
il basaglianesimo è un dogma politico e una fede».
Ecco che il rischio è fare della «sociologia irenistica»
tramandataci dal basaglianesimo, che ha cercato di spiegare la complessità del
disturbo psichico attraverso un corto circuito sociale, con il malato mentale
simbolo di una società ingiusta e l’operatore psichiatrico un demiurgo
rivoluzionario».
Segatori cerca dunque di sfatare il mito che «il matto deve
essere guarito da quella società che ha provocato la sua tragedia», e si oppone
ai rigidi schematismi secondo i quali al modello medico si è sostituito il
modello sociale, con l’integrazione sociale al posto della cura medica, i
diritti umani, al posto del prendersi cura.
«Il basaglianesimo - prosegue - si fondava solo sui diritti
del paziente a entrare in società, ma senza il dovere di rispettare le regole e
di assumersi le proprie responsabilità». Responsabilità che deve avere anche lo
psichiatra quando ammette con umiltà «che non c’è niente da fare: questo non
significa abbandonare la persona, ma non creare false illusioni».
Ultimo aspetto che vizia il dibattito è la contrapposizione
tra l’impostazione basagliana «meccanicista» perché per Basaglia «l’uomo è un
elemento la cui disfunzione è causata dalla società e dalla società deve essere
guarito», contro il suo opposto, codificato dall’esasperazione secondo cui il
problema cerebrale deve curarsi con i farmaci.
«In entrambi i casi manca la componente spirituale
dell’uomo, la sua componente psichica, che c’è al di là della società e dei
farmaci, che ha leggi proprie e che si affronta soltanto entrando in relazione
con la persona sofferente e la sua unicità».
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