venerdì 23 novembre 2012


Quando il bambino down è «meno persona» di Alberto Gambino - La preoccupante sentenza della Cassazione che ha risarcito genitori e figlio down perché non avrebbe dovuto nascere ha rotto un’altra diga giuridica ipotizzando un «diritto  a non nascere se non sani» – Avvenire, 22 novembre 2012

Non si sono ancora spenti gli echi della decisione della Corte di Cassazione che ha attribuito un risarcimento del danno per mancata informazione della sindrome di down, non solo ai genitori ma anche alla bambina. Nei giorni scorsi un gruppo di giuristi delle migliori scuole della civilistica italiana si è riunito per discutere e criticare quella che appare una decisione che riduce la vita delle persone con disabilità quale risultato di una mancata scelta abortiva, facendo trapelare un inaccettabile diritto a non nascere se non sani.  La vicenda, come noto, riguarda un medico che non ha  adeguatamente informato una coppia sulle possibili patologie cui il feto poteva essere affetto. La bambina è poi nata con sindrome di down e i genitori hanno chiesto il risarcimento del danno al medico. In questo caso si è stabilito che anche la bambina ha diritto a un autonomo risarcimento di danno.
ll ragionamento è il seguente: poiché la madre ha il diritto di conoscere lo stato di salute del feto e, in base alla legge 194, di chiedere eventualmente l’interruzione di una gravidanza che si ritiene possa comportare una lesione psico-fisica, ove questo potere non sia effettivamente esercitato a causa della mancata informazione medica non solo la madre ma anche il bambino, la cui esistenza è segnata, ha diritto al risarcimento del danno.  Già ma di quale danno stiamo parlando? Il bambino, a ben leggere la sequenza degli eventi, non è stato danneggiato, essendo già in utero portatore dalla sindrome di down e, dunque, non si può avanzare la pretesa di una violazione al suo diritto alla salute, configurata nella sua patologia sin dal concepimento e non certo provocata dalla mancata informazione del medico. In realtà con la sottile definizione utilizzata dalla Cassazione per affermare l’insorgenza del danno, individuato nella «nascita malformata, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita a un soggetto di diritto attualmente esistente» (sono le parole che utilizza l’estensore della sentenza), si finisce con l’inquadrare l’inizio dell’evento dannoso nel fatto stesso della nascita così cadendo nella dinamica di una sorta di «diritto a non nascere se non sani», che – almeno a parole – la Cassazione nelle sue 76 pagine avrebbe voluto sgomberare dal campo.
Persona e salute sembrano cioè viaggiare su binari distinti. Emerge una condizione di discontinuità soggettiva nella titolarità di un diritto alla salute tra la fase prenatale e la nascita, dove l’evento nascita  fungerebbe, allo stesso tempo, da fatto attributivo di un diritto (alla salute) ed  evento causale del danno (la "nascita malformata"), quando è invece pacifico che il diritto alla salute, nelle condizioni date dalla natura, riguardi anche la vita fetale.  La decisione centra in pieno l’esito che decenni di giurisprudenza italiana sul tema erano riusciti a evitare, facendo riemergere un ragionamento finora scongiurato: sono nato con alcune disabilità, e se lo avessi saputo avrei preferito non nascere; poiché tu medico non hai allertato i miei genitori – i quali, sapendo della mia sindrome, non mi avrebbero fatto nascere – ora ti chiedo il risarcimento del danno. Il danno è quello di una vita insopportabile anziché la sua soppressione. E, tra l’altro, giudizialmente parlando, lo reclamano, non il bambino ma, a suo nome, i genitori.
Se la linea della Cassazione trovasse terreno fertile nelle decisioni successive, l’inevitabile conseguenza logica sarà che d’ora in avanti qualsiasi persona con disabilità andrebbe valutata, in punto di tutela risarcitoria, in modo diverso a seconda che la sua nascita sia o meno frutto di una libera scelta dei genitori: nel primo caso, essa mai potrebbe reclamare un risarcimento; mentre ove, per un errore di informazione medica, la nascita sia da considerare indesiderata, la persona disabile andrebbe risarcita «affinché quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole» (di nuovo parole dell’estensore della sentenS za). Dunque, seguendo il ragionamento della Cassazione, davanti a uno stesso evento "dannoso" e a uno stesso diritto soggettivo avremmo due trattamenti diversi delle persone nate con sindrome di down. Può questa disparità giustificarsi a causa della violazione di un diritto altrui (il mancato libero esercizio del potere di interrompere la gravidanza da parte della madre)?
In realtà, con la configurazione di un bene-salute del feto poi bambino, menomato naturaliter per un fattore risalente al concepimento, ma risarcibile solo in ragione dell’evento della nascita non desiderata dalla madre, si finisce per scivolare dentro una vicenda che degrada, almeno in termini giuridici, il significato dell’esistenza umana sradicandola dal suo essere «valore giuridico in sé» (come la stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte ricordato). In altri termini, il ruolo della tutela risarcitoria da strumento di protezione delle persone e del loro patrimonio sconfina verso compiti impropri che rischiano di comprimere la lettura sociale della vita delle persone con disabilità entro limiti angusti, in totale distonia con la ricchezza umana, sociale e solidale che entro tali relazioni interpersonali quotidianamente si rappresenta. Deriva finora scongiurata dalla civilistica italiana, nelle sue componenti dottrinali e giurisprudenziali. 

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