"COSÌ LA MALATTIA DIVENTA UN ROMANZO" di Vanna Vannuccini - la
Repubblica, 16 Febbraio 2012
Lo scrittore Geiger ha fatto un
libro sull´Alzheimer del padre "Piano piano ho cominciato a capire che
dovevo entrare in relazione con la sua realtà"
Che cosa spinge un figlio a
scrivere un libro sull´Alzheimer che ha colpito il padre? Sono i sensi di colpa
per non aver saputo o voluto parlare col padre quando c´era ancora tempo? Arno
Geiger l´ha fatto (Il vecchio re nel suo esilio, Bompiani, pagg. 168, euro 16)
realizzando un libro commovente, sensibile, che riesce a togliere alla malattia
gran parte della sua aura negativa. In Germania ha fatto scalpore, prima del
suo libro, quello di Tilman Jens, figlio di un illustre letterato, sul padre
Walter Jens, anche lui colpito da Alzheimer.
Per un figlio, l´identificazione
col padre è così forte da rendergli impossibile accettare che il suo principale
simbolo di autorità sia colpito da demenza?
«Sì, anche se ogni caso è diverso
dall´altro. Ogni famiglia è infelice – o felice – a modo suo e non sta certo a
me giudicare. Ma penso che Walter Jens sia stato un padre molto dominante se il
figlio pensa addirittura che si sia rifugiato nella demenza per sfuggire al
confronto con le proprie responsabilità, lui uomo liberale di sinistra, dopo
che era venuto fuori che da giovane era stato iscritto al partito nazista. Quando
ho letto il libro ho pensato che è difficile immaginare un padre più potente di
così, uno che perfino la demenza non la subisce ma la vuole – un superuomo. A
mio padre non avrei mai potuto attribuire tanta autorità e tanta potenza, di
lui si può solo dire che è stato colpito da una disgrazia».
La demenza è un tabù fortissimo
nella nostra società, forse il più forte. Che cosa spaventa di più?
«Tutto fa spavento. Per esempio,
la perdita delle capacità normali. Nessuno abbandona volentieri quello che ha
imparato nella vita, e nella nostra società siamo stati allevati a mantenere
sempre il controllo: se qualcuno si sottrae a questo corsetto civilizzatore,
non corrisponde più ai ruoli prescritti, di genitore, di coniuge, lo spavento è
enorme. Soprattutto gli inizi della malattia sono difficili. Poi lentamente si
riesce a trovare una strada per affrontarla senza disperazione».
Lei in questo libro ci offre le
idee, le conoscenze, su quello che conta davvero in situazioni del genere.
«All´inizio ho fatto molti sbagli.
Avevo spesso degli scontri con mio padre perché non accettavo l´idea che non
volesse fare le cose normali che aveva sempre fatto. Piano, piano ho preso atto
che non sarebbe più uscito dall´isola su cui l´aveva gettato la malattia e ho
capito che toccava a me costruire dei ponti: se lui non si raccapezzava più
nella realtà degli altri, la sola via per comunicare era entrare in relazione
con la sua realtà. Ho capito che era importante per lui che non gli dicessi:
hai fatto male, hai sbagliato, ma invece proponessi: ora facciamo questa cosa
insieme e anche se non ti riesce più tanto bene non importa, visto che la
facciamo insieme. Dapprima uno ha solo paura. Poi mi sono sentito solidale.
Dopo tutto l´esperienza di sentirsi estranei, anche a se stessi, è molto
umana».
L´essere umano, lei dice,
mantiene la propria dignità anche quando è andato perduto il raziocinio, che
noi consideriamo l´essenza dell´uomo.
«In realtà questo non è proprio
esatto perché di mio padre non posso dire che non sia un uomo raziocinante. Sa
che cosa è il bene e che cosa è il male, distingue un gesto amichevole da uno
ostile. Ha un sistema di valori, forse non lo può formulare, forse nemmeno
afferrarlo, ma certo la dignità gli resta. Questa può venire lesa solo
dall´esterno, per come viene trattato».
Come è riuscito a stabilire
rapporti diversi, creare una nuova quotidianità?
«Concentrandomi sul presente. Il
passato è terra bruciata. Certo possono esserci sensi di colpa per non aver
saputo parlare quando c´era ancora tempo, ma adesso è inutile rivangare, sul
quel terreno non c´è più nulla da fare. Naturalmente tutto questo cambia da
persona a persona. Con mio padre la comunicazione è possibile quando gli si dà
un senso di sicurezza e di intimità. Quando si sente benvoluto, quando percepisce
solidarietà intorno a lui allora ride, diventa così spontaneo, così allegro e
spiritoso che anche noi siamo felici e l´atmosfera in famiglia cambia
istantaneamente».
Mettere una pietra sopra il
passato può essere anche liberatorio.
«Il passato perde di significato.
Siamo figli del presente e questo in un certo senso è liberatorio. Spesso è
meglio guardare avanti. Neanche l´insicurezza sul futuro importa molto, perché
nonostante ognuno di noi abbia le proprie preoccupazioni, a mio padre tutto
questo non interessa più, interessa solo il momento in cui ci si abbraccia. C´è
perfino un nuovo aspetto di tenerezza fisica: mio padre, figlio di contadini
cattolici austriaci, non aveva mai avuto nessuna dimestichezza col corpo,
quand´ero bambino era incapace di tenermi per mano. Mentre ora lo fa. Mio padre
è sempre stato un po´ misantropo, ha sempre parlato pochissimo e questo mi
turbava, soprattutto perché anch´io ero diventato un po´ così. Mi pesava la
sensazione che qualcosa mancasse nella famiglia, che ci fossero problemi di cui
non si parlava mai, che una patina di sconforto aleggiasse su tutti noi
rendendoci infelici».
E ora?
«Una famiglia può essere una cosa
terribile oppure meravigliosa. In questa crisi la nostra famiglia è diventata
più unita. E questa è una fortuna, non c´è nulla di meglio dei rapporti
famigliari quando funzionano. E io credo sia merito di mio padre, di come ha
cresciuto noi fratelli, se siamo rimasti vicini. Perché occuparsi di un demente
ti consuma, è una cosa molto dura. Ci deve essere un legame forte perché uno
non scappi, non scompaia».
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