MANI PULITE/ Gherardo Colombo: ho smesso di fare il pm per non dover
più giudicare - INT. Gherardo Colombo - martedì 14 febbraio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Il 17 febbraio 1992 finì in
manette Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Era
l’inizio di Tangentopoli. Sulla stampa si fanno bilanci, si contano guadagni e
perdite. Nel suo editoriale sul Corriere di domenica scorsa, Ferruccio De
Bortoli ha richiamato la contabilità di quella stagione; Piercamillo Davigo lo
ha fatto a proposito dell’«azzeramento di cinque partiti», della «cesura netta
nelle dinamiche politiche del Paese».
Ma non c’è solo il tema politico.
Il governo vuol fare un indulto perché le carceri scoppiano e non ci sono
soldi. Ma fuori dalle statistiche e dai bilanci (in rosso) del sistema
penitenziario, a dispetto della «stagione che ha cambiato l’Italia», il male,
la colpa, esistono ancora.
«Occorre che pur pagando quello
che ognuno di noi deve pagare» scriveva, nel 2005, Ilario, dal carcere Due
Palazzi di Padova «ciascuno sia aiutato a guardare a una prospettiva». E
aggiungeva: «quando ci si rende conto del male fatto, non si vorrebbe più
finire di scontare la pena e anche, quando la si è finita di scontare, il
dolore che rimane nel cuore è grande».
Gherardo Colombo, ex pm di Mani
Pulite, oggi a capo di Garzanti Libri, ha scritto un libro («Il perdono
responsabile», ndr) in cui auspica che sia il perdono – e non la retribuzione, cioè la pena – il
fulcro del sistema penale. Si può davvero fare a meno della restrizione, senza
cambiare di senso a parole come giustizia, perdono, riparazione? Non sono
domande facili. «Ho smesso di fare il pm per non dover giudicare», dice
Gherardo Colombo a IlSussidiario.net.
Da dove vengono le sue obiezioni
al nostro sistema penale? Dallo stato delle carceri? O da una visione sbagliata
della retribuzione?
Credo che il principio della pena
come retribuzione contrasti con una società ispirata al rispetto della dignità
delle persone, e insieme porti all’obbedienza ma non alla capacità di
esercitare la libertà. Non da ultimo, sono convinto che non dia risultati
nemmeno sotto il profilo del contenimento della devianza.
Ma qual è il compito della
sanzione penale? Posto che essa non può soddisfare adeguatamente il bisogno
umano di giustizia, un sistema basato sul perdono non rischierebbe di
vanificare del tutto, svuotandolo, questo bisogno?
Credo che la retribuzione, intesa
come l’applicare il male a chi ha fatto il male, se c’è una cosa che soddisfa è
solo ed esclusivamente il desiderio di vendetta. Che oggi, per fortuna, è
considerato in modo unanime un sentimento assolutamente negativo. Questo porta
a dire che urge una prospettiva diversa: tutte le volte che esiste una
deviazione dal vivere sociale, bisogna fare in modo che questo atteggiamento
deviante sia ricomposto, cioè che le persone che commettono un reato
coinvolgendo altre persone non lo facciano più in futuro.
E come si fa?
Sicuramente sappiamo che non lo
si può fare attraverso il carcere, perché il 68 per cento delle persone che
escono dal carcere tornano a delinquere. Questa è la prova più lampante della
sua inutilità. Si dirà: qual è l’alternativa? L’alternativa è una strada, non
bisogna nasconderselo, molto difficile. Occorre un percorso attraverso il quale
le persone che hanno deviato assumano la responsabilità delle loro azioni. Il
carcere fa l’opposto, perché è de-responsabilizzante.
La sua non è una posizione
semplice.
Mi rendo conto che l’umanità ha
vissuto avendo come punto di riferimento per la devianza il principio di
retribuzione. E so che è un percorso difficile da capire, come è difficile
spogliarsi di queste istanze «di pancia» che ci rendono così difficile
ragionare su questo tema.
Non è possibile che la detenzione
possa far parte di un percorso attraverso cui il detenuto riflette su di sé, su
quello che ha fatto?
Separerei due aspetti. Un aspetto
è quello della pericolosità: quando una persona è pericolosa deve essere messa
in condizioni di non nuocere: è il lato della prevenzione. Che – a rigore –
dovrebbe anche prescindere dall’effettiva commissione di un reato. Se una
persona dice: «adesso faccio una strage», non è necessario che prima la compia
per essere resa inoffensiva; occorrerebbe farlo prima.
Come facciamo?
Occorre che quella persona stia
in un luogo «a parte». Ma stare da un’altra parte non può voler dire perdere
tutti i contatti con la famiglia ed essere chiuso in una cella di tre metri per
quattro con altre persone che non ha scelto lui; non può voler dire non potersi
fare curare dal proprio medico di fiducia; o poter fare la doccia solo quando
lo decidono gli altri.
Si tratta però sempre del carcere.
O no?
Vede, quello del carcere diviene
un aspetto che non possiamo nemmeno più chiamare, appunto, «detentivo», perché l’uso di questo termine
richiama solo ed esclusivamente il carcere come lo conosciamo oggi. Allora la parola
risulta fuorviante. Il significato che diamo normalmente alla parola
«detenzione» non ci fa capire che cosa intendiamo per una forma di separazione
dagli altri funzionale all’acquisizione della responsabilità e al recupero
della persona. Un percorso di cui la vittima è parte in causa e non, viceversa,
da cui è esclusa, come avviene oggi.
Il cosiddetto «ristabilimento
della giustizia» ha a che fare solo con la dimensione soggettiva, o anche con
una dimensione oggettiva cioè con un «ordine» che sarebbe stato violato?
Sarei per evitare queste
generalizzazioni, che fanno perdere il contatto con i casi concreti; perché
questo «ordine sociale» che verrebbe violato è di una astrazione tale che non
riusciamo nemmeno più a raccapezzarci. Quando una persona fa un grave torto ad
un’altra persona, la cosa che bisognerebbe riuscire a fare è ricomporre la
relazione; di chi ha fatto il torto con chi ha subito il torto e con il resto
della società.
Lei ha anche ipotizzato soluzioni
alternative per attuare questo recupero?
Il mio libro prende in esame
moltissimi strumenti di mediazione penale e di giustizia ripartiva adottati in
moltissimi paesi, dalla Germania al Belgio, dal Canada all’Australia e alla
Nuova Zelanda. Rimando alle riflessioni contenute in quella sede.
Evitiamo dunque le
generalizzazioni e rimaniamo al caso concreto. Cosa pensa di un caso recente
come quello del padre del carabiniere ucciso da Marino Occhipinti, che giura di
non voler perdonare il suo omicida?
Ho smesso di fare il pm per non
dover giudicare. Le posso dire che evidentemente si è trattato di una
sofferenza immensa, nello stesso tempo, però, mi faccio delle domande, e mi
chiedo se la grande sofferenza che questa persona patisce, possa essere lenita
in un modo diverso che non sia quello dell’avere la sicurezza che la persona
che è stata causa di questa sofferenza soffra a sua volta.
Cosa pensa dell’articolo 27 della
nostra Costituzione?
Avrei preferito l’uso di una
parola diversa da quella della «pena». Comprendo che storicamente questo non
sia stato possibile, ma a mio modo di vedere è un termine che appartiene solo
ed esclusivamente al vocabolario della retribuzione e non della giustizia
riparativa. Che il trattamento successivo al reato debba consistere in una
rieducazione tendente al reinserimento e al recupero della persona, è cosa che
assolutamente condivido. Metterei insieme a questi capisaldi anche l’ultimo
comma dell’articolo 13.
Nell’attuale regime di
restrizione ci sono detenuti che abbracciano forme di recupero basate sul
lavoro in carcere. La loro percentuale di recidiva è praticamente azzerata. Che
ne pensa?
È la conferma di quanto vado
dicendo. Un carcere in cui le persone stanno chiuse in cella per 22 ore al
giorno senza fare sostanzialmente nulla, è un carcere che non aiuta il recupero
e la socializzazione. Al contrario il lavoro serve moltissimo a recuperare
rapporti, a ricostruire significati.
In una recensione al suo lavoro
pubblicata su queste pagine si avanzano dubbi sulla praticabilità di un sistema
come quello da lei prospettato, «basato esclusivamente sul perdono ed
escludente radicalmente la dimensione sanzionatoria della pena e l’idea di
espiazione».
Sì, ho letto. Guardi, io penso
che la sofferenza possa avere anche una valenza positiva, soltanto però quando
si tratta di una sofferenza accettata, accolta dalla persona che soffre. Qui il
tema centrale è quello dell’imposizione: e l’imposizione, secondo me, porta
sempre con sé una dose troppo forte di negatività.
(Federico Ferraù)
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