venerdì 16 novembre 2012


«Impariamo ad ascoltare gli stati vegetativi» di Pino Ciociola, Avvenire, 15 novembre 2012 L’annuncio di un canale  di dialogo aperto con un paziente canadese che da 12 anni  non mostrava segni di coscienza  ha confermato che la strada intrapresa da alcuni neurologi è quella giusta: rivedere le diagnosi di questi disabili gravi imparando a non darli più per spacciati

Vent’anni fa avevamo una concezione delle varie patologie conseguenza delle gravissime cerebrolesioni acquisite, dieci anni fa un’altra, oggi sicuramente un’altra ancora. Il lavoro di Adrian Owen è la conferma di quanto sappiamo da molti anni»: così dice Steven Laureys, belga, il più autorevole neurologo europeo (e fra i luminari mondiali) a proposito di stato vegetativo. Non è troppo stupito da quanto ha raccontato il suo collega e amico Owen (rilanciato da Avvenire di ieri): un uomo in stato vegetativo da 12 anni, il 39enne canadese Routley Scott, ha fatto sapere che non prova dolore rispondendo a domande attraverso la risonanza magnetica funzionale. «Anche noi abbiamo ottenuto e pubblicato lo stesso risultato, due anni fa», spiega. Questa novità «fa venir fuori l’aspetto più importante», che è «dare maggiore ascolto ai familiari. È una lezione che dobbiamo imparare. Anche nel caso di quest’uomo canadese, i genitori avevano sempre detto, inascoltati, che secondo loro riusciva a percepire qualcosa».
I neurologi che lo seguono da dieci anni sono stupefatti e si sono convinti che andranno riscritti i libri di medicina sulla materia: «In realtà da tempo abbiamo a disposizione tecnologie grazie alle quali possiamo dimostrare che esiste una coscienza anche nelle persone in stato vegetativo. Io ne sono sicuro», annota Laureys. Per questo bisogna avere umiltà, accettando che le concezioni precedenti sono state via via smantellate dalle evidenze scientifiche, come ripete più volte il neurologo belga: «Le diagnosi sono sempre rimaste ingabbiate dentro le loro differenti "scatole" (in inglese usa la parola "boxes", ndr): lo stato vegetativo, la minima coscienza, e così via». Ma questa strada va abbandonata: «Non è più possibile definire con certezza quelle "scatole"», non fosse soltanto perché «si può passare da uno stato all’altro in modo molto veloce», e «dunque sarebbe sbagliato rinchiudere ancora le patologie conseguenti alle gravi cerebrolesioni dentro le vecchie "scatole"».
Infatti – aggiunge, convinto – «noi li chiamiamo "stati", ma in realtà non sono tali. Sono sindromi... Ed è ben diverso». Non a caso la «European task force of vegetative state» (di cui Laureys è membro) propose fin dal 2008 la nuova definizione di «Sindrome di veglia aresponsiva» al posto di stato vegetativo. Insomma, «davvero non si può più semplificare con le diagnosi di "stato vegetativo" e "minima coscienza"», come è anche vero che «su queste non si hanno più risposte certe. Bisogna quindi stare molto, molto attenti». Owen ha subito sottolineato come adesso si aprano nuovi scenari: presto si potrebbe chiedere a questi pazienti come poter migliorare la qualità della loro vita. «È vero, ma anche qui dobbiamo muoverci con i piedi di piombo – annota Laureys –. Prima di tutto dovremo capire molto bene cosa potremo chiedere alla tecnologia e poi ai pazienti. Dovremo arrivare a fidarci di queste due variabili: la tecnologia e le risposte di questi pazienti», anche perché «ne discende tutta una serie di aspetti, anche legali».
I motivi della prudenza sono evidenti. «Intanto noi otterremo risposte attraverso una tecnologia» – continua Laureys – e poi «le avremo da un paziente di cui non sappiamo quale percezione abbia di sé. Dovremo arrivare a fidarci di quelle due variabili: la macchina e il paziente». 

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