giovedì 21 luglio 2011

Vaticano - Chiesa e scienza per la prevenzione e la cura dell’Aids (Intervista con monsignor Jean-Marie Mupendawatu, nuovo segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari) - © L'Osservatore Romano 21 luglio 2011

 (Mario Ponzi) Un «dialogo fecondo» tra Chiesa e mondo scientifico per unire gli sforzi nella prevenzione e nella lotta all’Hiv-Aids. L’auspicio della fondazione Il Buon Samaritano, istituita presso il Pontificio Consiglio per gli Operatori, viene rilanciato significativamente nel giorno in cui si chiude a Roma la sesta Conferenza mondiale sull’Aids (Ias 2011), che dal 17 al 20 luglio ha visto riuniti oltre 5.000 scienziati e luminari da tutto il mondo per discutere dei nuovi sistemi di prevenzione e cura della patologia.
Pur scoperta trent’anni fa, l’Aids continua a colpire migliaia di persone, con 7.000 nuovi infettati ogni giorno — di cui 1.000 bambini — e 200 morti ogni ora, per un totale di circa 34 milioni di persone nel mondo affette dal virus. Uno scenario che sollecita rinnovati sforzi nella lotta alla malattia, e che vede in prima linea, accanto al mondo laico, la Chiesa, promotrice di un dialogo fecondo fra fede e scienza. Lo ribadisce in questa intervista al nostro giornale monsignor Jean-Marie Mupendawatu, nuovo segretario del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari e delegato per la fondazione Il Buon Samaritano presso il dicastero pontificio.

È possibile un dialogo con il mondo della scienza sui temi della prevenzione e della cura dell’Aids?
Noi crediamo di sì. È proprio nella prospettiva di questo dialogo che il Pontificio Consiglio ha promosso il 27 e 28 maggio scorsi un convegno internazionale di studi sul tema «La centralità della cura della persona nella prevenzione e nel trattamento della malattia da Hiv-Aids», a cui hanno preso parte scienziati, ricercatori ed esperti da tutto il mondo, insieme a rappresentanti delle istituzioni, nazionali e internazionali, e a sacerdoti, missionari e esponenti della Santa Sede impegnati nella pastorale della salute, in un certo senso cogliendo e anticipando l’esigenza di un confronto fra la Chiesa e il mondo laico. In questa sede sono stati divulgati molti dei temi al centro della conferenza internazionale che si conclude oggi a Roma, fra cui la proposta innovativa del trattamento inteso come strumento di prevenzione.
La Chiesa riconosce dunque l’efficacia potenziale di questa nuova forma di prevenzione?
Gli studi scientifici al riguardo convalidano la bontà di questa tesi. Ma la Chiesa offre una lettura più ampia del concetto di prevenzione, evidenziando la necessità di promuovere un cambiamento del comportamento, nella convinzione che la vera prevenzione dell’Aids sessualmente trasmessa induca ad abbandonare comportamenti a rischio in favore di una sessualità equilibrata, che trovi espressione tanto nella castità preconiugale quanto nella vita familiare. Qualunque programma scientifico, per quanto di comprovata validità, risulta depotenziato se non accompagnato da un adeguato programma educativo, come ha sottolineato il presidente del nostro Pontificio Consiglio, l’arcivescovo Zygmunt Zimowski, aprendo il convegno internazionale sull’Aids promosso nel maggio scorso dal dicastero. L’efficacia di un programma teso a contrastare la trasmissione cosiddetta «verticale» del virus — da madre a figlio — risulta vanificata se quel bambino nato sano non viene in seguito educato a una sessualità responsabile.
Quali sono le strade più efficaci per promuovere questo tipo di educazione?
In Africa, per esempio, si moltiplicano iniziative inedite che vedono i giovani riunirsi fra loro in gruppi di formazione, dove i ragazzi, nell’interazione diretta e personale, si confrontano sui temi della prevenzione dell’Aids, sul significato e il valore di ogni uomo in quanto persona, sul valore di una sessualità vissuta con responsabilità e intesa come dono, riuscendo reciprocamente ad «immunizzarsi sul piano valoriale» contro l’assunzione di abitudini a rischio. Iniziative che incontrano tra l’altro il desiderio del Papa, il quale significativamente ha voluto dedicare al tema della lotta all’Aids l’intenzione di preghiera generale per il mese di luglio, chiedendo di pregare «perché i cristiani contribuiscano ad alleviare, specialmente nei Paesi più poveri, la sofferenza materiale e spirituale degli ammalati di Aids».
Quanto agli interventi concreti di aiuto, che cosa si sta facendo per favorire l’accesso alle cure?
Consentire l’accesso universale e gratuito alle terapie di contrasto, in particolare ai farmaci antiretrovirali, è fra gli obiettivi che la Chiesa riconosce come prioritari e strategici nella lotta alla patologia. Gli impegni presi dai Governi a livello internazionale, e siglati dall’Onu negli Obiettivi di sviluppo del millennio — che auspicano di «fermare entro il 2015 e cominciare a invertire la diffusione dell’Hiv-Aids» — paiono difficili da raggiungere se a oggi solo il 5 per cento dei pazienti affetti dalla patologia riceve cure adeguate. Inoltre, a vivere una situazione di particolare difficoltà è il continente africano, dove la diffusione delle terapie antiretrovirali è relativamente recente, essendo iniziata meno di dieci anni fa rispetto ai Paesi cosiddetti ricchi che invece ne beneficiano da tempo.
Come si può recuperare il tempo perduto?
Proprio nei Paesi più poveri, con l’adozione del nuovo paradigma, che vede il trattamento come strumento di prevenzione, l’accesso alle cure precoci può portare a una riduzione significativa della mortalità. Inoltre, se l’obiettivo generale è quello di fermare l’epidemia nel mondo, allora non è possibile non investire in questi Paesi dove l’epidemia è maggiormente diffusa. È necessario dunque un maggior contributo da parte dei Governi nazionali e delle istituzioni sovranazionali, perché tengano fede agli impegni presi e abbandonino la logica meramente economica in favore di un approccio solidale al problema della lotta all’Hiv-Aids. Senza questo contributo non sarà possibile dare una risposta concreta ed efficace al grido dei milioni di malati di Aids che chiedono aiuto. Basti pensare che la maggior parte di loro in Africa vive con un dollaro al giorno e non è in grado di pagare alcuna cura. È dunque necessario raggiungere l’obiettivo irrinunciabile della gratuità dei farmaci.
A questo proposito, non c’è la tendenza a trascurare la dimensione umana e sociale della patologia, che vede i malati di Aids spesso trascurati ed emarginati?
Le persone affette dalla patologia dell’Hiv-Aids, insieme alla sofferenza fisica per un morbo che logora irrimediabilmente il corpo, sperimentano anche la sofferenza umana, l’umiliazione e la solitudine, conseguenze della cecità della società che li emargina, li abbandona, li denigra, e così li rende doppiamente vittime. Una forma di esclusione sociale che ostacola, e a volte impedisce totalmente, l’accesso alle cure, ritardando la presa in carico dei pazienti e la possibilità di alleviare le loro sofferenze, fisiche, psicologiche, spirituali. Di fronte a questo dramma nel dramma la Chiesa si fa carico della persona nella sua totalità, unendo alle cure mediche anche il sostegno psicologico, sociale e spirituale.
Dunque un nuovo concetto di cura integrale.
Si tratta di una cura che prende in considerazione la persona in tutte le sue dimensioni e che si pone come obiettivo la promozione della salute umana, ovvero della salute dell’uomo nella sua interezza. Non è raro nei Paesi poveri incontrare esempi di grande carità, famiglie che a causa dell’Aids hanno perso propri componenti e che ne accolgono degli altri, magari bambini affetti dal morbo rimasti orfani. Esempi di quell’amore di cui parla Benedetto XVI nella Deus caritas est: «L’amore sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo». Un amore — continua il Papa — che «non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale. L’affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell’uomo: il pregiudizio secondo cui l’uomo vivrebbe di solo pane, convinzione che umilia l’uomo e disconosce proprio ciò che è più specificamente umano».
In questa prospettiva, la Chiesa ha attivato nel mondo numerosi centri per la cura dell’Hiv-Aids — il 26,7 per cento di tutte le strutture presenti — offrendo un grande contributo nella lotta alla patologia. Ma per fronteggiare la crescente domanda di aiuto è necessario aumentare gli sforzi: quali iniziative ha in serbo la fondazione Il Buon Samaritano?
Come dicastero intendiamo potenziare l’attività odierna della fondazione Il Buon Samaritano — voluta nel 2004 da Giovanni Paolo II per portare assistenza ai malati più poveri del mondo — lungo molteplici direttrici. Anzitutto ampliando l’attività di donazione di farmaci e presidi medici che oggi ci vede presenti in particolare nei Paesi del continente africano. Siamo poi impegnati per favorire il dialogo con le Chiese locali dei Paesi poveri per chiarire necessità, programmare interventi capillari, potenziare le attività in essere, anche ponendo le stesse Chiese in dialogo fra loro per condividere esperienze e iniziative. La fondazione ha inoltre allo studio la possibilità di creare una propria «centrale del farmaco», che consenta la raccolta e l’invio di medicinali nei Paesi poveri, grazie anche alla collaborazione di altri organismi ecclesiali, e di aprire sedi nei cinque continenti, per facilitare lo sviluppo locale delle attività di aiuto e il coordinamento delle stesse con la sede centrale, in Vaticano. Una presenza capillare della fondazione nei Paesi bisognosi ci consentirebbe di ampliare l’efficacia dei nostri interventi e di rispondere pienamente al mandato per cui è nata, secondo gli auspici di Papa Wojtyła: quello di «sostenere economicamente gli infermi più bisognosi, in particolare i malati di Aids, che chiedono un gesto di amore solidale della Chiesa».

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