mercoledì 30 novembre 2011
Quella pretesa superba di avere l’ultima parola di Luca Doninelli, mercoledì
30 novembre 2011, http://www.ilgiornale.it
Pur non condividendo alcune sue
idee, ho sempre provato simpatia per Lucio Magri, così come ho sempre letto con
interesse e stima il manifesto, da lui fondato. La cultura infatti non è tanto
ripetere ciò che noi siamo, o pensiamo di essere, ma imparare da quello che non
siamo.
La notizia della sua morte mi ha
dato dispiacere, e ancor più dispiacere apprendere il modo in cui ha voluto
dare fine ai suoi giorni. Non sono un prete e non intendo condannare. Non posso
nemmeno escludere me stesso dalla possibilità di compiere io stesso un atto del
genere: non perché ci abbia mai pensato, ma perché non sono così sicuro di me
da sapermi a priori capace di affrontare certe situazioni.
So però una cosa: che, se venisse
un giorno così, potrei sempre invocare l’aiuto di Dio e contare sull’aiuto di
tanti amici, che sono la mano di Dio.
Magri è andato a morire in
Svizzera, dove si può avere il suicidio assistito, dove cioè ci sono persone
fidate, stipendiate, che ti aiutano (non so e non voglio sapere come) a
concludere la tua vita. Non voglio nemmeno immaginare come sia la vita di
questi generosi cittadini, cosa chiederà la loro moglie, la sera, quando
rientrano a casa dal lavoro. Mi basta rilevare una differenza importante: per
morire è sufficiente una persona fidata, rassicurante; per vivere, invece,
questo non basta, occorrono degli amici, occorre una compagnia profonda. Si
muore sempre per evitare qualcosa, mi disse una mamma davanti al cadavere del
proprio figlio di vent’anni, morto di cancro.
Quanto alla modalità scelta da
Magri per morire, la trovo particolarmente triste. In ogni suicidio c’è un
messaggio, una lettera criptata. Impiccarsi non è come spararsi un colpo,
tagliarsi le vene non è come buttarsi dal decimo piano. Sono tutti messaggi,
lettere, biglietti: quelli veri (perché quelli lasciati scritti generalmente
sono pieni di bugie).
Scegliere il suicidio assistito
è, tra tutte le soluzioni, la più malinconica, per certi aspetti (chiedo scusa
a Magri) la più proterva. Chi si uccide è come se dicesse: l’ultima parola su
di me voglio dirla io. Ma nessuno, per quanto ateo, può essere così certo di
questo pensiero: non possiamo escludere che la smentita dei nostri pensieri ci
balzi davanti, all’improvviso. Ce lo ha insegnato Shakespeare, nel suo Essere o
non essere. Per questo, e non solo per soffrire il meno possibile, di solito ci
si ammazza in fretta.
Magri sapeva bene queste cose: la
scelta di andare in Svizzera lo dimostra. Voleva cautelarsi contro la
possibilità stessa di cambiare idea, contro i fantasmi della vita, che si
possono incontrare anche nelle nebbie della morte.
Un’ultima considerazione, visto
che la tragedia si è svolta in Svizzera. C’è da credere che il povero Magri
abbia pagato chi lo ha aiutato nel grande passo. Ora, so che quello che sto per
dire non è granché cattolico, ma io sono abbastanza d’accordo con l’idea, molto
svizzera, che ciascun uomo abbia il suo prezzo. L’espressione «la vita umana
non ha prezzo» è una di quelle che condannano chi le usa a perdere tutte le
battaglie civili alle quali partecipa. È quasi matematico. Io cerco di non
usarla mai perché non dice chiaramente nessuna verità.
Ma proprio qui sta il paradosso.
Se la vita di un uomo ha un valore economico, vuol dire che la vita non è solo
un fatto privato, e che togliersela dicendo «è roba mia» è insensato. Se un
uomo bruciasse un miliardo di dollari (meglio lasciar perdere l’euro, per
adesso) dicendo sono miei, ci faccio quello che mi pare, noi giustamente
disapproveremmo: il suo gesto in qualche modo danneggerebbe anche noi.
Figuriamoci se, al posto di un
mucchio di carta, c’è un uomo.
Con questo, mi guardo bene dal
giudicare Lucio Magri. Ho solo cercato di spiegare perché, prima dell’accordo o
del disaccordo col gesto in sé, una notizia come questa ci lascia tanto tristi.
© IL GIORNALE ON LINE S.R.L.
Sulla vita è giunta l’ora di parlare chiaro di Alfredo De Matteo, http://www.corrispondenzaromana.it
Inutile illudersi: la battaglia
contro l’aborto volontario ed in generale contro tutti gli attacchi alla vita
umana innocente è estremamente complicata anche perché è necessario agire su
più fronti se si vuole giungere al ripristino della vera legalità.
Da qui l’opportunità di
un’attività a tutto campo che non tralasci né l’ambito culturale (il
sovvertimento dell’ordine naturale ha anestetizzato le coscienze, il
politicamente corretto ha eroso la capacità di ragionare sui fatti e le loro
conseguenze, il relativismo morale e dottrinale ha reso vuote le affermazioni
di principio) né quello giuridico.
E’ un dato di fatto che i due
livelli si compenetrano fino a formare un’unica struttura: un cambiamento a
livello culturale (ad esempio una maggiore sensibilità alle ragioni della vita)
può riverberarsi a livello giuridico – normativo e viceversa. Nondimeno,
costituisce sempre un dato di fatto che l’uomo è un animale sociale che tende
ad adattarsi all’ambiente in cui vive e per natura rifugge dal sentimento di frustrazione
che prova nel sentirsi isolato e in minoranza.
Per questo motivo le leggi fanno
cultura, orientano il pensiero delle masse e influenzano le coscienze.
All’epoca della promulgazione dell’omicida legge 194/1978 che ha regolamentato
l’uccisione sistematica dell’innocente nel grembo materno una feroce e
terroristica campagna mediatica guidata da minoritari gruppi di potere
(femministi e abortisti) è stata all’origine del clamoroso “crollo” di un mondo
politico già corrotto che ha portato ad approvare una legge di cui
probabilmente la maggior parte delle persone non sentiva né l’urgenza né la
necessità.
Dunque, un clamoroso scollamento
tra il mondo reale e quello formato dalla politica del compromesso e dagli
intrighi lobbistici e massonici. Eppure, sono bastati pochi anni per invertire
la rotta e orientare la gente comune verso l’accettazione acritica dello
sterminio di Stato. Allo stato attuale, dopo più di trent’anni, la situazione è
disperata ed occorre ricominciare da zero per smuovere gli animi sopiti e
addomesticati dall’illusione di un mondo falsamente solidale che invita ad ogni
piè sospinto alla tolleranza ed al rispetto ma si accanisce senza pietà contro
i più piccoli ed i senza voce.
Raccogliamo con favore, dunque,
l’invito lanciato dal pro-life Carlo Bellieni dalle pagine del noto quotidiano
on-line “La Bussola Quotidiana” circa la necessità di educare alla vita e non
solamente di pensare ad incidere a livello legislativo (“Sulla vita è ora di
educare”, 22 novembre 2011). Ci lascia però perplessi, alla luce della storia,
l’affermazione secondo cui “fare buone leggi non serve a niente se la gente è
convinta che siano leggi cattive”.
Malgrado la sproporzione di forze
tra i fautori della cultura di morte e quelli della cultura della vita sia
enorme, come giustamente ci ricorda Carlo Bellieni nel suo articolo, noi
abbiamo un’arma che i nostri avversari non hanno e non possono avere: la verità
e l’intrinseca coerenza del bene. Su ciò dobbiamo puntare per tentare di
rovesciare la situazione senza appiccare incendi distruttivi ma neanche facendo
i pompieri ad ogni costo.
LETTERA/ Caro Bersani, la dignità è un'altra cosa... di Carlo Bellieni,
mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilsussidiario.net
Gentile on. Bersani, arriveremo
poi a conclusioni diverse, ma al convegno di Scienza e Vita (18 novembre, Roma)
ha messo il dito sulla piaga. Ha detto che negli ultimi anni c’è stata una
rivoluzione culturale: la gente che un tempo aveva paura della morte improvvisa
ora ha paura della morte “senza dignità” (e spesso se la augura, la morte
improvvisa).
Sarebbe interessante trarne le
stesse conclusioni, ma questo richiede dialogo e tempo. La mia conclusione è
che nulla può togliere all’uomo la sua dignità, dunque va combattuto il dolore,
ma non si può pensare che il dolore renda la vita indegna. La dignità è
intrinseca; un fiore può essere sbattuto, calpestato, strappato, ma resterà
sempre un fiore.
Invece per alcuni la dignità
consiste nel “poter fare una certa cosa”, e nel nostro immaginario finisce che
l’idea che abbiamo di dignità coincide con le nostre passioni (o le nostre
fobie). Tutte cose buone, per le quali impegnarsi, spesso; ma un po’ poco per
pensare che “lì” risieda la nostra dignità. E questo ha riflessi sociali: come
si pensa che certe malattie tolgano la dignità, così si pensa che certi lavori
non siano “degni” (e i cittadini dei Paesi ricchi non li fanno più perché si
sentono sminuiti). Non è vero. Perché non c’è nulla che tolga all’uomo/donna la
dignità di uomo/donna, neanche il lavoro più faticoso o la malattia mentale.
Perché la dignità non dipende dallo stato in cui siamo: anche in un lager si
conserva la dignità, vedi Primo Levi (questo però non toglie che il lager vada
cancellato).
Dunque la lotta vera è quella
contro il dolore e la solitudine e anche contro le cure inutili; non sul credere
che una certa vita è “indegna”, e che l’unica soluzione è toglierla o
togliersela. E perfida è la società che lascia le persone sole, obbligandole a
scegliere tra una vita disegnata come “indegna” e scelte letali (aborto,
eutanasia, droga): che razza di scelta “libera” è?
Per questo non concordo con
quanto scriveva Stefano Semplici sull’Unità (21 novembre): “La Chiesa non
raggiungerà l’obiettivo (…) fino a quando insisterà che la crisi morale del
nostro tempo dipende da un difetto di conoscenza”. Invece, credo, il punto è
qui: ri-conoscere. Ecco un’altra rivoluzione: un tempo si accusava la Chiesa di
essere tesa solo al soprannaturale, al primato della coscienza sulla
conoscenza; non era proprio così, ma poteva sembrarlo; oggi di essere tesa solo
al naturale, alla conoscenza, ed in parte è vero, perché la Chiesa invita a
riconoscere il reale, mentre sono altri che mettono la “coscienza” (cioè il
soggettivismo) al centro dell’etica.
Ma cos’è la conoscenza di cui
parliamo? La conoscenza è dare alle cose il loro nome. E’ riconoscere che
l’uomo non diventa mai “meno degno”, e che proprio per questo deve essere
sempre e comunque tutelato, anche dalle sue paure. E riconoscere che non si può
defraudare il salario, che non si può uccidere, che non si può violentare; e
riconoscere pari dignità a qualunque essere umano, indipendentemente dall’età,
dalla razza o dalla malattia. Le sembrano cose su cui si può discutere? E’
essere certi che su alcuni temi non ci sono “due verità”, a seconda di chi
parla: stuprare è sempre un male, frodare le tasse o rubare al povero è sempre
una male, aggredire il bambino (nato o non nato che sia) è sempre un male; poi
ci saranno attenuanti, ma il male è certo.
Il problema è che oggi prevale
l’etica dell’auto-nomia, cioè che se TU decidi che una cosa non è male, diventa
BENE, a condizione di avere la FORZA per farsi valere. E certa bioetica
utilitarista (“io valgo solo se so farmi valere, se sono legge a me stesso”)
toglie la qualifica di “persona” a coloro che avrebbero “perso dignità” (feti,
disabili mentali, pazienti in coma prolungato).
Insomma, on. Bersani, oggi siamo
in una società spaventata e solitaria in cui si cerca di pararsi e ripararsi da
tutto e da tutti, perfino dalla morte, perfino dai nostri cari che ci guardano
morire; e dal lavoro che genera poco potere spicciolo e spendibile socialmente
(e questo accade non solo al manovale, ma anche tante volte ai manager). Magari
pensando che una decisione presa nel chiuso della propria stanza, di fronte ad
un foglio di dati sia garanzia di libera scelta e dignità. Ma - e immagino che
su questo potremo dialogare - la vera dignità è un’altra cosa, e la solitudine,
sommo ideale della società postmoderna, può farci scordare di averla.
Allora dobbiamo garantire che
nessuno si senta mai abbandonato: empatia da parte di chi cura, accesso a cure
psicologiche, ad un ambiente non deprimente, alla compagnia dei cari,
provvedimenti che diano agevolazioni e addirittura mettano al di sopra degli
altri le persone con disabilità e malattie gravi. Cioè ri-conoscere, leggere la
realtà. Diamo queste poche ma forti garanzie a chi sta male. Poi, solo poi, si
potrà domandare se la vita è degna; solo poi si può discutere sulle leggi.
© Riproduzione riservata.
Cure negate e discriminazioni contro malati di Aids, http://www.laogai.it, 30 novembre 2011
Si stringe sempre di più il controllo
sui dissidenti cinesi mentre alcuni attivisti denunciano che le autorità spesso
negano cure e assistenza ai malati di Aids. Lo riferisce il sito di Radio Free
Asia. In base a quanto riferito da Hu Jia, da poco rilasciato dopo aver
scontato tre anni di carcere per sovversione, in vista della giornata mondiale
dell’AIDS, che si terrà giovedì prossimo, il governo ha intensificato la
sorveglianza di alcuni attivisti particolarmente impegnati nella tutela dei
malati di Aids. Hu ha detto di essere molto preoccupato in particolare per Tian
Xi, che ha già scontato un anno di carcere dopo aver cercato di difendere le
istanze dei malati di Aids nelle zone rurali cinesi. “Se Tian dovesse essere
arrestato di nuovo – ha detto Hu – sono convinto che non ne uscirebbe vivo”.
Tian era stato arrestato nel 2009 mentre manifestava, fuori al ministero della
salute, proprio nella giornata mondiale dell’Aids. Secondo molti avvocati e
attivisti, le persone ammalate di Aids sono costantemente bistrattate nel
paese, a molti di loro vengono negate cure e trattamenti negli ospedali, con la
conseguenza che molti nel frattempo muoiono. Le ultime stime fissano in circa
700.000 le persone affette da virus HIV in Cina e 85.000 le persone con la
malattia conclamata. La polizia cinese ha negato che l’arresto di Tian Xi sia
stato legato al suo attivismo a favore dei malati di Aids. Tian Xi, che ora ha
23 anni, ha contratto la malattia quando aveva solo 9 anni, a seguito di una
trasfusione di sangue resasi necessaria per un incidente nel quale era rimasto
coinvolto. Il governo locale gli ha dato 30.000 yuan (poco più di tremila euro)
a titolo di risarcimento.
Tre aspiranti professori cinesi
hanno denunciato, in un ricorso presentato al governo centrale di Pechino, di
essere stati discriminati perche” sieropositivi. I tre insegnanti, ha precisato
Yu Fangqiang, un attivista per i diritti dei malati, sostengono nel ricorso che
una legge contro le discriminazioni approvata nel 2006 dovrebbe prevalere sui
regolamenti della burocrazia, secondo i quali i funzionari pubblici non devono
avere malattie infettive. I tre hanno fatto domanda per insegnare nei licei in
tre diverse province – Anhui, Sichuan e Guizhou – ma il posto di lavoro è stato
loro negato nonostante avessero superato brillantemente l’esame necessario per
accedere alla professione. “I governi locali – ha dichiarato Yu Fangqiang in
un’intervista alla Bbc – tendono spesso a far prevalere i regolamenti locali
sulle leggi valide a livello nazionale”.
Fonte: Partecinesepartenopeo, 30
novembre 2011
Creato il virus che può uccidere la metà della popolazione mondiale - Polemiche
infuocate nel mondo scientifico sulla pubblicazione dello studio. «Arma
chimica». «No, aiuta a prepararsi alla pandemia», di Cristina Marrone, http://www.corriere.it, 29 novembre 2011
MILANO - I ricercatori
dell'Erasmus Medical Centre di Rotterdam (Paesi Bassi) hanno prodotto una
variante estremamente contagiosa del virus dell'influenza aviariaH5N1 in grado
di trasmettersi facilmente a milioni di persone, scatenando, così, una
pandemia. Gli scienziati, guidati dal virologo Ron Fouchier, hanno scoperto che
bastano cinque modificazioni genetiche per trasformare il virus dell'influenza
aviaria (che finora ha ucciso 500 persone nel mondo) in un agente patogeno
altamente contagioso che potrebbe scatenare una pandemia in grado di uccidere
la metà della popolazione mondiale. La sua elevata capacità di diffusione è stata
dimostrata in esperimenti condotti sui furetti, che hanno un sistema
respiratorio molto simile a quello dell'uomo.
LE RICERCHE - Le ricerche di
Fouchier fanno parte di un più ampio programma mirato a una maggiore
comprensione dei meccanismi di funzionamento del virus H5N1. È stato lo stesso
virologo ad ammettere che la variante geneticamente modificata è uno dei virus
più pericolosi che siano mai stati prodotti. Un altro gruppo di virologi
dell'Università del Wisconsin in collaborazione con l'Università di Tokyo è
arrivato a un risultato simile a quello di Fouchier.
LE POLEMICHE SULLA PUBBLICAZIONE
- Ora il dibattito è se pubblicare o no la ricerca. Molti scienziati sono
infatti preoccupati dalla possibilità che, in mani sbagliate, il virus potrebbe
trasformarsi in un'arma biologica. Negli Stati Uniti le polemiche sono roventi.
Thomas Inglesby, scienziato esperto di bioterrorismo e direttore del Centro per
la Biosicurezza dell’Università di Pittsburgh è categorico. «È solo una cattiva
idea quella di trasformare un virus letale in un virus letale e altamente
contagioso. È’ un’altra cattiva idea quella di pubblicare i risultati delle
ricerche che altri potrebbero copiare». Critico anche Richard Ebright, biologo
molecolare della Rutgers University in New Jersey: «Questo lavoro non andava
fatto». Pubblicare lo studio però, come sostiene lo stesso Fouchier, aiuterebbe
la comunità scientifica a prepararsi a una pandemia di H5N1. Sulla stessa linea
d'onda l'italiano Fabrizio Pregliasco, virologo all'Università di Milano: «Non
pubblicare lascerebbe i ricercatori al buio su come rispondere a un focolaio.
Lo scambio di conoscenze è fondamentale per prevedere la reale gravità di una
pandemia. L'aviaria era sì una "bestia" nuova, ma non apocalittica.
Con un maggiore scambio di conoscenze la diffusione di informazioni sarebbe
stata più precisa e meno allarmistica».
SUICIDIO MAGRI/ Quella "vuota" compagnia che ha spento un
combattente di Monica Mondo, mercoledì 30 novembre 2011, http://www.ilsussidiario.net
Viaggio programmato, un piano
stabilito nei minimi particolari, qualche tentennamento, una resistenza infine
domata e Lucio Magri è partito per la Svizzera, una di quelle cliniche
asettiche e confortevoli, dove un medico “amico” gli ha infilato un ago in vena
e ha chiuso la sua vita triste e sola. Suicidio assistito, in certi paesi si
può. In certi paesi “civili”, dicono, che lasciano all’uomo questa suprema
“libertà”. Qualcuno vorrebbe anche da noi, dove rigurgiti sedimentati di
cultura cattolica ci impediscono i diritti della persona, tra cui quello di
morire. Del suicidio di Lucio Magri ne parlano solo Repubblica (e il suo
Manifesto) con malinconici coccodrilli affiancati dalla cronaca commossa di una
scelta ineluttabile, coerente, stimabile.
Qualsiasi giudizio dubbioso è
stroncato dall’incipit del pezzo con quella citazione di Pavese, “Non fate
troppi pettegolezzi”, omettendo di ricordare che era il lascito di un uomo
disperato, incompreso, nella stanza ombrosa di un alberghetto torinese.
Repubblica dava voce al segreto custodito gelosamente dagli amici più stretti,
riuniti a casa sua, davanti a un Martini, in attesa trepida della notizia
sull’ora fatale. Gli amici della gioventù, di tante battaglie, perché Lucio
Magri era un combattente, dicono. Un uomo inquieto, un ribelle, duro e puro; partito
democristiano per approdare ben presto al Partito comunista e diventarne, da
intellettuale appassionato, una delle teste pensanti. Mai organiche però, tanto
che il suo nome è tra gli eretici fondatori del Manifesto, il 23 giugno 69:
lotta agli albori del compromesso storico, appoggio della rivoluzione culturale
cinese, ma anche il sostegno solitario alla primavera di Praga, che sancì la
radiazione dal Pci.
Magri e i suoi lo scavalcarono a
sinistra, ne seguirono impavidi l’ideologia, traviata secondo loro dalle
strategie, dalle tattiche imposte dalla realpolitik dei vari direttori. Nasce
il Partito di unità proletaria, un ricordo lontano, che suscita tenerezza.
Dov’è finito? Coi suoi pugni chiusi, le sue grida? Di nuovo nel Pci, per poi
liquefarsi con esso dopo la svolta della Bolognina. Fine di un sogno, per chi
ci aveva creduto o finto di crederci. Tanto da paragonare la schiera politica
cui aveva scelto di aderire al Sarto di Ulm, il protagonista del romanzo di
Brecht che non sa volare, ma caparbiamente ci prova, finché si sfracella al
suolo. È il titolo del suo ultimo libro, uscito
un paio di anni fa. Quando si
dice, la fine delle ideologie.
Eppure Magri era un combattente:
cosa gli ha impedito di usare la ragione, metterla a servizio della sua passione
per l’uomo, continuando a vivere? La solitudine, la morte della moglie amata,
la depressione. Non basta la politica, non bastano neppure gli amici, se non
sanno farti compagnia nel dolore, dare un senso al distacco dalle persone care,
cercare con te un significato per vivere. Stancano, le discussioni politiche di
vecchi inariditi, con lo sguardo al passato, il rimpianto perché la realtà è
diversa da come si era progettato. Non bastano le traduzioni dei libri, i
riconoscimenti, gli inviti a qualche convegno di reduci.
La prima politica è vivere,
questa è la buona battaglia, questo il coraggio. Aveva una figlia, Magri, una
nipotina, amatissima. Non abbastanza, se il suo faccino non gli ha impedito
quel volo oltreconfine. Oppure è stata la malattia, la follia: qualcuno allora
si domandi, nel dolore della sua scomparsa, se non gli si poteva stare vicino,
fermare in quella scorza di combattente quel cedimento, quella viltà. Morti
così non chiudono il discorso, aprono una voragine di domande: non basta un Martini
a placarne il tormento.
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Lotta alle malattie rare, nasce un'alleanza cattolica di Danilo Quinto,
30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
La costituzione di un centro
pilota per le malattie genetiche e la costituzione della prima rete cattolica
italiana, assistenziale e scientifica, per la lotta alle malattie rare, quali
il linfedema primitivo, le lipodistrofie, i lipedemi e le malformazioni venose.
E’ questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato il 29 novembre, a Roma,
tra l’Ospedale San Giovanni Battista, dell’Associazione dei Cavalieri Italiani
del Sovrano Ordine di Malta, e la MAGI non-profit Human Medical Genetics
Institute.
Le malattie rare comprendono
oltre cinquemila forme morbose, la maggior parte delle quali trasmesse con
carattere ereditario (genetiche). Stime accurate sulla prevalenza delle
malattie genetiche e rare sono inficiate dalle problematiche inerenti alle
attività diagnostiche e dalla scarsità di centri altamente specializzati
dislocati su tutto il territorio italiano.
Se si escludono rare eccezioni
(centri regionali per la cura della fibrosi cistica), non esistono in Italia
centri in cui i pazienti possano percorrere tutto l’iter clinico diagnostico a
partire dalla formulazione di una diagnosi fino alla conferma diagnostica (con
tecniche di genetica molecolare o citogenetica) ed alla strutturazione di un
piano terapeutico e/o riabilitavo.
Inoltre, in molti casi, la stessa
definizione diagnostica necessita di indagini genetiche che allo
stato attuale sono disponibili in
Italia solo per alcune patologie (non più di 500 a fronte di una
media europea di 1.500 malattie
diagnosticate); quindi deve essere fatta fuori dal paese con ovvi disagi per
pazienti e familiari e notevole aggravio per il bilancio sanitario nazionale.
Per superare questa situazione e
dare la possibilità di una diagnosi e di una cura, laddove sia possibile, si è
inteso procedere a questo accordo operativo, tra Ordine di Malta e Magi, che
segna un punto di svolta in questo campo.
Come spiega uno storico, l’Ordine
di S. Giovanni di Gerusalemme, oggi Ordine di Malta, ebbe questa genesi: “Molto
prima che Goffredo di Buglione mettesse piede in Terra Santa, mercanti
amalfitani erano riusciti ad ottenere dal califfo fatimita d’Egitto, pagando un
tributo annuo, il permesso di edificare a Gerusalemme una chiesa e un ospedale,
luogo di asilo e di assistenza per i pellegrini”. L’ospedale era in piena
funzione alla data della conquista crociata di Gerusalemme ed era gestito dal
monaco Gerardo, colui che istituì, nel 1099, una confraternita religiosa
chiamata appunto Ordine ospitaliero di san Giovanni in Gerusalemme. Non basta
però “prendersi cura dei pellegrini; bisogna proteggerli dalla furia dei
saraceni. Così, nel giro di vent’anni, da uomini di carità e di fede quali
erano, gli ospitalieri diventano guerrieri. È il successore del Beato Gerardo,
fra’ Raimondo du Puy, secondo gran maestro, a trasformare l’Ordine in una
organizzazione (anche) militare”.
Il regolamento dell’Ospedale di
Gerusalemme, steso nel 1182, prevedeva la presenza di chierici, laici, conversi
e medici; disponeva che i letti per i malati fossero “comodi e adatti al
riposo” e che vi fossero delle culle per eventuali neonati; richiedeva inoltre
che “i responsabili della casa servano i malati di buon cuore, porgano loro ciò
di cui hanno bisogno e li servano senza contese e senza lamentele; mediante
questa buona azione possono meritare di partecipare alla gloria del cielo”. Era
poi previsto che i malati mangiassero carne tre volte la settimana; che
l’ospedale regalasse ai poveri, ogni anno, mille pelli di pecore grasse e
raccogliesse i bambini abbandonati e li facesse educare.
L’Ordine Ospitaliero di San
Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta ancora oggi gestisce, oltre ad ospedali
e centri medici in Europa, anche ospedali in Benin, Burkina Faso, Camerun,
Madagascar e Togo. In Senegal e Cambogia l’Ordine gestisce ospedali
specializzati nella cura della lebbra, che per molti anni ha rappresentato uno
dei principali obiettivi dell’Ordine nel terzo mondo.
L’Ospedale italiano dell’Ordine -
il San Giovanni Battista di Roma – è specializzato in riabilitazione con
particolare riferimento alla neuroriabilitazione.
L’altro ente protagonista
dell’accordo per la costituzione di questa rete per la lotta alle malattie rare
- la Magi – è nata a Rovereto quattro anni fa, ed ha attualmente due sedi
operative (oltre a quella di Rovereto in Italia): una a Bruxelles, l’altra a
Tirana. Se ne stanno costruendo altre due, la prima nell’est europeo, la
seconda in Africa. La Magi promuove la diagnosi e la ricerca sulle malattie
genetiche sia per l’individuazione di nuovi geni che causano malattie rare, sia
per lo sviluppo di terapie convenzionali (medicina riabilitativa), che
innovative (proteine combinanti). Si pone inoltre l’obiettivo di veicolare le
conoscenze sulle malattie genetiche verso realtà sanitarie dei Paesi in via di
sviluppo. Negli ultimi due anni, membri della Magi sono stati impegnati in
diversi progetti a laureati provenienti dalla Russia, dalla Repubblica Ceca,
dall’Albania, dalla Repubblica Slovacca, dall’India e dall’Africa.
La Magi ha stipulato convenzioni
con l’Università degli Studi di Siena e di Milano e con l’IRCCS Casa Sollievo
della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, l’ospedale voluto da padre Pio, al
fine di poter usufruire delle consulenze del loro personale per accelerare lo
sviluppo della diagnosi e della ricerca sulle malattie genetiche e rare.
Nel presentare questa prima rete
italiana, assistenziale e scientifica, per la lotta alle malattie rare, il
Presidente della Magi Matteo Bertelli, ha scritto: “L’esperienza di veder
morire un figlio potrebbe rendere sterile il cuore delle persone, ma nel
tentativo di condividere queste sofferenze (questa è forse la differenza sostanziale
fra un normale centro di diagnosi e cura e la nostra onlus), si riescono a far
fiorire dei frutti di solidarietà e di amore che spalancano porte che non si
sarebbe mai potuto immaginare. Io sono un medico genetista, cattolico, e sono
certo che il vero progresso scientifico non sia quello che ci permette di
eliminare i bambini malati di malattie genetiche prima che essi nascano. Al
contrario, sono convinto che la scienza debba portare a nuove risposte per dare
sollievo alla sofferenza di questi malati”.
Proprio questo dovrebbe essere il
compito della genetica medica, se vuole avere a cuore il rispetto della vita,
dai suoi inizi alla sua morte naturale. L’accordo tra Magi e Ordine di Malta,
su queste basi ideali, sarebbe certamente piaciuto al fondatore della genetica:
il frate agostiniano Gregor Mendel.
Aborto, è anche un po' suicidio di Francesco Agnoli, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Quando uno ha già qualche anno,
non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un
amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o
felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto
agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato
non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per
sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo. Ogni
esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e
nel nostro corpo.
Siamo così, un sinolo di materia
e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non
possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti
neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i
suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di
trascenderlo, di essere puro spirito, di “liberarsi”. Tutta la nostra storia è
qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il
nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a
tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un
abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto. Il
nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti.
Così, quando abbiamo una
relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale,
questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità
lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non
possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo
divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro
presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a
noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma
soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre
e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene
disfare impunemente, con un gesto, fisico, una IVG, come si suole dire con
terminologia beffarda.
Ciò che è stato concepito, c’è,
esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché
in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza
latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche,
nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre, come dicono gli
abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa
che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte
della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre,
in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in
simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; “parte” anche spirituale, il
concepito, perché in un certo senso “tutto ciò che è spirituale è anche
carnale” e “tutto ciò che è carnale è anche spirituale”.
Mi sorprende che quando si
affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai
sottolineata.
Quando il feto viene ucciso,
intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una “parte” fisica e una
“parte” spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una
parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come
raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad
un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme
magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe
essere con loro.
L’atto chirurgico, è vero, stacca
e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una
vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale,
unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi
genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri,
dei sogni, della madre (e del padre). Trovo conferma di queste mie riflessioni,
studiando un po’ la letteratura medica sul post-aborto, ad esempio nei
bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro
“Quello che resta” (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi
scientifici e di testimonianze di donne.
In questo testo si spiega
chiaramente che “il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da
affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre… una
donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che
per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi
ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità
religiosa ecc.)”. Secondo il DSM III dell’American Psychiatric Association,
infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto “produce un
marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli
elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma
anche quella parte del sé che si era identificata col bambino”. Le conseguenze,
guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: “disturbi emozionali, della
comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del
sonno, della relazione affettiva…”.
Assai sintomatica di quanto si è
detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali,
che si giustifica appunto come reazione ad un’esperienza sessuale, affettiva,
di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia,
paura, ripensamenti… Le occasioni del manifestarsi della sindrome post-abortiva
sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova
gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità
secondaria… Ecco perché un’esperienza d’amore che si conclude con un aborto,
non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e
ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la
persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze.
Per questo l’aborto si può
configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni
psicologi, un “lutto complicato” in cui si “rende necessaria l’elaborazione sia
della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta
di una parte del Sé”, sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto
col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a
sostegno della 194 come Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva: “Sia
che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il
peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. È una
scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali
partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre
gravidanze”.
Magri, il vero volto dell'eutanasia di Mario Palmaro, 30-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Di fronte al caso di Lucio Magri,
che è andato a morire in Svizzera con un suicidio assistito, vorremmo dire tre
cose.
Innanzitutto, questa è una
tristissima vicenda umana, che suscita sentimenti di pietà. Attenzione: pietà
per un uomo che dice di non voler più vivere e che purtroppo trova persone
disposte ad aiutarlo nel suo proposito. Non certo pietà per la “categoria”,
cioè per quelli che si vogliono togliere la vita e ci riescono; perché,
altrimenti, bisognerebbe “per motivi pietosi” modificare tutti i protocolli di
soccorso e di emergenza pacificamente accettatati dalla nostra società.
Bisognerebbe lasciare in pace quelli che si vogliono gettare dal cornicione,
bisognerebbe sostituire i teloni dei vigili del fuoco con un letto di chiodi
per fachiri, bisognerebbe non soccorrere e non salvare quelli che hanno tentato
di uccidersi e non sono ancora morti. Ciò che fa pena è l’immagine di un uomo,
intellettuale vivace, stanco di vivere, oppresso – dicono alcuni –
dall’insopportabile percezione del fallimento dell’ideologia marxista; o –
dicono altri - dal dolore per la morte della carissima moglie. Chi conosce la
fragilità dell’uomo sa che non c’è peccato di cui, potenzialmente, non saremmo
capaci. Compreso un delitto terribile contro la propria vita, come il suicidio,
azione con la quale, recita un paradosso di Chesterton, è come se l’uomo
volesse uccidere tutti gli uomini.
Seconda osservazione: se è giusto
provare pietà per le persone, non è affatto giusto provare pietà per le
ideologie false e bugiarde. Magri è stato uno dei fondatori del Manifesto, e un
colto rappresentante del pensiero marxista. E qui dobbiamo constatare che il
comunismo, insieme a tutte le altre letture ideologiche del reale, scava
nell’uomo un vuoto che diventa con il passare degli anni insopportabilmente
pesante. Scenario viepiù aggravato dalla sconfitta clamorosa che la storia ha
decretato per il socialismo realizzato. Si ha un bel dire, facendo gli
spacconi, che Dio non serve. Può funzionare finchè la sorte ti sorride, ma
arriva un giorno in cui le cose ti si rivoltano contro, e allora le pagine di
Marx, o di Gramsci, o di Sartre, non riescono a dare conforto. E diventano,
anzi, pistole armate nella tua mano. Dobbiamo dircelo e dobbiamo dirlo ai
giovani: ci sono cattivi maestri e cattive dottrine, mentre la vita pretende
una verità più grande, che la Chiesa insegna da duemila anni. Una verità che
non rimuove le tragedie dall’esistenza, ma che le riempie di un senso che
conforta perfino le persone disperate.
Terza, ma non ultima considerazione:
la vicenda del povero Magri è un perfetto caso di scuola, che spiega che cosa
intendiamo quando stiamo parlando di eutanasia. Il cosiddetto suicidio
assistito, infatti, ha molto più a che fare con la fattispecie dell’eutanasia
che con quella del suicidio: il suicida è uno che si ammazza con le sue mani;
nel suicidio assistito ci sono altri che mettono la vittima in condizione di
morire, e che quindi cooperano in modo decisivo a un atto che, forse, il
poveretto non avrebbe la forza di compiere.
Ma c’è dell’altro: Lucio Magri
non aveva, almeno secondo le notizie diffuse, una malattia mortale, o una
patologia degenerativa che ne divorasse il corpo. Accusava invece un grave
stato depressivo che lo ha spinto ad andare in Svizzera per ottenere la morte.
Ora, da anni vogliono farci credere che l’eutanasia è una faccenda che riguarda
solo i malati terminali oppure le persone con una sindrome progressiva
inesorabile.
Ma si tratta di una truffa logica
e concettuale: la vera posta in gioco è il potere di ciascuno sulla propria
vita. Le motivazioni che spingono una persona a dichiarare che vuole la morte
sono le più disparate: vanno dal dolore fisico assoluto al taedium vitae, cioè
al disgusto per la vita che pure è priva di malattie del corpo. Se lo stato
definisce che in alcuni casi si può ottenere la morte per mano di terzi, a quel
punto stabilisce a quale altezza si deve collocare l’assicella delle vite senza
qualità. E anche se in prima istanza respinge al mittente una richiesta come
quella di Lucio Magri, con il tempo lo stato è costretto a rivedere il criterio
e ad ammettere che, in fondo, se uno non vuole vivere è affar suo. Magri è
purtroppo il simbolo di una tragedia più grande, che percorre la nostra
società, la quale assomiglia sempre di più a una vera e propria civiltà
dell’eutanasia. A un luogo, cioè, dove la vita è essenzialmente un non senso, e
dove quindi chiedere e ottenere la morte è la cosa più normale del mondo.
Ovviamente, questa “cultura” avrà
un suo effetto di “trascinamento” lungo il pendio scivoloso, e prima si
legalizzerà la morte dei malati gravi con il loro consenso (reale o presunto);
poi arriverà la morte di quelli che non l’hanno chiesta, ma poveretti quanto
soffrono; e infine arriverà la morte di quelli che sono sani come un pesce, ma
sono stufi di vivere. Il marxismo è morto, il liberalismo anche, e l’umanità
sazia e disperatissima non si sente tanto bene. Solo un Dio ci può salvare.
Studio canadese: rilevato comportamento volontario negli stati
vegetativi, 29 novembre, 2011, http://www.uccronline.it
Uno studio canadese, svolto
effettuando un normale elettroencefalogramma ad un gran numero di pazienti in
coma cosiddetto vegetativo, ha rilevato che la gran parte di essi è molto più
vigile e consapevole di quanto non si pensasse. La ricerca è stata pubblicata
su The Lancet, una delle riviste mediche più prestigiose al mondo.
Questa ed altre simili ricerche
rimettono in discussione presso la comunità scientifica internazionale il
concetto stesso di stato vegetativo. Il New York Times ha riferito che, quando
ricercatori hanno chiesto ai pazienti in “stato vegetativo” di immaginare di
stringere la mano a pugno o muovere le dita dei piedi, hanno trovato che il 20%
delle onde cerebrali di questi pazienti risponde esattamente nello stesso modo
dei pazienti sani. Uno degli autori ha concluso che l’esperimento è «un segno
forte della nostra incapacità di diagnosticare correttamente le persone in
stato vegetativo».
Bobby Schindler, fratello di
Terri Schiavo e fondatore di www.terrisfight.org ha commentato così la notizia:
«Non solo la diagnosi di stato vegetativo è aleatoria, non scientifica e molto
spesso errata, ma è anche disumanizzante essere etichettati come un vegetale.
Ancora più importante e più inquietante però, è che tale diagnosi venga
utilizzata come criterio per uccidere deliberatamente le persone con disabilità
cognitive, come mia sorella». Terri Schiavo, in coma dal 1991, fu uccisa su
richiesta del marito nel 2005, mediante cessazione dell’idratazione e
dell’alimentazione, nonostante desse alcuni segnali di attività cerebrale. La
notizia è stata ripresa anche in Italia da Il Sole 24 ore.
martedì 29 novembre 2011
Il suicidio assistito di Lucio Magri - l'addio ai compagni: "Ho
deciso di morire" - Il fondatore del Manifesto morto in Svizzera ha deciso
tutto con lucidità; dalla fine alla sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici
hanno tentato di dissuaderlo ma lui era depresso per la morte della moglie di
SIMONETTA FIORI, http://www.repubblica.it
E ALLA FINE la telefonata è
arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva
provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il
suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo,
così il suo amico medico l'avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una
pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le
condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi
pettegolezzi, l'aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta
l'originalità.
S'era raccomandato con i suoi
amici più cari, quelli d'una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio
funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a
parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per
gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto
finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri,
fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica 2, è morto in
Svizzera all'età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era
diventato intollerabile.
A casa di Lucio Magri, in attesa della
telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della
Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso,
pittore amatissimo ma anche avversario sentimentale. Niente sembra fuori posto,
il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la
collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che
Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua
famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi
del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un
quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando,
ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara
il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di
limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non
c'è più.
Da questa casa Magri s'è mosso
venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta,
l'aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto
fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici:
"Ma no, non preoccupatevi, torno domani". La sera il tono cambia, si
fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno,
lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere,
e poi basta chiudere gli occhi. L'ultima telefonata nel pomeriggio, verso le
sedici. Poi il silenzio.
Una depressione vera, incurabile.
Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e
private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s'era innestato
il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il
suo filtro con il mondo. "Lucio non sapeva usare il bancomat né il
cellulare", racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante
fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un
vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro,
una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il
sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da
un'ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei. Anche
Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli
appariva un'insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di
un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la
realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo
spettacolo del sangue sul selciato.
Aspettando l'ultima telefonata, a
casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi
fermate vero a colazione? E' affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime
disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci
sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara
nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui,
sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico,
compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio
ora? Ora che esce l'edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e
quella spagnola? Dai, ripensaci, c'è ancora da fare. Ma lui non era convinto.
Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s'era spenta
la sua stella, così scrive anche nell'ultima lettera ai compagni.
Sembra tutto surreale, qui in
piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva
Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore.
No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici,
lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che
preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne
scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani
occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un'espressione tra il malinconico
e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. "A
Emma, il suo nonno". Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è
riuscito a fermarlo.
Poi la telefonata, quella che
nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri
andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio.
L'ultimo viaggio, questo sì davvero l'ultimo, è verso Recanati, dove sarà
seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto
dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s'appoggia allo stipite della
porta, tramortita: "Non avrei mai immaginato che finisse così". Il
tempo dell'attesa è concluso, comincia quello del dolore.
(29 novembre 2011)
La vera e la falsa ecologia di Massimo Introvigne, 29-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
Oggi, 29 novembre, si celebra la
«Giornata per la custodia del creato», che coincide con l’anniversario della
proclamazione di san Francesco d’Assisi (1182-1226) quale patrono dei «cultori
dell’ecologia» da parte del Beato Giovanni Paolo II (1920-2005) nel 1979. In
preparazione a tale ricorrenza, lunedì 28 novembre Padre Benedetto XVI ha
ricevuto gli scolari e studenti delle scuole italiane che hanno partecipato al
progetto «Ambientiamoci a scuola» promosso dalla Fondazione «Sorella Natura» di
Assisi. Il discorso pronunciato dal Papa è stato occasione per tornare su un
tema che gli è caro, la distinzione fra vera e falsa ecologia.
La festa del 29 novembre, ha
ricordato il Papa ai giovani, ha una «profonda ispirazione francescana. Anche
la data odierna è stata scelta per fare memoria della proclamazione di san
Francesco d’Assisi quale Patrono dell’ecologia da parte del mio amato
Predecessore, il beato Giovanni Paolo II, nel 1979. Tutti voi sapete che san
Francesco è anche Patrono d’Italia. Forse però non sapete che a dichiararlo
tale fu il [venerabile] Papa Pio XII [1876-1958], nel 1939, quando lo definì
“il più italiano dei santi, il più santo degli italiani”. Se dunque il santo
Patrono d’Italia è anche Patrono dell’ecologia, mi pare giusto che le giovani e
i giovani italiani abbiano una speciale sensibilità per “sorella natura”, e si
diano da fare concretamente per la sua difesa».
Continuando sul tema francescano,
il Pontefice ha fatto notare agli studenti che «quando si studia la letteratura
italiana, uno dei primi testi che si trovano nelle antologie è proprio il
“Cantico di Frate Sole”, o “delle creature”, di san Francesco d’Assisi:
“Altissimo, onnipotente, bon Signore…”. Questo cantico mette in luce il giusto
posto da dare al Creatore, a Colui che ha chiamato all’esistenza tutta la
grande sinfonia delle creature. “…tue so’ le laude, la gloria e l’honore et
onne benedictione… Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le Tue creature”».
Certo, «questi versi fanno parte giustamente della vostra tradizione culturale
e scolastica». Ma non bisogna mai dimenticare che «sono anzitutto una
preghiera, che educa il cuore nel dialogo con Dio, lo educa a vedere in ogni
creatura l’impronta del grande Artista celeste, come leggiamo anche nel
bellissimo Salmo 19: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani
annuncia il firmamento… Senza linguaggi, senza parole, senza che si oda la loro
voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio” (v. 1.4-5)».
Non dobbiamo scambiare san
Francesco per un esponente di quello che in altra occasione il Papa ha chiamato
un ecologismo pagano, che si mette in ascolto della natura divinizzandola. La
natura parla, ma ci parla di Dio. «Frate Francesco, fedele alla Sacra
Scrittura, ci invita a riconoscere nella natura un libro stupendo, che ci parla
di Dio, della sua bellezza e della sua bontà. Pensate che il Poverello di
Assisi chiedeva sempre al frate del convento incaricato dell’orto, di non
coltivare tutto il terreno per gli ortaggi, ma di lasciare una parte per i
fiori, anzi di curare una bella aiuola di fiori, perché le persone passando
elevassero il pensiero a Dio, creatore di tanta bellezza (cfr Vita seconda di
Tommaso da Celano, CXXIV, 165)».
Lo studio del creato da parte
della scienza o la sua cura da parte dell’ecologia battono strade sbagliate o
parziali se non riconoscono nel creato l’impronta del Creatore. «La Chiesa,
considerando con apprezzamento le più importanti ricerche e scoperte
scientifiche, non ha mai smesso di ricordare che rispettando l’impronta del
Creatore in tutto il creato, si comprende meglio la nostra vera e profonda
identità umana. Se vissuto bene, questo rispetto può aiutare un giovane e una
giovane anche a scoprire talenti e attitudini personali, e quindi a prepararsi
ad una certa professione, che cercherà sempre di svolgere nel rispetto
dell’ambiente». Ma anche questo rispetto non è una semplice forma di
umanitarismo ecologico. Nasce dalla consapevolezza che l’uomo prendendosi cura
del creato diventa collaboratore di Dio. Se invece «nel suo lavoro, l’uomo
dimentica di essere collaboratore di Dio, può fare violenza al creato e
provocare danni che hanno sempre conseguenze negative anche sull’uomo, come
vediamo, purtroppo, in varie occasioni».
Il Papa ha anche ripreso un tema
centrale nell’enciclica «Caritas in veritate»: l’ecologia dell’ambiente è
importante, ma non è credibile se non è accompagnata o meglio preceduta da una
ecologia umana. È paradossale intenerirsi per certe specie di foche minacciate
di estinzione e rimanere indifferenti di fronte all’aborto. «Oggi più che mai
ci appare chiaro che il rispetto per l’ambiente non può dimenticare il
riconoscimento del valore della persona umana e della sua inviolabilità, in
ogni fase della vita e in ogni condizione. Il rispetto per l’essere umano e il
rispetto per la natura sono un tutt’uno, ma entrambi possono crescere ed avere
la loro giusta misura se rispettiamo nella creatura umana e nella natura il
Creatore e la sua creazione». Se il rispetto per il creato prescinde dal
Creatore possono generarsi infiniti equivoci.
Il Papa loda l’iniziativa della
giornata del 29 novembre perché «ha una chiara prospettiva educativa. È infatti
ormai evidente che non c’è un futuro buono per l’umanità sulla terra se non ci
educhiamo tutti ad uno stile di vita più responsabile nei confronti del
creato». Ma anche nella pedagogia occorrere riflettere su che cosa significa
«creato». «E sottolineo – ha detto il Pontefice – l’importanza della parola
“creato”, perché il grande e meraviglioso albero della vita non è frutto di
un’evoluzione cieca e irrazionale, ma questa evoluzione riflette la volontà
creatrice del Creatore e la sua bellezza e bontà». No, san Francesco non ci
insegna un ecologismo pagano. Ci propone invece di «cantare, con tutta la
creazione, un inno di lode e di ringraziamento al Padre celeste, datore di ogni
dono».
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Con il Rosario salviamo i bambini di Andrea Zambrano, 29-11-2011, http://www.labussolaquotidiana.it
“CON la perseveranza salverete la
vostra vita”. Andrea Mazzi, 45 anni (nella foto), una moglie e due figli,
ingegnere della multiutility di Modena e si definisce "obiettore
fiscale" perché non vuole “che lo Stato finanzi l'aborto con i miei soldi”,
ha preso la frase evangelica e l’ha fatta propria. Però ci ha aggiunto
qualcosa: “... Salverete anche la vita degli altri, specie se a rischio di non
nascere”. Come? Seguendo alla lettera una frase profetica del suo padre
spirituale, don Oreste Benzi. Eccola: «Ho trovato il modo per far cessare gli
aborti in tutta Italia: andare a pregare di fronte agli ospedali». Mazzi
racconta che quando nel 1998 il sacerdote riminese propose la cosa ai “ragazzi”
della comunità Papa Giovanni XXIII era già chiaro fin da subito che per
quell’intuizione profetica serviva principalmente la faccia tosta di chi sa di
perdere tutto per trovare tutto. Così ogni lunedì a Modena e in altri giorni in
altre 6 città (Rimini, Ancona, Faenza, Forlì, Bologna e Madrid) il servizio
“Maternità difficile e vita” della comunità si ritrova da quasi 13 anni davanti
agli ospedali per recitare il Rosario. L’ora è improba: alle 6.45.
Perché così presto?
«Perché quello è l’orario in cui
le donne entrano in day hospital per abortire.
Ma scusi, perché non vi trovate
nelle cappelle degli ospedali?
«Don Benzi lo ripeteva sempre:
“Noi dobbiamo rendere pubblico quello che avviene nel silenzio degli ospedali”.
Il fatto è che la società è anestetizzata. Che cosa accadrebbe se un giornale
domani titolasse a sei colonne: “Ieri cinque bambini uccisi nell'ospedale della
nostra città”. Direbbe una cosa vera?»
Sì, vera, ma scomoda. Eppure non
si fa...
«Lo vede che la nostra società è
addormentata? Un motivo della preghiera pubblica è questo. La preghiera è una
forma di denuncia pubblica di una grave ingiustizia che si sta compiendo, noi
preghiamo Dio ma anche la società affinché cessi».
Esclusivamente pubblico. Una
provocazione.
«No. Siamo spinti dalla preghiera
come principale dimensione spirituale. L’immagine è molto semplice: sotto la
croce c’era Maria, che non poteva far nulla per togliere suo figlio da quel
supplizio, ma stava lì e pregava. Ecco, noi facciamo lo stesso. Siamo lì,
nell’ora in cui questi bambini vengono uccisi: non possiamo impedire la loro
morte, ma stiamo vicino a loro e preghiamo per loro, ci ricordiamo di loro e
delle loro madri, anch'esse vittime».
L’ideologia dominante parla di
autodeterminazione della donna: guai a chi tocca questo principio. Faccio
l’avvocato del diavolo: come vi permettete di giudicare la scelta di queste
donne? «Lo abbiamo sempre
detto pubblicamente: non siamo contro le donne, non giudichiamo nessuno. Anzi,
la nostra preghiera nasce sempre dalla constatazione del fatto che tutti siamo
complici e quindi che la prima necessità è quella della nostra conversione».
Che cosa volete ottenere?
«Preghiamo per le mamme di questi
bambini sperando che qualcuna vedendoci pregare possa ritornare sui suoi passi
e decidere di accoglierli. Non siamo su un piedistallo a giudicare le “donne
peccatrici”, questo lo pensano i tanti che ci attaccano e ci ostacolano anche
con la violenza e la forza».
Addirittura?
«Cominciarono quando don Oreste
era ancora in vita. Nel ’99 a Rimini venne a pregare anche il sindaco, così
nacque un movimento che andò avanti per un certo periodo».
Che facevano?
«Osteggiavano la preghiera. A
Bologna arrivarono con gli striscioni per buttarci fuori dai marciapiedi del
Sant’Orsola. Altre volte chiamavano i carabinieri. Lo sa cosa disse loro don
Oreste?»
No.
«“Ma guardate che i bambini li
stanno uccidendo là, dentro l’ospedale, non qua”».
Contestazioni sulla sua pelle?
«A Modena c'è sempre stato chi ha
criticato questa preghiera, abbiamo avuto una forte attenzione mediatica anche
perché siamo piuttosto numerosi (agli inizi eravamo una cinquantina).
Nell’ultimo anno gli attacchi sono diventati più forti».
Da parte di chi?
«Principalmente L’Udi (Unione
donne in Italia), area cosiddetta “femminista”, oggi vicina a Sel».
Campagne mediatiche ostili?
«Non solo, attacchi diretti. Un
anno fa c’è stato un “salto di qualità”, hanno alzato il tiro».
Perché?
«Dapprima hanno fatto un reclamo
alla polizia municipale sostenendo che creavamo confusione e molestavamo le
persone. Gli agenti sono venuti e hanno riscontrato l’infondatezza della
segnalazione. Quindi hanno diffuso un comunicato dicendo che avremmo molestato
una donna che si recava in ospedale, ma si erano basati su una telefonata
anonima che loro sostenevano di aver ricevuto: così ci hanno accusato pubblicamente
di una cosa assolutamente infondata. Non proprio carino...»
Come andò a finire?
«Con un nulla di fatto,
ovviamente. L’Udi lo ha detto pubblicamente: “vogliamo che i “pregatori” se ne vadano” e per questo “andremo fino in
fondo”, fino a quando cioè non troveranno il modo di farla smettere».
Ci sono mai andati vicini?
«Noi non ci siamo mai fermati, e
dire che di ostacoli ne hanno messi sulla strada. Le ho già detto
dell’assemblea pubblica?»
No...
«Dopo il comunicato hanno
organizzato un incontro pubblico per chiedere alle istituzioni di avviare una
serie di azioni per impedirci di pregare. Lì hanno rivelato che da anni hanno
una forma di attenzione periodica su di noi».
In che modo?
«Di tanto in tanto vengono a
controllare quello che facciamo».
Ma voi continuate a pregare anche
se siete sotto controllo dei "guardiani della rivoluzione"?
«Certo, l’unica cosa che abbiamo
fatto è stato togliere temporaneamente alcuni cartelli che spiegavano le
ragioni della nostra iniziativa per far risaltare meglio che siamo solo un
gruppo di preghiera e non facciamo manifestazioni politiche. Così è rimasta
solo la croce. Ma c’è anche un altro gruppo».
Quale?
«A ruota dell’Udi si sono mossi
anche gli autonomi e i collettivi anarchici. A Modena c’è il Guernica, poi c’è
un coordinamento donne di Rifondazione comunista, insieme hanno messo in campo
azioni per attaccare la preghiera. Lo scorso aprile sono venuti due volte e con
i megafoni, mentre noi pregavamo, ci hanno urlato ogni sorta di “complimento”».
E voi?
«E noi continuavamo a pregare...!
Soltanto un amico si staccò dal rosario per scattare una foto e documentare la
cosa».
Immagino, non l’avesse mai fatto...
«Un autonomo lo ha minacciato:
“Se scatti un’altra foto, ti spezzo le gambe”. Ma noi abbiamo sempre mantenuto
uno stile mite e nonviolento: abbiamo anche dato loro una lettera e ci siamo
resi disponibili per un incontro, che però loro hanno rifutato. Alcuni giorni
dopo hanno fatto anche una manifestazione davanti al consultorio e una in
piazza».
Contestazioni a parte, c’è
qualche risultato?
«Sì, abbiamo tante belle storie a
“lieto fine”. Una volta una mamma a Rimini si stava recando ad abortire e poi...»
...e poi?
«E poi il miracolo della
preghiera. Entrammo in contatto, le parlammo del bambino che aveva dentro di
sé, la incoraggiammo che i suoi problemi si sarebbero pututi risolvere. Lei
scoppiò a piangere e decise che non avrebbe abortito. E dopo settimane di
angoscia provò finalmente un grande sollievo».
Che cosa le avete detto?
«Che è giusto dare al proprio
bambino la possibilità di nascere e di conoscere la vita».
Questo è bastato a convoncerla?
«Non c’era bisogno di
convincerla. Lei, come ci raccontò successivamente, sentiva già che doveva dare
una possibilità al suo bambino, lui non aveva colpe e non doveva pagare per i
suoi sbagli».
C'è qualche donna che cambia idea
e torna indietro a ringraziare come nei casi evangelici dei miracoli? «Sì,
tante. Addirittura a volte succede che qualcuna decida nonostante il nostro
aiuto di abortire e poi ci ringrazi perché “almeno voi ci avete provato ad
aiutarmi”. La preghiera raggiunge gli angoli più disparati. Ho ancora negli
occhi quello che accadde ad una coppia ghanese».
Che cosa?
«Una mamma ci aveva notato
durante il Rosario, le lasciammo un volantino. C'era una foto di un bambino nel
grembo e la scritta “Why don't you let me live?” (perché non mi lasci vivere?).
Salì in reparto e lasciò quel volantino su un comodino della stanza dove
c’erano le donne in attesa di abortire. A fianco c'era una coppia di ghanesi.
Lei non avrebbe voluto abortire, ma lui l’aveva convinta a farlo. Quando però
lui guardò il volantino, rimase folgorato. Guardò la moglie e le disse: “Ma
cosa stiamo facendo?”. Si alzarono di scatto e se ne andarono. Dopo pochi
minuti sarebbe arrivato l'infermiere a prendere la donna per portarla in sala
operatoria».
Folgorati?
«Sì. Abbiamo offerto loro un
percorso di affiancamento, ma dopo un po’ abbiamo capito che preferivano
muoversi autonomamente. E abbiamo perso i contatti».
Intanto una vita era stata
salvata...
«Un paio di anni dopo andiamo a
trovare in ospedale un'altra mamma ghanese e vi troviamo una sua amica: era la
donna che scappò a pochi passi dall'aborto, Ci riconobbe. Mi disse una frase
che non dimenticherò mai: “Ogni volta che guardo mio figlio penso a voi e a
quello che avete fatto per me”. Certe storie ti riempiono il cuore, ma facendo
questa attività devi confrontarti anche con tanti lutti».
Che cosa dice la Chiesa locale?
«La Chiesa deve essere il punto
di riferimento. Don Oreste prima di dare avvio a questa preghiera, ne parlava
sempre prima con il vescovo di quella diocesi. Così è stato anche a Modena, e
anche il nuovo vescovo è a conoscenza di questa nostra iniziativa. Quando sono
partiti gli attacchi alla preghiera il settimanale diocesano ha avviato una
raccolta di firme a nostro sostegno».
Come reagiscono i medici e gli
infermieri?
«Dentro agli ospedali c'è un
grande disagio in chi opera nei vari percorsi per arrivare all'aborto. E' un
disagio interiore che si oggettiva nel fatto che sono sempre di più le
obiezioni di coscienza.
Non c'è il rischio che siano di
comodo? Di chi dice: “Ma chi me lo fa fare?”».
«Quella che è cresciuta molto in
questi ultimi anni è un’obiezione di coscienza “da saturazione”. Posso
testimoniare con i miei occhi e le mie orecchie: ci sono medici, ostetriche e
infermieri che non ne possono più di fare aborti. Capiscono di essere solo
ingranaggi di un’orrenda macchina di morte e che non possono andare avanti per
sempre a farsi scudo dietro al fatto che c'è una legge da applicare. Certe cose
le vedono meglio di altri e faticano a tenerle nascoste perché li costringono a
interrogarsi su quello che vedono».
Che cosa vedono?
«Soprattutto l'aborto in fase
avanzata, è un piccolo parto. Il bambino nasce vivo ma non ha gli organi pronti
per respirare e muore entro qualche ora, salvo casi come quello di Rossano
Calabro (aborto alla 26esima settimana, il feto vivrà per un giorno dimenticato
dal personale sanitario). Una volta terminato, quelle stesse ostetriche si
girano nel letto a fianco e devono assistere un altro bambino, nato alla stessa
settimana di gestazione, o poco più, che sta lottando per sopravvivere e si fa
di tutto per salvarlo».
Dunque con il feto delle stesse
dimensioni...
«E vedono l'orrore! L'orrore di
una prassi ospedaliera che di fronte a due neonati uguali lascia morire chi non
è destinato a vivere. Un operatore ospedaliero un giorno si recò in cella
frigorifera e vide un feto che ancora respirava. E' l'orrore che si aggiunge
all'orrore».
Avete conosciuto medici o
paramedici che sono diventati obiettori?
«Sì, Un'operatrice ci ha
raccontato di una frase che si dicono tra colleghe: “Andremo tutte
all'inferno”. Loro lo sanno che è un mestiere tremendo, parlo ovviamente di
coloro che fanno parte dell'equipe che segue gli aborti. Di altri sappiamo che
sono andati molto in crisi.Dentro gli ospedali c'è un dramma fortissimo. E in
tanti arrivano a dire: “Non ce la faccio più”. Anche da questo nasce la Ru 486,
che ha lo scopo di aggirare il problema...»
Come accompagnate le donne che si
avvicinano a voi?
«Anzitutto bisogna riconoscere,
come diceva don Oreste che dietro ad una donna che vuole abortire, c'è sempre
qualcuno che la fa abortire. L'aborto è un pensiero estraneo alla donna, è
indotto.
Dal padre del bambino...?»
Certo: ricatti, violenza e inviti
pressanti sono sempre più frequenti, ma non ci sono solo i compagni.
Ad esempio?
«L'atteggiamento ostile del
datore di lavoro, l'ambiente circostante con le pressioni dei genitori o tutori
che fanno leva su ragazze minorenni o donne con problemi psichici».
E gli assistenti sociali?
«Ci sono assistenti sociali che
di fronte a casi di povertà si permettono di dire: “Pensaci bene, hai già altri
bambini...”. E poi ci sono le spinte dei medici».
Che invitano ad abortire?
«Certi responsi di esami
prenatali sono tremendi, perché identificano il malato con la malattia. Come si
fa a dire a una donna: “Signora, lei aspetta un down?”. E a questo punto tante
volte è il medico stesso a suggerire l’aborto. Senza neanche offrire alla
coppia la possibilità di incontrare famiglie che hanno bambini con lo stesso
problema, per capire realmente di cosa si tratta».
Quindi oltre che una mentalità
abortista c'è anche una sorta di induzione sociale all'aborto, come se la donna
dovesse affrontare un protocollo ulteriore?
«Altroché. Ecco perché ora
l'urgenza è fare campagna di sensibilizzazione su questo tema. Fino ad ora
abbiamo visto le campagne sulla libertà della donna di abortire, ma la verità è
che loro abortiscono perché non vedono davanti a sé alcuna alternativa, hanno
pressioni micidiali attorno che le spingono a farlo».
Avete già idee?
«Prendere a modello quello che
accade in diversi stati del nord America.
Che cosa?
«In 12 stati degli USA sono state
approvate leggi che prevedono l’obbligo di informare le donne che non devono
essere indotte da nessuno. In Missouri e Idaho ci sono già leggi severe che
prevedono sanzioni contro chi induce ad abortire. Oppure in Canada è stata
presentata la “Roxanne’s Law”, che proponeva sanzioni pesanti dopo il caso di
una donna immigrata, uccisa dal compagno perché si era rifiutata di abortire.
Il progetto di legge è stato bocciato, ma è già un passo avanti che se ne
parli. Una speranza in più, da alimentare con il Rosario del lunedì».
lunedì 28 novembre 2011
Anche il Messico ritiene che il matrimonio omosessuale non è un diritto
dell’uomo, 28 novembre, 2011, http://www.uccronline.it/
In Inghilterra la lobby
omosessualista si è inventata un altra forma di presunta discriminazione che
subirebbero i propri adepti, ovvero la stessa parola “omosessuale”. Lo ha stabilito
Gary Nunn sul quotidiano The Guardian, lanciando la campagna: “Basta con la
parola “omosessuale”, è offensiva e discriminatoria”.
In Messico invece, dove la lobby
ha minore presa, il vicepresidente della difesa dei Diritti umani dell’ufficio
del Procuratore Generale della Repubblica del Messico, ha giustamente
dichiarato che il tentativo di legalizzare il “matrimonio” tra persone dello
stesso sesso non ha nulla a che vedere con i diritti umani. Juan de Dios Castro
Lozano, che è anche consigliere giuridico della Presidenza della Repubblica, ha
commentato questo durante una conferenza a Puebla il 16 novembre scorso
discutendo sulla costituzione messicana. Ha sottolineato che le unioni civili
per le coppie dello stesso sesso potrebbero ottenere un riconoscimento
limitato, ma non quello del matrimonio. Castro Lozano ha anche espresso forte
opposizione all’adozione da parte di coppie omosessuali: «L’adozione non è solo
un diritto che appartiene agli adulti, ma anche ai bambini», ha detto spostando
giustamente l’attenzione al diritto dei bambini di crescere con un padre e una
madre.
Quella messicana (capitale a
parte) è la stessa posizione assunta anche dalla Corte Europea dei diritti
dell’uomo nel giugno 2010, quando ha stabilito che il matrimonio tra omosessuali
non è un diritto. O meglio, negarlo non significare negare un diritto, né
tantomeno una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E’
stata data quindi ragione all’Austria, cui le autorità avevano rifiutato
ripetutamente il permesso a contrarre matrimonio a due cittadini.
I ricorrenti sostenevano che era
stato violato il loro diritto a sposarsi, come sancito dall’articolo 12 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e affermavano di considerarsi
discriminati nel loro diritto a creare una famiglia. Il caso è arrivato fino a
Strasburgo ma la sentenza conclusiva ha ribadito che gli Stati non sono
obbligati, in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ad
assicurare l’accesso al matrimonio alle coppie dello stesso sesso. I giudici
della Corte europea hanno fatto inoltre osservare che in Europa non esiste un
consenso al riguardo e che spetta alle autorità nazionali valutare in merito.
La Corte ha anche stabilito che lo Stato che introduca tali misure non è tenuto
a garantire con queste gli stessi diritti riconosciuti alle coppie
eterosessuali.
Inoltre oggi, su 200 stati nel
mondo solo in 11 è possibile contrarre un matrimonio omosessuale. In Europa
solo in 7 stati su 45.
Radio Maria. Diretta Prof.Palmaro del 11 novembre 2011. Tema: “Incontri con la bioetica. Bioetica : male minore e verità”
(trascrizione dalla registrazione)
Cari ascoltatori, buon pomeriggio. Ben ritrovati al nostro consueto appuntamento mensile con la bioetica. Quest’oggi la trasmissione ha come titolo “Bioetica : male minore e verità”. Perché? Perché ci rendiamo conto da tanti sintomi, da tanti segnali che provengono dalla vita pubblica, dalla vita politica, dai mezzi di comunicazione, che in questi anni è diventata sempre più frequente all’interno della riflessione bioetica teorica, ma direi soprattutto a livello della bioetica pratica, cioè dell’applicazione concreta nella vita di tutti i giorni, di scelte morali nel campo della bioetica, è venuta sempre più in evidenza, mi pare, una questione, un nodo non del tutto risolto o, per lo meno, un nodo risolto in modo come sempre esemplare dalla dottrina cattolica, dal magistero della Chiesa e, in generale, da chiunque si metta nel solco della dottrina della legge naturale, cioè il problema del cosiddetto ‘male minore’, a fronte invece di un grande stato confusionale che nella prassi si agita intorno a questa categoria del male minore. Perché? Perché c’è un elemento – come dire – storico. Incominciamo da questo dato di realtà, cioè c’è un elemento obiettivo che osserviamo nel mondo in cui viviamo, e dal mondo in cui viviamo prendiamo le mosse, proprio perché come sempre il nostro approccio, come quello che caratterizza l’approccio della Chiesa, del cattolicesimo e, quindi, di questa Radio, è un approccio estremamente realistico.
Voi sapete – l’abbiamo detto più volte - che la Chiesa ha frequentemente rimandato alla figura di Tommaso D’Acquino come vertice della storia della filosofia, del pensiero filosofico d’impronta cattolica, perché Tommaso D’Acquino, fra le altre cose, è il fautore di una filosofia che è nota anche come ‘realismo della conoscenza’.
Allora, senza farla troppo lunga e senza complicarci la vita in questioni teoretiche, realismo della conoscenza significa che la vera filosofia – la sana filosofia aristotelico-tomistica – muove dalla realtà, ha a che fare con la realtà concreta. Non si immagina un uomo surreale , un uomo che non è mai esistito, ma fa i conti con la realtà concreta. Quindi, è esattamente il contrario di quell’accusa che talvolta ci sentiamo fare quando difendiamo un principio, difendiamo un valore non negoziabile, l’accusa di essere fuori dal mondo, fuori dalla realtà, di fare delle battaglie di retroguardia, di essere gente che non ha i piedi per terra…. quest’accusa un cattolico la deve respingere al mittente perché nulla è più realistico del Vangelo, nulla è più realistico dell’insegnamento della Chiesa cattolica, nulla è più realistica della morale cristiana. Dunque per realismo intendiamo che ciò che ci viene proposto, insegnato, dalla Chiesa, dal Vangelo, da Cristo stesso, è realizzabile: il bene è possibile. Il bene che ci viene insegnato, che ci viene proposto e a cui noi tendiamo, pur con tutti i nostri limiti, i nostri difetti, i nostri peccati, è possibile: non è qualche cosa di impossibile.
Allora questo bene possibile, è possibile non soltanto nelle scelte individuali, nella testimonianza personale nella vita del singolo e nel segreto, nel sacrario della sua coscienza, ma questo bene è possibile anche nella vita dei popoli, anche nella vita delle nazioni, anche quindi nelle scelte degli stati e dei legislatori. Se questo bene è possibile, allora questo bene anzitutto deve essere conosciuto, deve essere insegnato, deve essere difeso anche quando ci si trovi in una congiuntura storica in cui questo bene non viene praticato, non viene insegnato, non viene difeso.
La bioetica si trova, suo malgrado per così dire, al centro di questa contraddizione storica, cioè nella necessità, da un lato di difendere la verità tutta intera, e dall’altro lato, purtroppo, nella sconfitta pratica derivante dal fatto che la verità viene calpestata, viene negata, viene taciuta, viene inquinata proprio da una prassi che è anticristiana, che è contraria alla verità, che è sempre più secolarizzata, eccetera eccetera. Non ci dilunghiamo su aspetti che caratterizzano la nostra società e che gli ascoltatori di Radio Maria ben conoscono. Dunque, la nostra premessa in sostanza ci dice : - Parliamo oggi del male minore e del rapporto che il male minore ha con la verità perché a fronte di questa dialettica, di questa contraddizione tra il bene che deve essere insegnato, che deve essere praticato, che deve essere difeso, e la società secolarizzata relativista pluralista, che questo bene nega, che questo bene calpesta, che questo bene contrasta… che cosa accade anche all’interno dello stesso pensiero cattolico? Che si avanza, si fa strada, una dottrina vera e propria, una falsa dottrina, che tende a improntare l’azione del cattolico nella società pluralista e, in particolare, l’azione del cattolico in politica, nella prospettiva nella dimensione riduttiva del male minore.
Detto in parole più semplici, la soluzione che viene sempre più spesso proposta, praticata e teorizzata, rispetto a questa condizione di conflitto tra la verità che la Chiesa insegna - badate bene, verità come sempre sotto il profilo della bioetica, che attengono al bene comune, che attengono alla legge naturale; quindi non stiamo parlando delle verità dogmatiche, delle verità de fidae che la Chiesa nella sua Tradizione non ha mai inteso imporre alle coscienze attraverso leggi dello Stato – stiamo parlando invece di quelle verità che hanno a che fare con quelle condotte che comportano l’uccisione, il furto, la truffa, l’inganno, cioè quelle azioni che sono, oltre che immorali, delittuose perché offendono un bene giuridico fondamentale che può essere la vita, il matrimonio, la proprietà privata…. allora, dicevo, quando ci si accorge che nella società (ed è successo nella nostra società da alcuni decenni) un bene fondamentale come quello della vita venga messo alla mercè della volontà del singolo dalla legge dello Stato (stiamo parlando della legge 194 del 1978, legge intrinsecamente ingiusta; stiamo parlando della legge 40 del 2004 sulla fecondazione artificiale, legge intrinsecamente ingiusta; stiamo parlando di una legge che dovesse approvare la legalizzazione delle volontà anticipate del paziente che contengano elementi di apertura anche strisciante, anche implicita, all’eutanasia (leggi ‘dichiarazioni anticipate di trattamento’)… ecco, di fronte a questo orizzonte, di fronte a questa realtà che s’impone fattualmente, cioè che è nei fatti per cui non puoi negare che sia così; allora taluni, anche all’interno del mondo cattolico, propongono di risolvere il conflitto di coscienza che ne nasce con la soluzione del cosiddetto “male minore”.
Cioè, in sostanza, si abbandona – attenzione, cari ascoltatori! - si abbandona una posizione rispettosa della verità tutta intera e abituata a misurare le categorie morali sotto il profilo del buono e del malvagio, del vero e del falso, quindi attraverso categorie nette, categorie chiare, categorie che non ammettono sfumature almeno dal punto di vista dell’affermazione di un principio generale; ecco, si passa da una visione morale classica, che è quella che ho appena descritto per cui vi sono azioni che sono intrinsecamente inaccettabili sotto il profilo morale ed eventualmente anche sotto il profilo giuridico,a una visione di tipo proporzionalista. Noi del proporzionalismo nelle nostre trasmissioni abbiamo già parlato, ma alle volte è necessario ribadire certi concetti: “Che cosa vuol dire ragionare in termini proporzionalistici?” Vuol dire ragionare in termini morali che non ammettono più l’esistenza di azioni cattive in se stesse o buone in se stesse, ma oggettivamente buone o oggettivamente cattive, non ammette più l’esistenza di assoluti morali, ma ragiona sempre in termini di proporzione tra il male che una determinata condotta comporta e il bene che si spera di ottenere da quella stessa condotta, per cui il proporzionalista è chiamato così perché opera un bilanciamento proporzionale tra il male che prevede che una certa condotta comporti e il bene che da questa condotta ne può derivare. Cosa significa questo nel nostro discorso bioetico? Significa che ragionando secondo questa visione del male minore, il nostro agente (cioè per agente s’intende in chiave morale colui che deve agire - può essere il politico, può essere il bioeticista, può essere il moralista, il confessore, il penitente, qualunque essere umano è tenuto a prendere una decisione che ha un’implicazione morale significativa, invece che ragionare secondo le categorie che derivano dalla dottrina classica, quindi dal Decalogo (non rubare, non desiderare la donna d’altri, eccetera, eccetera), comincia a soppesare le azioni mettendo sulla bilancia pregi e difetti, benefici e danni. Allora, non uccidere? Bè, sì … non devo uccidere, però… se in quella determinata situazione al male che deriva dall’uccisione posso mettere sull’altro piatto della bilancia un bene che considero più importante … allora questa azione diventerà buona (chiave proporzionalistica).
Voi rimarrete certamente sorpresi dall’esito anche drammatico, inquietante, di questo modo di ragionare, però dobbiamo renderci conto che talvolta noi ci facciamo passare sotto il naso – per così dire – dei modi di ragionare di stampo proporzionalista, senza quasi accorgerci, soprattutto quando lo scenario nel quale si muove il ragionamento, è lo scenario politico. Perché? Perché lo scenario politico è obiettivamente, generalmente, riconosciuto come uno scenario nel quale le condotte sono determinate da una prospettiva compromissoria.Si dice che la politica è l’arte del possibile, è chiaro allora che lo scenario politico è uno scenario frammentato pluralistico, dove s’incontrano tendenze posizioni valori contenuti principi, differenti – se non opposti – e, quindi, l’esito dell’atto politico non può che essere un minimo comune denominatore delle diverse componenti che caratterizzano il quadro politico stesso.
Per scendere sul terreno della bioetica, prendiamo un argomento: “fecondazione artificiale”. Nel quadro politico e anche nel quadro sociale c’è una pluralità di posizioni che vanno da chi è favorevole a ogni tipo di fecondazione artificiale, , passando attraverso chi è favorevole a qualche ipotesi di fecondazione artificiale, arrivando a chi vuole la fecondazione artificiale ma solo in certi casi e a certe condizioni, per giungere poi (sperando che ci sia ancora qualcuno che pensa quello che sto per dire), a chi sia invece contrario a qualunque ipotesi di fecondazione artificiale extracorporea. Data questa varietà di posizioni la politica che cosa può produrre? Può produrre un compromesso (qualcuno lo definisce onorevole) che genera ad esempio una legge come quella in vigore in Italia. La legge 40 del 2004 è una legge compromissoria nella quale troviamo qualche elemento di restrizione alla fecondazione artificiale, qualche dichiarazione di tutela giuridica del concepito e qualche espressione di riconoscimento del valore dell’essere umano fin dal concepimento, accanto alla legittimazione, alla legalizzazione, della fecondazione artificiale, che quindi può essere praticata come un vero e proprio diritto dei cittadini italiani.
Allora questo è un esempio di applicazione pratica di questa dottrina del male minore secondo la quale, quindi, le azioni non dovrebbero più essere valutate come buone o cattive, ma come l’azione ‘migliore’ o ‘meno peggiore’ che io posso tenere di fronte a un quadro pratico che non mi lascerebbe delle alternative; cioè non mi permetterebbe nel caso specifico, ad esempio, di volere una legge integralmente rispettosa del diritto alla vita del concepito. Allora qui, intanto, due osservazioni importanti (il tema ha tanti addentellati, ma noi vogliamo essere didascalici, non vogliamo mettere troppa carne al fuoco).
Una prima osservazione di carattere morale, cioè spiegare bene come funziona la dottrina del ‘male minore’. Quella vera, non questo simulacro che viene utilizzato per legittimare qualunque cosa e ragionare in termini proporzionalistici, dottrina che è incompatibile con la dottrina morale cattolica.
Seconda osservazione invece, di carattere più giuridico, con riferimento in particolare al citatissimo numero 73 dell’Evangelium Vitae sulle cosiddette leggi imperfette, categoria di cui abbiamo già parlato, ma che richiederà ancora una specificazione da parte nostra.
Vediamo di affrontare, cari ascoltatori, la prima questione che è quella della definizione più precisa di che cosa sia lecito fare - che sia bene fare – di fronte alla cosiddetta questione del male minore. Innanzitutto abbiamo qualche illustre consiglio di carattere autorevole, lo troviamo ad esempio nella Lettera ai Romani, dove si legge: “Non facciamo il male perché ne venga un bene”. Qui Paolo stabilisce un principio fondamentale per cui non si può fare un male in vista di ottenerne un bene. Quindi, è sempre da escludere il ricorso a un mezzo illecito in vista di un bene. Questa legge aurea e immutabile del diritto della legge naturale ci aiuta a sciogliere agevolmente la gran parte delle questioni bioetiche; desiderare di avere un figlio è in linea generale un bene; il mezzo attraverso il quale lo vogliamo ottenere – se è il ricorso alle tecniche di fecondazione artificiale – costituisce proprio la violazione di questo precetto, cioè il precetto che dice che non devi fare il male anche in vista di un bene. Detto in termini più moderni e alludendo al punto di vista dei filosofi eredi di Macchiavelli : “il fine non giustifica il mezzo”.
Quindi, data questa premessa, ci facciamo due domande. “Ma, fra due mali si può scegliere il male minore?”: 1^ questione. 2^ questione: “Ma, si può consigliare qualcuno a percorrere il male minore?”
Cominciamo dalla prima domanda: “Si può scegliere il male minore?” Allora, se io mi trovo davanti a due mali, scegliere di compiere il male minore non è mai lecito quando si tratti di due mali ovviamente di tipo morale, cioè quando le due azioni di fronte alle quali mi trovo comportano entrambe – seppure con una gradazione magari di gravità diversa – la violazione della legge morale. Quindi, questa è un’altra legge aurea da cui non si scappa. Posti di fronte a due mali che siano ciascuno una violazione della legge morale, non è possibile scegliere lecitamente l’uno invece dell’altro appellandosi al fatto che lo si valuta meno grave, meno brutto, dell’altro male. Quindi un male non può diventare bene, non può diventare lecito, soltanto perché comparato a un altro male fa la figura del piccoletto…. dice: “ma, ho fatto un’azione … però è sempre meglio che compiere un’altra azione più grave…” Quindi, questa comparazione è chiaro che rimane vera nella valutazione della responsabilità, della gravità, di quello che si è fatto, perché il male ha una sua gradazione. Una bugia detta alla mamma non è una falsa testimonianza in Tribunale, non è un furto con scasso, non è una rapina, eccetera eccetera; ma …un male non può mai essere trasformato in un bene solo perché confrontato a qualche cosa che è peggiore.
Ora qui facciamo subito una traslazione sul piano giuridico. Viviamo costantemente immersi in un flusso informativo, anche talvolta proveniente dal mondo cattolico, che qualifica come buone delle leggi soltanto perché queste leggi appaiono meno brutte, meno ingiuste, meno sconquassanti, di altre leggi magari in vigore in un’altra nazione, o di altri progetti di legge che potrebbero essere approvati in chiave peggiorativa di quella stessa legge. Allora, a fronte di questa comparazione, ecco che una legge che è gravemente ingiusta comincia ad essere qualificata come buona legge; oppure, con un altro éscamotage dialettico, con l’espressione - mutuata dall’antilingua - come ‘legge imperfetta’. E …pensate che questo grave errore - gravissimo errore - di qualificazione morale e giuridica di una legge ingiusta, viene addirittura impugnato da parte di alcuni per perorare delle leggi ingiuste sostenendo che chi non le appoggia è in errore, è un reprobo, è qualcuno al quale bisognerebbe togliere la possibilità di testimoniare la verità, bisognerebbe ridurlo al silenzio.
Ecco, questa prospettiva è una prospettiva evidentemente completamente inaccettabile , completamente di rottura rispetto a una ermeneutica della continuità delle prospettive morali, insegnate e praticate dalla dottrina cattolica in duemila anni. Quindi, che qualcuno possa sostenere che una legge che permette di produrre embrioni in provetta, di usarne una parte o tutti sapendo che sono destinati quasi sicuramente a morte certa, accettando che a migliaia, a decine di migliaia periscano ogni anno nell’applicazione di quella legge dello Stato, ecco chi sostiene che tutto questo è buono o tutto questo fa parte ed è conseguenza di una legge buona o di una legge da difendere in relazione al fatto che potremmo avere una legge che ne permetta la soppressione di un numero maggiore o che permetta un’applicazione più lassa, più vasta, più ampia, della fecondazione artificiale… chi dice queste cose sta commettendo un errore concettuale, un errore di valutazione gravissimo – oggettivamente gravissimo – ancorchè questo errore possa avvenire in buona fede, sulla base delle motivazioni più diverse, le più comprensibili sotto il profilo umano, tuttavia questo giudizio è un giudizio erroneo.
Dove però, ecco, la valutazione di comparazione fra una legge ingiusta e una legge peggiore si potrebbe verificare? Si potrebbe verificare – dice il n° 73 dell’ Evangelium Vitae - quando o vi fosse già in vigore una legge ingiusta e ci si trovasse nella strettoia parlamentare della proposizione di una proposta di legge o di emendamenti a una legge precedente, che tende a migliorarla in modo significativo, in modo rilevante. Allora a questo punto – dice il n° 73 dell’enciclica ‘Evangelium Vitae’ di Giovanni Paolo II - al parlamentare cattolico è consentito, è permesso, di dare il proprio consenso elettorale (di dare il proprio voto) anche a una legge che rimane intrinsecamente ingiusta, ma – attenzione! – con una serie di circostanze, di prescrizioni rigorosissime, che sono :
1°) avere manifestato pubblicamente a tutti che il proprio voto non va a sostegno di quella legge ingiusta, ma che è motivato solo dalla necessità di ridurre in qualche modo l’ingiustizia anche se quell’ingiustizia non viene eliminata;
2°) che sia stata preventivamente verificata la oggettiva impossibilità pratica, politica, di abrogare totalmente la legge ingiusta;
3°) che il proprio voto sia determinante , perché se si accertasse che il voto non è determinante, non si deve cooperare.
Quindi, tutto questo che cosa fa capire? Che la prospettiva da cui muoveva, e muove, il Magistero cattolico nella persona autorevole di Giovanni Paolo II, non come teologo, ma nella sua funzione magisteriale di pontefice, la visione non è quella di elevare una legge ingiusta alla categoria di legge buona o di legge imperfetta, ma è quella di lasciare che quella legge venga ancora qualificata come ingiusta, circoscrivendo l’azione del parlamentare soltanto a un male non scelto ma subito. Ecco qui, il secondo aspetto che qualifica correttamente la dottrina del ‘male minore’: il male minore è qualcosa che può essere subito quando di fatto non ci sia nessuna forma di adesione libera e volontaria di adesione al male stesso.
Ora, questo tipo di logica è molto chiara, è molto esigente anche – è molto chiara ed è molto esigente - e permette anche di fare un passo ulteriore nella qualificazione di una legge come legge ingiusta. Quando pure ci trovassimo nello scenario in cui ritenessimo che una certa legge è meno ingiusta, è meno spregevole di un’altra (quindi facciamo una comparazione), quand’anche ci trovassimo nell’ applicazione rigorosa specifica molto puntuale dei requisiti che il n°73 dell’ Evangelium Vitae descrive (avete visto che sono requisiti molto stringenti, tutt’altro che approssimativi!) quand’anche ci trovassimo in questa condizione, quand’anche quindi si arrivasse ad una azione legittima, lecita, di sostegno di quella parte di variazione, di modifica di una legge, in senso restrittivo per esempio, una restrizione della legge 194, una restrizione della legge 40; quand’anche si compisse questo atto politico-giuridico in vista del raggiungimento di questo risultato parziale, noi saremmo forse di fronte – una volta ottenuta l’approvazione di questa legge meno ingiusta (se vogliamo usare questo termine comparativo), ci troveremmo forse in presenza di una legge diventata giusta, di una legge diventata buona, diventata da difendere, diventata ‘imperfetta’? Assolutamente no.
Perché la qualifica, eventualmente utilizzabile, di imperfetta rispetto a quella legge è una qualifica temporanea, è una qualifica che vale fintanto che il gioco dialettico parlamentare che presiede l’approvazione della nuova legge rimane attivo, cioè finchè la discussione è viva , allora noi possiamo fare una comparazione e, a ragion veduta, dopo avere dichiarato pubblicamente che siamo contrari ad ogni ipotesi di fecondazione artificiale… attenzione, perché questo oggi chi lo dice pubblicamente? Chi lo sta ripetendo, oggi, che non soltanto questo è un problema morale, ma è un problema di violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, quindi un problema che dovrebbe trovare una soluzione giuridica nel divieto di ogni forma di fecondazione artificiale extracorporea!
Bene, una volta chiarito questo, il giorno dopo che viene approvata una legge cosiddetta imperfetta, quella legge cessa di essere imperfetta perché a quel punto diventa tout-court una legge ingiusta, cioè una legge contro la quale io, un minuto dopo che è stata approvata, mi devo schierare. Tant’è vero che - molti non lo ricordano, quasi nessuno lo dice - la legge 40 del 2004 sulla fecondazione artificiale contiene un articolo (l’articolo 16) che prevede… che cosa? L’obiezione di coscienza! Ma guarda un po’… una legge ‘buona’ che prevede la possibilità per i medici e gl’infermieri di fare obiezione di coscienza alle tecniche di fecondazione artificiale! Strano, strano che ci sia l’obiezione di coscienza, potremmo dire… no, non è strano perché le uniche due leggi in vigore in Italia ad oggi che contemplano (per fortuna, grazie a Dio!) almeno il diritto all’obiezione di coscienza, ammettendo così implicitamente di essere delle leggi ingiuste, sono la legge 194 e la legge 40.
Quindi, cari ascoltatori, quello di cui stiamo parlando non è un aspetto per amatori della teologia dogmatica o della teologia morale, ma è una questione fondamentale perchè è diventata per molti versi anche una enorme buccia di banana su cui scivolano i cattolici; quella cioè di credere, di insegnare, di dire pubblicamente che la legge sulla fecondazione artificiale è una buona legge, o che il divieto della fecondazione eterologa è un provvedimento che tutela la vita dal concepimento. Non è vero!!! Non è vero, perché, fermo restando che è meglio vietare almeno l’eterologa, fermo restando questo dato, come dire, quasi puerile in termini quantitativi perché si può presumere che in termini quantitativi questo riduca (forse) il numero di fecondazioni artificiali che si fanno; tuttavia rimane vero che la fecondazione artificiale che si fa a norma di legge in Italia con la fecondazione artificiale omologa comporta una perdita (dicono alcuni), la morte (dicono altri), la soppressione accettata deliberatamente (dicono altri ancora) della vita umana concepita di molti embrioni. Molti embrioni vengono consapevolmente sacrificati facendo le tecniche di fecondazione artificiale!!!
Allora tutto questo discorso – uno potrebbe dire “ma sapere questo non cambia il quadro politico… poi soprattutto detto in queste ore che c’è un quadro confuso… molto problematico…”, ma qui non si tratta di pretendere sic et simpliciter con un po’ anche di faciloneria, di cambiare le cose che non si possono cambiare, qui si tratta di rendere innanzitutto testimonianza (…) prudente, forse in parte opinabile perché poi c’è anche nella valutazione dsei testi di legge, sopratutto delle proposte di legge non ancora approvate, un certo grado di opinabilità; quindi dobbiamo anche dire che bisogna avere una granitica certezza sui principi, poi nella loro applicazione giuridica c’è sempre anche un certo grado di opinabilità derivante dalla complessità tecnica del diritto che va interpretato, che va applicato. Quindi, fatta salva anche questa quota di opinabilità nell’interpretazione di alcuni aspetti normativi, è chiaro che ad esempio la discussione sulla legge in merito alle dichiarazioni anticipate di trattamento è una discussione totalmente aperta all’interno del più sano orientamento cattolico. Perché aperta? Perché vi sono fondati dubbi che quel progetto di legge, che ancora non è stato approvato definitivamente dal Parlamento italiano, contenga degli squarci, delle feritoie, delle fessure che permetteranno di peggiorare il quadro giuridico attuale in senso eutanasico.
Ovviamente, su questo poi va riconosciuta una certa qual complessità interpretativa, ma sarebbe veramente inaccettabile qualunque tentativo di soffocare questo dibattito interno alla migliore tradizione della bioetica cattolica italiana, che mette in luce elementi inquietanti nella proposta normativa che riguarda le dichiarazioni anticipate di trattamento. Quindi, nessuno si permetta, si arroghi il diritto, di intimare a chicchessia di dover sostenere queste proposte, questi disegni di legge simili, anche perché, tra l’altro, esiste una nutrita letteratura bioetica della migliore tradizione cattolica che ha sempre affermato di non favorire il testamento biologico o di non favorire strumenti che ne siano – seppure sotto specie e sotto denominazioni diverse – la medesima attuazione. Dichiarazioni anticipate di trattamento e testamento biologico sono infatti due modi diversi di definire uno strumento sostanzialmente identico. Allora andiamo verso una conclusione della nostra chiacchierata , anche per lasciare spazio a qualche telefonata.
Le notizie che i mezzi di comunicazione talvolta ci lanciano possono essere dei segnali interessanti di un ripensamento dell’opinione pubblica o delle forze politiche o di personaggi importanti del mondo della comunicazione sul fronte della vita umana. Quindi, abbiamo avuto in queste settimane un provvedimento, una sentenza a livello dell’ Unione Europea, contro la brevettabilità di ricerche scientifiche, di scoperte scientifiche ottenute con embrioni umani, con il sacrificio di embrioni umani (e questo è un fatto positivo); abbiamo visto e sentito l’amico Giuliano Ferrara – direttore de “Il Foglio” – schierarsi pubblicamente, nella sua trasmissione televisiva, contro l’aborto procurato, e questo è un fatto positivo; abbiamo sentito anche recentemente una cantante come Laura Pausini dire pubblicamente: “No, io l’aborto procurato non lo farò mai perchè è una cosa che non si deve fare”. Questi segnali sono importanti, sono da valorizzare, però attenzione a non avere una visione obliterata della realtà, cioè parziale, perché dobbiamo portare questi segnali a confrontarci con la verità tutta intera.
Quindi, la sentenza della Corte Europea non impedisce la sperimentazione sugli embrioni, quindi non passiamo un messaggio che sia troppo ottimistico; la posizione di Giuliano Ferrara è importantissima, ma si accompagna a un errore concettuale quando non vuole mettere in discussione la legge che permette l’aborto in Italia. Non si può essere antiabortisti ed essere a favore della 194, anche se poi Ferrara parlandone rivela che in realtà questo è più un atteggiamento tattico che non una posizione di principio, e allora a questo punto lo si può condividere. E così pure è importante dire “io non farò mai quest’azione illecita”, ma è importante anche capire che non si tratta solo di una posizione soggettiva sotto il profilo della coscienza individuale, ma che deve diventare una norma avente valore erga omnes per tutta la collettività, perché è la tutela e la protezione di un bene oggettivo come quello della vita innocente che non può essere affidato alla sensibilità della coscienza individuale.
Bene. Abbiamo capito insomma, cari ascoltatori, che non dobbiamo imboccare scorciatoie che in nome del male minore ci facciano diventare cooperatori di leggi ingiuste, di consigli ingiusti alle persone, di soluzioni compromissorie nelle quali ci illudiamo di salvare capre e cavoli, magari facendo qualcosa di sbagliato, di cattivo, ma un po’ meno cattivo e sbagliato di un’altra azione che presenta aspetti ancora più problematici. Bene, lasciamo ora spazio alle vostre domande in argomento con quanto abbiamo appena detto.
Domande degli ascoltatori
D.- Mi chiamo Alessandra e telefono da Milano. Volevo dire: “Come possiamo opporci a questa marea…. È come un’onda che ci sommerge… a volte si teme di non riuscire ad opporsi perché si infiltra nelle menti, è proprio una cosa tremenda, ecco …
R.- Grazie. Capisco perfettamente il sentimento anche psicologico alle volte come di soccombere di fronte a una marea montante che è resa ancora più impressionante, da un lato dal fatto che c’è una insensibilità morale, una leggerezza, una superficialità, una ignoranza anche proprio crassa, in questa materia da parte della società in cui viviamo; della quale però alle volte, ecco io stesso mi sento un po’ responsabile e mi chiedo quanto di questo disastro etico che si accompagna alla società in cui viviamo non dipende da ciascuno di noi, non solo non tanto per l’incoerenza di vita… per i difetti che abbiamo che in qualche modo sono sempre stati presenti nella vita della chiesa, nel fatto che la chiesa è la comunità dei peccatori alla fine; ma anche nella paura, nella codardia, nella confusione, nell’assenza di amore alla dottrina della chiesa, alla dottrina morale che noi manifestiamo; quanto noi abbiamo sulla coscienza il disorientamento di tante persone che non sono cattive, ma che semplicemente non sanno, non sono state nemmeno mai avvertite che quello che stanno facendo, che vogliono fare, è un male e che magari – avvertite con carità – possono anche cambiare la loro determinazione. Quindi, questa è la prima cosa: vedere in questo apostolato della verità così ingrato una grande opportunità di fare il bene. Certo, l’elemento più scoraggiante alle volte è accorgersi che queste incomprensioni, che sconfinano alle volte nell’ostilità, non vengono dall’esterno, ma dall’interno del mondo cattolico, come dicevo prima da bioeticista posso testimoniare, posso documentare, anche questo smarrimento talvolta che ci colpisce nel vedere che la confusione è dentro le mura, non è fuori delle mura, e che talvolta si viene anche ripresi, si viene in qualche modo perseguitati se si resta aggrappati, non al nostro ego, alla nostra supponenza personale, ma alla grandezza di una dottrina che certamente ci sovrasta, è più importante di noi, non è nelle nostre possibilità cambiarla. Purtroppo gli interessi politici, le ambizioni personali sono delle tentazioni terribili - che Tolkien ha rappresentato bene con la metafora dell’anello - e queste ambizioni alle volte poi fanno usare in maniera strumentale della falsa dottrina per diffondere l’errore. Però noi non dobbiamo arrenderci, dobbiamo essere sereni e stare saldi nella consapevolezza che questa non è una battaglia nostra, ma che facciamo a maggior gloria di Dio.
D.- Io mi chiamo Anna e telefono da Torino. In parte lei ha già risposto al cruccio che volevo esporle. Perché purtroppo ecco io essendo un sessuologo clinico (?) cattolico, da trent’anni io trovo molto duro lavorare, però il problema è che il grosso cruccio è correlato al fatto che quotidianamente io incontro coppie, incontro persone che sono veramente disinformate perché probabilmente, lei lo sa, che il dio denaro conviene a qualcuno, però quante volte io facendo un’analisi spiego che cos’è e perché non sono d’accordo sulla fecondazione perché professionalmente eticamente io penso di poter esporre il mio credo; quando parlo di contraccezione è peggio ancora…perché quando dico: “Lei ha già subito aborti spontanei o provocati?” “No, mai, niente” “E qual è il suo tipo di contraccezione?” “Ah, io uso la spirale da 20 anni” allora io comincio a dire: “Allora contiamo in tutti i mesi di questi 20 anni quanti aborti ha fatto” , lo sa che c’è gente che si mette a piangere? Perché è veramente vergognoso da parte nostra, a volte io chiedo perché le persone – anche se non sono cattoliche - perché non spiegano alla donna che si sta distruggendo, non solo dal punto di vista etico e morale, ma anche dal punto di vista fisico? Perché comunque trattare degli organi come fossero carta straccia… poi vediamo le coppie di 35 anni che vanno a fare fecondazioni su fecondazioni perché hanno sulle spalle 10 anni di estroprogestinici… 10 anni di spirale… sinceramente sono coppie che mi fanno pena, ma nessuno le ha avvisate prima, ecco… però lei nella sua risposta di prima ha già sottolineato questo grosso problema, che probabilmente è la nostra categoria che sbaglia.
R.- Grazie perché la telefonata è interessantissima e anche molto confortante perché dimostra a tutti gli ascoltatori che ci sono dei professionisti che riescono a coniugare in modo molto naturale la professionalità con la coscienza retta e lei lo fa e questa testimonianza è grande. Però la cosa più forte è proprio la testimonianza del valore della verità e del valore di conversione della verità perché tante volte la coscienza è una coscienza malformata, è una coscienza ignara, e questo dipende anche da una concezione della pastorale deforme, distorta, obbrobriosa, nel senso che talvolta si ritiene che pastoralità si coniughi con menzogna, cioè con il non dire come stanno le cose perché sennò poi i fedeli hanno dei malesseri di coscienza, hanno dei rimorsi, come se il rimorso fosse una maledizione… il rimorso è una benedizione. Noi dobbiamo invocare di conservare una coscienza che abbia la capacità di rimordere quando facciamo qualcosa di male, per cui ci vuole tanta serenità e anche tanto coraggio – purtroppo, devo dire, oggi - nel testimoniare la verità tutta intera serenamente … non cambierò il mondo, non cambierò le leggi, non entrerò in Parlamento, non diventerò presidente di qualche organismo cattolico che conta… non importa, non sono stato messo in questo mondo per questo scopo, per questo obiettivo…. ci mancherebbe! Siamo stati messi in questa vita per amare ed essere amati, accogliere ed essere accolti, nella verità. Quindi è questa missione quella che ci deve caratterizzare senza inseguire facili consensi; sappiamo che i facili consensi si accompagnano spesso alla menzogna.
D.- Sono Michela da Bergamo. Io ho un grosso conflitto. Essendo una persona che lavora nel campo sanitario mi sono trovata in maniera concreta in quest’ultimo mese a lavorare con queste donne che accedono alla fecondazione artificiale e di conseguenza è venuto fuori che io sono un’obiettrice e mi sto chiedendo proprio come sanitaria che cosa posso fare, nel senso: vado via da questo posto, intendo dire, perché viene comunque – come diceva la sessuologa forse in maniera corretta - dal punto di vista sanitario viene comunque esposta la legge 40 ognuno a proprio piacimento e quindi, giustamente, chi fa quel lavoro spinge sul fatto di farlo e io mi ritrovo comunque di mezzo perché, essendo comunque un’operatrice, mi trovo proprio in una posizione per cui potrei fare qualcosa in senso migliorativo nel senso di esporre la mia obiezione davanti alla donna, oppure questa cosa potrebbe non essermi concessa e allora di fronte a questo bivio dovrei fare una scelta. Fermo restando che come obiettrice devo – purtroppo (fra virgolette) - comunque garantire assistenza. Io non sono direttamente implicata nella procedura, ma nell’assistenza. E’ una domanda che mi sto facendo… non so se lei può darmi un consiglio.
R.- Molto volentieri, sulla base delle informazioni che lei mi ha dato. Nell’ordine. Intanto è molto positivo che ci si ponga interrogativi morali di questo genere, quindi teniamo deste queste remore di carattere morale e non adagiamoci in atteggiamenti autoassolutori che talvolta ci provengono anche dall’interno del mondo cattolico, e magari qualche volta (Dio non voglia!) anche dagli stessi confessori che - magari per mettere tranquilla la coscienza - dicono: “Non ti preoccupare!” Invece di queste cose bisogna preoccuparsi, eccome! Lei ha ragione Michela, perché in sintesi il succo è questo. Si tratta di una pratica – quella della fecondazione artificiale - che ha numerose ragioni di illiceità morale che non stiamo a ripetere per l’ennesima volta perché di questo lei è già ultraconvinta. A questo punto ci troviamo – 2° elemento - in una situazione agevole perché la legge permette di fare obiezione di coscienza e ho capito che lei ha fatto questo atto. Quindi benissimo! Terzo. L’obiezione va difesa un po’ con i denti perché bisogna cercare in tutti i modi di ottenere di non cooperare,né in modo formale, né in modo materiale a queste tecniche; quindi direi senz’altro nulla a che vedere con tutti i passaggi e le procedure (mi pare che anche sotto questo profilo lei ci tranquillizzi che questo le viene consentito). Qualche remora è che c’è una qualche forma di contatto con le persone interessate alla procedura. Allora io devo dire come regola generale che l’indicazione a mio modo da seguire è di dare priorità all’obiezione rispetto al possibile bene sperato che si potrebbe fare rimanendo nella procedura. Questo lo dico sempre anche riferito alla presenza nei consultori e in generale negli ambienti dove si processa (nel senso dove si segue la procedura) per l’applicazione della 194. Quindi la tesi secondo la quale è meglio restare dentro perchè restando dentro si può fare dissuasione, è una nobile aspirazione che però si scontra con il fatto che restare dentro implica anche cooperare alla realizzazione ( nel caso dell’aborto all’aborto, nel caso della fecondazione artificiale alla fecondazione artificiale). Quindi, tutto quello che implica una qualche forma di coinvolgimento deve essere evitato. Se poi, senza che questo accada, si ha occasione d’incrociare, d’incontrare, delle donne che si stanno avviando alla fecondazione artificiale…bè questo potrà essere anche un modo, nella maniera che uno in coscienza ritiene migliore, di fare opera di dissuasione.
D.- Sono Evelin dalla provincia di Firenze. Io sono contrarissima alla fecondazione artificiale pur essendo stata lontana dalla fede per anni. Volevo dire: come mai però si promuove così poco la cultura dell’adozione? (…)
R.- Sì, mi sembra sempre opportuna anche quest’apertura al tema della paternità e maternità diversa, ma non meno importante né meno vera della paternità e maternità biologica. Lei ha già anche risposto da sola al fatto che è importante che questa apertura all’adozione non sia vissuta in chiave egoistica, cioè come acquisto in qualche modo di un figlio che deve servire a porre fine alle sofferenze, al dispiacere di non riuscire (è una sofferenza reale, certamente!) a non riuscire ad avere un figlio per via naturale. Quindi è chiaro che è un equilibrio anche delicato della coscienza, che si può comunque perseguire. Quindi l’adozione è certamente una delle strade (io direi non l’unica) con la quale si può dare una risposta alle coppie che desiderano avere figli e che purtroppo non riescono a soddisfare in modo lecito questo desiderio.
Bene, cari ascoltatori, siamo giunti al termine della nostra trasmissione mensile. Anche oggi abbiamo ascoltato tante cose interessanti dalle vostre telefonate, tante cose anche avreste voluto dire ma speriamo che sarete più fortunati nelle prossime occasioni; un ringraziamento a tutti gli ascoltatori, un saluto e a risentirci – a Dio piacendo - alla prossima puntata. Grazie e buon proseguimento con i programmi di Radio Maria.
(trascrizione dalla registrazione, non rivista dall’autore)
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