lunedì 19 novembre 2012


“Coco” che gira il mondo e insegna ad accettarsi per come si è

18/11/2012
http://www.lastampa.it
Christine “Coco” Roschaert è è attualmente responsabile del Progetto Nepalese per i sordo-ciechi  
La straordinaria storia di una donna
che è stata capace di superare 
le limitazioni e aiutare gli altri 
ad uscire dall’isolamento
Eccomi piombata in un mondo diverso dal mio, io, normale, in un posto dove ci sono solo sordi.  
La prima sensazione che ho è di pace.  
Oggi a Torino, c’è il seminario nazionale con Christine “Coco” Roschaert, arrivata apposta dal Canada per parlare di sordo-ciecità. 
Dopo il rombare delle macchine, entrare in questo cortile pieno di persone silenziose, fa effetto.  
Per parlarsi, gli altri “segnano”, cioè muovono le mani e io mi rendo conto che non so come farmi capire. 
Non so come chiedere se devo mettermi in coda per entrare in sala e quando provo a farmi leggere le labbra non so neanche se mi hanno capito, perché sembrano un po’ sorpresi e mi fanno delle domande a in Lingua dei Segni, lasciandomi con l’espressione di una mucca davanti a un’equazione. 
Qui quella diversa e chiusa in un uovo, oggi sono io.  
È una sensazione strana.  
Come essere all’estero in un paese dove nessuno ti capisce.  
Tiro fuori il tesserino su cui c’è scritto ” giornalista”, scrivo su un foglio che sono qui per raccontare cosa succede ed eccomi catapultata in prima fila, proprio sotto il palco, nella zona riservata ai sordo-ciechi. 
Di fianco a me c’è un uomo elegante. Ha le scarpe da ginnastica in vernice nera firmate, un paio di occhiali a specchio all’ultima moda che pendono dal maglioncino di cachemire e barba e basette sottili rifilati perfettamente. Gli occhi però sono fissi.  
Di fianco a lui c’è una ragazza piena di ricci rossi. Gli tiene la mano e la muove velocissima in su e in giù, la avvicina e batte sul mento e le sue unghie verde metallizzato balenano mentre arriccia le dita e le fa danzare nell’aria.  
Come l’uomo elegante, intorno a me ci sono decine di coppie che gesticolano tenendosi per mano. 
Sul palco c’è lei, Coco. A un tratto il pavimento trema di centinaia di piedi che tamburellano per terra: applaudono la storia di ribellione di questa ragazza canadese allegra e sorridente. 
Racconta che a otto anni, prima di perdere progressivamente la vista, le hanno dato un libro portato a scuola da un volontario di un gruppo per ciechi e ipovedenti. Nel libro si diceva che un cieco non avrebbe mai potuto fare sport, viaggiare, guidare la macchina, fare tutte le cose normali che gli altri danno per scontate. Decisamente non la vita che si era immaginata. Né quella che aveva intenzione di condurre. Non poteva accettare di essere diversa. 
Persino l’università Gallaudet, riservata ai sordi, con i suoi 2000 studenti, per lei era un incubo di solitudine. Faceva segno di si con la testa, ma capiva una sola parola per frase: lei, cieca completa da un occhio e con un piccolo tunnel di luce nell’altro, non poteva vedere i gesti degli altri in Lingua dei Segni.  
È una storia di riconoscimento della propria identità, quella di Coco che fino a quel momento aveva rifiutato il suo destino di cecità: è stato solo quando ha accettato di essere diversa dagli altri che si è iscritta ad una scuola per ciechi dove insegnavano a cucinare ed ha scoperto che poteva usare la Lingua dei Segni tattile. È così che è uscita dall’isolamento.  
Ci ha messo sei settimane di training intensivo, ma alla fine era in grado di comunicare. I suoi compagni di università, vedendola usare quella lingua diversa hanno finalmente capito. Continuavano a chiederle «Perché non ce l’hai detto prima che non vedevi?» Avevano pensato solo che fosse strana. Che non le interessasse quello che dicevano.  
Il suo piccolo universo, da quel momento è cambiato. Improvvisamente era piena di amici. 
Si è laureata in legge e ha cominciato a cercare lavoro.  
Voleva girare il mondo e nei curriculum ha detto apertamente chi era, quali limitazioni aveva e cosa voleva fare: aiutare quelli come lei. Come una magia, tutte le porte si sono aperte: da allora ha girato 45 paesi e in ognuno ha portato progetti di educazione e di speranza.  
E’ stata in Nigeria e racconta di aver incontrato genitori a cui era stato detto che sarebbe stato meglio lasciar morire il figlio nato sordo-cieco. Genitori che piangono a vederla insegnare, a sentire che è stata all’università e la ringraziano per avergli fatto capire che quel bambino che non avevano voluto abbandonare, un futuro poteva averlo. 
Ora vive in Nepal, perché è lì che c’è più bisogno di aiuto. 
«E’ come uno che sa di avere solo più un anno di vita: io so che la mia vista andrà via completamente e voglio vivere, viaggiare, vedere tutto quello che posso prima che il tunnel si chiuda». 
Quando viaggia, si mette una spilla sul petto: piatta, nera, a grandi caratteri gialli, dice che è sorda e ipovedente. «Così quando vado in giro o prendo l’aereo, tutti sanno con cosa hanno a che fare e mi aiutano a salire, a sedermi, a sistemare le valige… Non pensano che sia ubriaca se barcollo!»  
Quando è all’estero e ha bisogno di dialogare con qualcuno che sa l’inglese, tira fuori dalla borsa un pennarello, così se le devono dire qualcosa glie lo scrivono grande, spesso e nero, e lei lo può vedere.  
Fa ridere tutti quando racconta che i bambini in Brasile la prendono in giro, perché nella loro lingua il suo nome vuol dire “cacca”. O quando mostra allegra il suo bastone bianco e rosso, con la luce e il campanello, «proprio come le biciclette». 
Sono due ore che è sul palco e sta tenendo l’uditorio attento, li fa sorridere e applaudire, dialoga con loro facendo domande come «Ditemi il nome di una persona sordo-cieca famosa».  
Un traduttore le tocca con un dito la schiena per farle capire le risposte del pubblico. 
«Vi invito a spiegare alle persone la vostra realtà. Fatelo, anche con i sordi. Dovete spiegargli chi siete, perché loro credono che i sordo-ciechi non possano cucinare, fare sport, viaggiare, guidare la macchina. La sordo-cecità può non essere completa, ci sono tanti modi di esserlo e voi dovete spiegare chi siete e che potete avere una vita normale». 
«Moltissime sono le persone sordo-cieche che non vengono educate, che non sono scolarizzate. Probabilmente perché sembra difficile insegnargli. Perciò restano a casa e si isolano. Invece, un bambino, anche se è piccolo, può imparare almeno dieci segni all’anno e in poco tempo cavarsela in un mucchio di situazioni e anche studiare».  
Ci sono più di cinquecento persone ad ascoltarla e quando applaudono battendo i piedi, sembra vengano giù le pareti. 
«Io posso segnare le lettere per farmi capire dagli udenti e so che così posso farmi capire anche in altri paesi del mondo. Ho parlato con migliaia di persone. Ma quando perderò la vista non potrò più parlare da sola con gli udenti, per questo bisogna accettare la propria identità e sapere che servirà un traduttore. Ma non bisogna rimanere da soli.  
Noi abbiamo un sacco di aiuti in occidente e siamo molto fortunati perché nel terzo mondo nessuno è attrezzato o ha la possibilità di fare tutto come possiamo fare noi. Non isolatevi» 
Si è fatto tardi, devo tornare al giornale. All’uscita guardo il libro degli ospiti. Pagine e pagine di firme. Di fianco ai nomi leggo Bari, Romania, Ancona, Zurigo, Palermo, Bergamo: sono arrivati da ovunque.  
Lei, Coco, ha lasciato un messaggio anche qui. Dice: “May today be your key to open a bright future” – possa oggi essere la chiave per aprirvi un futuro luminoso. 
Helen Keller, scrittrice, attivista e insegnante statunitense sordo-cieca, autrice del libro da cui è tratto il film Anna dei miracoli diceva: «Noi tutti, vedenti e non vedenti, ci differenziamo gli uni dagli altri non per i nostri sensi, ma nell’uso che ne facciamo, nell’immaginazione e nel coraggio con cui cerchiamo la conoscenza». 

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