martedì 13 novembre 2012


12 novembre, 2012
Ai giorni nostri è più che mai assodato che si consideri vita solo ciò che conviene. Basta pensare ad una goccia d’acqua trovata su Marte per far sì che tutti pensino che in quel pianeta ci sia presenza di vita; peccato che quando si parla di fecondazione il tutto venga considerato solo un grumo di cellule senza importanza.
In realtà, sappiamo che la vita comincia già dal concepimento. Ne sono testimonianza gli studi portati avanti da una branca della psicologia, definita “psicologia dello sviluppo”, la quale studia le varie età della vita, affermando proprio che “si vive prima di nascere”.
Ne ha voluto parlare Barbara Kay, co-autrice di Unworthy Creature: A Punjabi Daughter’s Memoir of Honour, pubblicato nel maggio 2011. La Kay si è soffermata attentamente sulla problematica della mancata informazione ai consultori in un editoriale pubblicato sul National Post .
La Kay approfitta di ciò per sottolineare anche che non esistono soltanto i pro-life e coloro che invece si dimostrano totalmente favorevoli all’aborto: esistono le vie di mezzo, i “tiepidi”. Eppure è tutta una questione di mentalità errata, poiché bisogna necessariamente affermare che un embrione è un bambino in attesa di formarsi. E poi, continua dicendo che “le chiacchiere stanno a zero: bisogna a questo punto, convincersi che è giusto uccidere questo omuncolo prima di arrivare ad una fase in cui la sua somiglianza con noi comincia a rodere troppo dolorosamente alla nostra coscienza per procedere con l’uccisione.”
C’è bisogno di un altro approccio, senza andare a cercare delle norme sul corpo della donna, “perché è alla sua mente che dobbiamo puntare”, continua ancora Barbara Kay. Con ciò ovviamente, si intende dire che dovremmo considerare l’applicazione di una serie di norme per garantire che, quando purtroppo avvengono aborti, essi si stiano almeno verificando alla luce di un consenso davvero informato. Ovviamente oggi non è così, ma si concorderà nel dire che c’è la necessità di informare coloro che decidono di abortire, in modo che sianopienamente consapevoli di ciò che stanno andando a fare.
L’ottimo editoriale del National Post, tra l’altro, evidenzia anche uno studio danese con il quale si è rilevato che il rischio di morte aumenta anche con l’aborto. Priscilla Coleman, della Bowling Green University, ha osservato che “i rischi di morte aumentano del 45%, del 114% e del 191% rispettivamente per il primo, il secondo e il terzo aborto, dopo aver controllato gli altri esiti riproduttivi e dopo la gravidanza in età … “. I soggetti di questo studio erano donne danesi, e già dal 1973 la Danimarca ha un registro nazionale degli aborti. Anche la Finlandia ha un registro nazionale dell’aborto, dove i medici sono tenuti per legge a registrare tutte le valutazioni d’impatto.
Come scrive ancora la Kay, “vi sono stati casi particolari in cui delle donne aventi difficoltà a decidere o meno di abortire hanno chiesto consiglio in varie cliniche”. Lei stessa ha inviato delle donne in consultori diversi, come fossero in avanscoperta. Ebbene, in tutti i casi è stato chiesto soltanto di compilare vari moduli, tergiversando sulla vera richiesta delle donne. Solo dopo aver insistitosi riusciva a parlare con un medico circa gli eventuali effetti collaterali che un aborto può provocare, e in alcuni casi i medici hanno anche mentito. In fondo, non vi è nessuna regola scritta sul consenso informato.
Occorre permettere alla donna di rifletterci davvero presentando tutte le informazioni attinenti, in modo che capisca la gravità del gesto che sta compiendo, e non soltanto sotto l’aspetto prettamente morale. Può essere considerato questo un grave affronto per le donne? La giornalista Barbara Kay non lo crede. E noi ci accodiamo.

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