domenica 11 novembre 2012


9 novembre, 2012
*psicologa e psicoterapeuta

Nella storia del pensiero occidentale fede e ragione sono state variamente definite come due modalità di conoscenza distinte, dotate di differenti proprietà, oggetti e caratteristiche. A seconda dei presupposti filosofici di partenza dei vari pensatori, esse sono state viste come istanze più o meno distanti; a volte sono state contrapposte e, altre volte, interpretate come qualcosa di conciliabile o complementare. In ogni caso, fede e ragione sono sempre state dipinte come facoltà umane caratterizzate da procedimenti e meccanismi mentali chiaramente differenziabili.
La razionalità pura si avvicina all’oggetto del conoscere attraverso le categorie spazio temporali e segue un metodo basato sull’osservazione empirica e sulla sperimentazione per prove ed errori, attraverso regole e procedure oggi condivise da una vasta comunità scientifica internazionale. Queste peculiarità ne rappresentano il punto di forza, poiché consentono una descrizione spassionata e scientifica delle cose naturali. Le medesime caratteristiche comportano, tuttavia, un importante limite, in quanto fanno sì che la “ragione pura”[1]possa intercettare in modo adeguato il solo mondo dei fenomeni naturali, risultando inadatta a cogliere la realtà ultima delle cose. Il filosofo Kant chiamò tale realtà noumeno, o cosa in sé. Affermò, poi, che esso non può essere toccato dai cinque sensi né dall’intelletto  poiché sensi ed intelletto, inevitabilmente, riportano l’esperienza entro schemi spazio-temporali adatti alla sola dimensione del visibile. La conoscenza per fede rientra, invece, in un ambito diverso, che il filosofo non considerò mai in contrapposizione alla ragione. Nella fede l’oggetto è avvicinato con modalità che vanno oltre il ragionamento puramente logico, coinvolgendo sentimento e intuizione.
Oggi, la neuroteologia sostanzia queste intuizioni ribadendo che il rapporto con il trascendente avviene secondo modalità cerebrali che coinvolgono aree diverse, laddove emozione e cognizione si integrano, mettendo da parte gli aspetti del conoscere più direttamente legati alla spazialità.Nella ricerca neurologica, dunque, la spiritualità appare inestricabilmente connessa a un modo di funzionamento cerebrale specifico e distinguibile dai meccanismi attraverso i quali il cervello conosce usualmente il mondo. Tale modalitàconsente l’emersione dell’esperienza del contatto con il trascendente.
La neuroscienza ci mostra, attraverso i metodi della visualizzazione del cervello in funzionamento, che durante la meditazione, la preghiera e, probabilmente, anche durante le esperienze di pre-morte[2], si attivano configurazioni neurali e meccanismi altamente specifici.
Secondo il neurologo Kevin Nelson[3], in particolare, la scoperta delle basi neurali dell’esperienza spirituale non dimostra, come in campo scettico si è sostenuto, la illusorietà di tale esperienza riducendola a “malfunzionamento”, ma ci offre una prospettiva interessante di integrazione, dalla quale guardare alla religiosità. Al pari della conoscenza logica, infatti, anche la fede passa attraverso il cervello dando alla persona sensazioni che sostanziano l’esperienza del credere. Nonostante i cervelli funzionino tutti secondo le medesime regole, la libertà umana fa sì che possiamo assumere punti di vista diversi riguardo a tali esperienze, delle quali, tuttavia, oggi riconosciamo il substrato biologico. Sia in campo di scienza che di fede, diverse persone hanno opinioni diverse sul senso delle cose, giuste o erronee che siano. Così, scrive Nelson, secondo i Cristiani gli evangelisti sono stati ispirati da Dio quando scrissero i Vangeli: oggi sappiamo che, per farlo, non utilizzarono niente di misterioso, ma parti del loro cervello. Al di là di questo dato, la scienza non può informarci sul senso delle loro intuizioni, poiché dobbiamo ammettere, prosegue il neurologo, che il cervello non riesce mai a dare pienamente conto di se stesso. Anche se noi sapessimo come si attiva ogni singola molecola durante un’esperienza di spiritualità, dunque, il senso del suo mistero sopravvivrebbe, lasciandoci liberi di esprimere una nostra risposta alla domanda di senso fondamentale.
Seguendo gli studi neuro teologici, si può affermare che, in qualche modo, “Dio è nel cervello[4], ma ciò non significa che Egli sia “tutto nel cervello”. Mi pare una distinzione fondamentale[5] e credo che, per onestà intellettuale, dobbiamo considerare erronea una sovrapposizione delle due affermazioni. A volte, tuttavia, taluni scettici utilizzano la neurologia come un verdetto scientifico negativo sulla fede[6], affermando che l’esperienza del trascendente è frutto di una illusione del cervello. Come abbiamo visto in precedenti articoli comparsi su questo sito, la questione non può essere risolta attraverso la scienza, poiché questa non riesce a occuparsi del senso ultimo dei fenomeni che descrive (o uscirebbe fuori dal suo ambito, che consiste, propriamente, nell’indicare come i fenomeni avvengano e non il loro perché). La neuroscienza ci dice che l’esperienza di Dio avviene attraverso un’attivazione cerebrale peculiare: ciò non significa che il trascendente sia “fabbricato” dal cervello, né sarebbe, d’altra parte, corretto affermare che nei neuroni si è trovata la prova dell’esistenza di Dio. Dobbiamo limitarci a interpretare tali dati per quello che sono, ovvero una conferma dell’intuizione filosofica che il senso di connessione con il trascendente rappresenti una facoltà distinguibile dal pensiero logico. Oggi, allora, attraverso la neuroteologia sappiamo che fede e ragione sono qualcosa di diverso, ma non di oppostodopotutto utilizzano ambedue il cervello per manifestarsi.
La spiritualità rappresenta per milioni di persone qualcosa di imprescindibile per dar senso alla vita. Ciò è accaduto in tutte le epoche della storia: il realismo dell’esperienza dell’oggetto di fede si appoggia su talune capacità di funzionamento cerebrale, di cui tutti in nuce disponiamo, che ci incoraggiano alla fede religiosa. Come scrive Begley, i  rituali religiosi riescono a facilitarel’attivazione di queste capacità, poiché tendono a focalizzare l’attenzione sullo spirito, bloccando le percezioni sensoriali, incluse quelle che la zona deputata all’orientamento utilizza per stabilire i confini dell’io. Ecco perché persino i non credenti si commuovono durante i riti religiosi. “Finché il nostro cervello avrà questa struttura”, dice Newberg, “Dio non andrà via”[7]. Per alcuni questa universale possibilità di fare esperienza del trascendente può esser vista come un “effetto collaterale” dell’evoluzione di altre abilità fondamentali per la sopravvivenza (quali la solidarietà e una disposizione speranzosa verso la vita), ma una tale interpretazione, come insegnano gli studiosi stessi, rappresenta una questione da affrontare fuori dal campo del dibattito esclusivamente scientifico. Possiamo liberamente ritenere che le attivazioni neurologiche coinvolte nell’esperienza spirituale siano una strana casualità, oppure scegliere di guardare ad esse come a un meccanismo straordinario, fatto apposta per allargare i nostri orizzonti e le nostre vedute della vita. Sono in molti, peraltro, a ritenere che determinati pattern di attivazione neurale vadano considerati come il “canale corporeo” attraverso il quale il divino comunica con l’umano.
Di certo c’è che l’esperienza del trascendente viene ricavata attraverso unprocedimento raffinato e complesso, che va oltre la pura logica, coinvolgendo il piano mentale, l’emotivo e il corporeo: ciò ci consente, allora, di dire qualcosa che la filosofia aveva sempre intuito, ovvero che la fede è una facoltàa sé stante, che comporta una partecipazione globale dell’essere umano allorché tenti di dare una risposta al mistero dell’esistere.
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Note

[1]. Come la definì Kant nella Critica della ragion pura
[2]. Esperienze da soggetti che, a causa di malattie o traumi, hanno sperimentato fisicamente una condizione vicina alla morte (con coma arresto cardiaco  o encefalogramma  piatto), senza tuttavia morire, avendo la sensazione di essere tornati indietro dalla morte alla vita. Tipicamente vengono riferite la sensazione di essere fuori dal corpo e di guardarlo dall’alto; possono essere presenti visioni, tra le quali la più frequente è quella di essere al limite di un tunnel da cui si è attratti.
[3]. Nelson, K. Can faith reside within brain? , Fox News 22.04.12
[4]. Newberg, D’Aquili, Dio nel cervello – la prova biologica della fede, Mondadori, Milano, 2002
[5]. Portata all’attenzione del mondo scientifico dal ricercatore Craig Aen Stockdale
[7]. Sharon Begley, La Repubblica, 31.01.01

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