lunedì 31 marzo 2014

Napolitano invita a riflettere sul fine-vita. Eccoci qui!, 28 marzo 2014, www.uccronline

Il presidente Napolitano ha sollecitato un «sereno e approfondito confronto di idee» sulle scelte di fine vita. Benissimo, raccogliamo questa sollecitazione e sottoponiamo alcune riflessioni.

Il sereno confronto di idee si potrebbe iniziare ricordando che le principali associazioni mediche internazionali sono contrarie all’eutanasia e al suicidio assistito, compreso il Comitato consultivo di etica della Francia, il cui ex presidente Didier Sicard ha criticato i quotidiani e «una lobby che passa il suo tempo a ricordare agli esseri umani che hanno diritti sul loro corpo, compreso il diritto di chiedere di morire, considerato alla stregua del diritto alla casa o a essere curati. Ma la morte, che pure attiene all’ordine di ciò che è più personale, non può essere un diritto. Il vero diritto è quello di essere curati, di non soffrire». In particolare, l’American Medical Association ritiene che il «suicidio assistito è fondamentalmente incompatibile con il ruolo del medico come guaritore, sarebbe difficile o impossibile da controllare e porrebbe seri rischi sociali».

Il dibattito potrebbe proseguire sottolineando che tale timore è confermato dagli studi più recenti. Il Journal of Medical Ethics ha infatti confermato che in Belgio, il primo e uno tra i pochi Paesi dove l’eutanasia è legalizzata, «un numero consistente di decessi», si legge, «non sono preceduti da una discussione con il paziente, nonostante la legislazione vigente lo richieda». In particolare, nell’81% dei casi i medici sospendo idratazione e alimentazione senza chiedere il permesso ai pazienti stessi.

Certamente è utile dibattere guardando a quanto accade laddove l’eutanasia è legale. Oltre al Belgio anche l’Olanda, dove proprio recentemente perfino il “padre dell’eutanasia”, cioè il dottor Boudewijn Chabot -che nel 1994 per primo fornì in Olanda un farmaco letale per il suicidio assistito a una sua paziente con problemi mentali- è arrivato ad affermare che «la legge sull’eutanasia in Olanda sta deragliando», dicendo di non sentirsi più a suo agio in questo Paese, che recentemente ha aperto l’eutanasia anche ai bambini malati, oltre a chi soffre di depressione o solitudine e -secondo recenti indicazioni- anche chi soffre di «disturbi della vista, dell’udito e della mobilità, cadute, confinamento a letto, affaticamento, stanchezza e perdita di fitness». D’altra parte in un’intervista al quotidiano olandese NRC Handelsblad lo psichiatra Gerty Casteelen ha giustificato così l’eutanasia di un uomo anziano: «E’ riuscito a convincermi che era impossibile per lui andare avanti. Era solo al mondo, non aveva mai avuto un partner. Ha avuto famiglia, ma lui non era in contatto con loro». Questo è bastato per accettare di ucciderlo.

E’ stato ricordato sul “The daily beast”, la legge olandese è entrata in vigore nel 2002 soltanto per chi viveva «sofferenze insopportabili e senza speranza», eppure il piano inclinato è stato travolgente, travolgendo anche coloro che non erano d’accordo e non avrebbero voluto avere a che fare con l’eutanasia. Sia in Belgio che in Olanda, dunque, viene confermato il timore di mons. Elio Sgreccia: «Quando si apre una porta, anche poco, si accetta l’idea che si spalanchi sempre di più», ha affermato. «È un’illusione pensare di poter limitare l’eutanasia o il suicidio assistito entro confini rigidi, controllando la pratica».

Dovremmo confrontarci anche con i timori delle associazioni di disabili, come la “Disability Rights Education and Defense Fund”: «Il suicidio assistito è una politica pericolosa», ha affermato, «in particolare per quelli di noi che vivono con disabilità e malattie serie. Prevediamo conseguenze sociali molto pericolose», come ad esempio «pressioni o coercizione da parte di familiari o altre persone» nei loro confronti. Marco Maltoni – medico palliativista e direttore dell’Unità cure palliative di Forlì- ha proprio spiegato che «in situazioni di inguaribilità la perdita di un significato della propria vita e la solitudine condizionano la più lucida autodeterminazione. In una “cultura dello scarto” c’è il rischio che emerga l’”obbligo volontario” a farsi da parte».

Ben Mattlin, giornalista affetto da una grave malattia neuromuscolare congenita, esprimendo il suo parere contrario all’introduzione del suicidio assistito in Massachusetts, ha scritto: «Sono un liberal, quindi dovrei sostenere il suicidio assistito, ma come paziente disabile non posso. Ho vissuto vicino alla morte da così tanto tempo che so bene quanto sia sottile la linea di confine tra la libera scelta e la coercizione, come sia facile che qualcuno, anche inavvertitamente, ti faccia sentire senza valore e senza speranza, così da esercitare una pressione, leggera ma decisa, perché tu sia “ragionevole”, per “sgravare gli altri dal peso”, per “lasciar perdere”». Parla di «un certo sguardo esausto negli occhi di un tuo caro, o il modo in cui infermieri o amici sospirano in tua presenza. Tutto questo può causare una pericolosa nuvola di depressione anche nel più ottimista, situazione che i medici potrebbero male interpretare poiché per loro risulta perfettamente logica. E per certi versi è razionale, data la scarsità di alternative. Se nessuno ti vuole alla festa perché dovresti restare? Chi sceglie il suicidio non lo fa in un ambiente neutrale. Siamo inesorabilmente condizionati dall’ambiente che ci circonda».

Queste sono solo alcune delle riflessioni che occorre fare, caro presidente Napolitano, ma dubitiamo che possano farle piacere ricordando come si è comportato con Eluana Englaro. Il dialogo dovrebbe comunque essere ispirato da una cultura che promuova la vita e che non consideri le persone malate come merce scaduta. Non vanno abbandonate alla solitudine o ad una sofferenza insopportabile, su di loro bisognerà investire tutte le risorse possibili perché non debbano uccidersi per disperazione.

La redazione

giovedì 27 marzo 2014

Belgio, in arrivo il reato di “sessismo”. Ma finirà in galera anche chi dice che i maschi sono sessisti?, 27 marzo 2014 di Redazione, www.tempi.it

Il parlamento belga renderà il “sessismo” un reato punibile fino a un anno di galera. Il disegno di legge, unico al mondo e pronto a essere approvato entro aprile dalla maggioranza di sinistra, definisce «sessismo» qualsiasi azione intesa «ad esprimere disprezzo nei confronti di qualcuno a causa del suo sesso» e «a considerarla come inferiore» o a «ridurre qualcuno alla sua dimensione sessuale».

“LA FEMME DE LA RUE”. Basterà dire a una donna “bella patata” e rivolgerle una fischiatina per finire in manette? Assolutamente sì. La legge fa parte delle proposte del ministro degli Interni e delle pari Opportunità belga, Joelle Milquet (foto sotto), che già aveva preannunciato l’arrivo della norma sul sessismo all’indomani della pubblicazione del film-denuncia La femme de la rue. Nel documentario, andato in onda nel 2012, la protagonista (una donna che cammina per le strade di Bruxelles) viene raggiunta da oltraggiosi apprezzamenti “sessuali” («bella topa» eccetera). Quale che sia la terribile emergenza da risolvere, secondo l’esperto di diritto nonché editorialista del Washington Post Eugene Volokh, «le capacità di censura della proposta di legge belga sono senza precedenti».

LIBRI ALL’INDICE. Secondo Volokh, le prime a finire nel mirino saranno le religioni. Solo il primo passo, avverte l’editorialista del Washington Post. Poi toccherà ai romanzi. «La legge ha anche il potenziale per decimare gli scaffali delle librerie e biblioteche». Tantissimi sono i libri che potrebbero dar luogo a procedimenti giudiziari. «Non occorre pensare ai soliti sospettati come E.L. James (autrice di Cinquanta sfumature di grigio, ndr) e Stephenie Meyer (inventrice della saga di Twilight, ndr)», spiega Volokh. L’editorialista del Washington Post non cita i classici, sarebbe troppo facile (Aristofane, per fare un esempio, con la commedia Le donne al Parlamento, è già dato per spacciato), ma i comunissimi romanzi che si trovano anche in edicola. «Praticamente ogni libro romantico è essenzialmente costituito da stereotipi sessisti».

MUSICA CENSURATA. Ma la legge oltre a colpire la letteratura metterà la museruola anche alla musica. Che fine faranno, si chiede Volokh, «i rapper che nelle loro canzoni chiamano le donne “femmine”, e i cui video-clip sono caratterizzati da donne in abiti succinti, “ridotte alla loro dimensione sessuale”»? Ma attenzione, prosegue Volokh, la legge è un’arma a doppio taglio: anche ai «gruppi di azione femministi sarebbe vietato raffigurare gli uomini in una luce sfavorevole, “riduzionistica”». E, colmo dei colmi, potrebbe rischiare la galera anche chi definirà gli uomini«sessisti».

PEGGIO DEL RAZZISMO? «Dire che il disegno di legge lascia a desiderare in questo caso è molto più di un eufemismo, è come dire che Gengis Khan sia stato coinvolto in qualche scaramuccia di poco conto», afferma Volokh. L’esperto di diritto sottolinea un altro fatto: «Non vi è una protezione simile nel diritto belga per nessun’altra discriminazione». «Nemmeno  il razzismo è di per sé punibile come concetto», spiega. «Solo specifiche manifestazioni del razzismo sono proibite, come ad esempio l’incitamento all’odio razziale e alla violenza». In Belgio, prosegue Volokh, «una disposizione identica a quella sul razzismo esiste anche per il sesso e il genere», ma il Parlamento, dopo la denuncia partita da La femme de la rue ha deciso che non basta. «Come tale, la nuova legge introdurrà una forma di protezione preferenziale solo per il discorso sessista». Ma, si domanda Volokh, «cosa accadrebbe se anche le altre venti categorie discriminatorie dovessero farsi avanti»? In quel caso sarebbe meglio che il Parlamento «fornisse ai cittadini una breve lista con le cose di cui si può ancora parlare».

Svezia, aborto: ostetrica cristiana fa obiezione di coscienza. Licenziata, ricorre al Consiglio d’Europa, 27 marzo 2014, di Benedetta Frigerio, www.tempi.it

Ellinor Grimmark, ostetrica svedese di 37 anni, è stata licenziata l’anno scorso dall’ospedale dove lavorava a Eksjö per aver fatto obiezione di coscienza ed essersi rifiutata di praticare aborti. Cercando lavoro in altre strutture, Grimmark si è vista chiudere diverse porte in faccia, nonostante nel sistema sanitario ci sia carenza di ostetriche. La donna si è allora rivolta all’Ombudsman della Svezia e al Consiglio d’Europa per ottenere giustizia. La Svezia, infatti, non prevede esplicitamente l’obiezione di coscienza ma nel 2011 ha firmato una risoluzione al Consiglio d’Europa in cui si impegna a garantirla.

«PER TE NON C’È POSTO». Il caso Grimmark ha destato l’attenzione dei media svedesi. Al quotidiano Aftonbladet la donna ha spiegato: «Come ostetrica voglio difendere e salvare a ogni costo la vita. Gli operatori sanitari in Svezia dovrebbero forse essere obbligati a prendere parte a procedure che eliminano la vita, al suo stadio iniziale o finale? Qualcuno deve mettersi dalla parte dei piccoli, qualcuno deve combattere per il loro diritto alla vita».
Intervistata da Morning Star News l’ostetrica, che non vuole praticare aborti in quanto cristiana, ha spiegato così la sua delusione: «Al imo vecchio ospedale e nei miei colloqui successivi mi dicevano: “Per quelli che hanno le tue opinioni non c’è posto nella nostra clinica».

«VOGLIO FAR NASCERE I BAMBINI». Nei dibattiti televisivi sul suo caso, molti si sono chiesti perché Grimmark abbia scelto il suo lavoro nonostante le scarse tutele offerte dalla Svezia. Il suo avvocato, Ruth Nordstrom, ha sempre risposto che lei «come ostetrica vuole aiutare i bambini a nascere e non a morire». Durante una trasmissione, Catharina Zatterstrom, dell’Associazione ostetriche, ha affermato che lei stessa quando era incinta era stata costretta a recarsi in una città lontana per trovare un’ostetrica obiettrice, sentendosi più sicura con chi non operava aborti.

DIBATTITO APERTO. Ombudsman e Consiglio d’Europa non si sono ancora pronunciati sul caso. Intanto il parlamentare Maths Selander ha sottolineato come mai il caso Grimmark abbia destato tanto scalpore: «Viviamo in una cultura dove abbiamo reso superficiale ogni quesito etico, tanto che ora pensiamo sia normale che lo stato bypassi la coscienza delle persone, anche se si tratta di una questione di vita o di morte». La blogger svedese Mariola O’Brien, che si è ampiamente occupata del caso, ha scritto che «il silenzio che circonda normalmente la questione dell’aborto in Svezia è grande e potente».
La testimonianza dell’ostetrica sembra però aver riaperto una prospettiva nuova nel panorama di un paese in cui l’aborto, gratuito e disponibile anche alle minorenni senza consenso dei genitori dal 1975, ha raggiunto il tasso più alto fra le adolescenti d’Europa (22 ogni 1000).

@frigeriobenedet

Aborto casalingo, ora c'è anche nel Lazio di Tommaso Scandroglio, 27-03-2014, www.lanuovabq.it

E quattro. Dopo Emilia Romagna, Umbria e Puglia ora anche il Lazio si appresta a somministrare la RU486 in regime di day hospital. Lo ha deciso il governatore Nicola Zingaretti affermando che si tratta di “un atto di profondo rispetto per le donne”. Come è già avvenuto nelle altre tre regioni, la somministrazione del preparato abortivo deve rispettare delle condizioni: preospedalizzazione (a meno che non si voglia dare la pillola in mezzo ad una strada), controllo degli esami e visite ad hoc (per verificare almeno che la donna sia incinta) ed entro 21 giorni è prevista una visita ambulatoriale finale. Il male ha le sue regole.

Molti commentatori – e comprensibilmente – si sono stracciati le vesti perché il ricovero ordinario è illegittimo, dato che la legge 194 prevede che tutto l’iter abortivo avvenga all’interno della struttura ospedaliera. Lo ha ripetuto in tre interventi distinti anche il Consiglio Superiore della Sanità. Ed invece ora la donna potrà, dopo aver ingerito la pillola mortifera con un bicchiere d’acqua, far subito ritorno a casa e non rimanere degente – perlomeno – tre giorni in ospedale.

C’è da dire che non ci volevano le delibere delle regioni per arrivare a questo, perché anche laddove le amministrazioni non si sono attivate per rendere l’aborto chimico ancor più facile è sufficiente che la donna firmi le dimissioni volontarie e non esiste medico al mondo che possa trattenerla contro la sua volontà. Mezzuccio che da molto tempo è consigliato a Torino dal medico abortista Silvio Viale per le sue “pazienti”.

Ma davvero il day hospital contrasta con la legge 194? Possiamo dire che sicuramente è in antitesi con la lettera della legge, ma non con la sua ratio. Lo spirito della 194, il suo intimo DNA sta nel permettere alla donna di abortire sempre e comunque prima del 90° giorno e dopo questo termine con lievissime restrizioni. Il nocciolo duro di questa norma è il principio di autodeterminazione della donna che decide se tenere il figlio oppure no. Ora la Ru486 è figlia prediletta di questa prospettiva di assoluta autonomia della donna e il ricovero ordinario va in questa direzione, cioè risponde all’esigenza della stessa legge di spalancare il più possibile le porte all’aborto procurato. In questo senso contraddizione non c’è, ma solo conseguenza necessaria di quel principio libertario che vede la donna proprietaria del figlio che porta in grembo. In ospedale o a casa cosa cambia?

La vicenda laziale in buona sostanza sta solo a testimoniare che ingoiato il cammello poi è facilissimo ingoiare anche il moscerino. Accettata l’idea che è legittimo sopprimere il figlio, è inutile battagliare sulle modalità, più o meno corrette alla luce del diritto, per farlo. È partita già persa in partenza. L’unica strada è porre l’accetta alla base del tronco, cioè contestare in radice la 194 e non perdere tempo e risorse nel tentativo di sfrondare i suoi rami più alti.

Inoltre – pur comprendendo la buonissima fede di alcuni commentatori di questa vicenda in bilico tra il clinico e il giuridico – porre sul tavolo della contestazione solo l’argomento che attiene alla salute della donna, messa a rischio dall’uso di questa pillola, sarà certamente una verità scientifica oggettiva suffragata da molti studi, però per paradosso tale affermazione percorre la medesima strada che i pro-choice hanno tracciato per diffondere l’aborto nel nostro paese. L’accento che è stato posto per promuovere questa pratica fu ed è la tutela della salute della donna: che l’aborto si faccia in regime di totale sicurezza per la donna. Questo è stato il canovaccio usato dai teatranti dell’aborto pulito e privo di pericolo e rimodularsi su questa frequenza d’onda è esporsi al pericolo, in buona sostanza, di intonare lo stesso canto delle sirene abortive. In sintesi si usano gli stessi argomenti degli abortisti per combattere l’aborto.

Oltre a ciò la strategia pro-choice ha tutta la convenienza di spostare l’attenzione dalla vita del bambino alla salute della donna. Toccare dunque solo il tasto della salute della donna messa in pericolo dalla Ru486 fa dimenticare la vera vittima di questa nuova pratica abortiva: il figlio.

Londra, quando la sharia viene applicata nei tribunali di Stefano Magni, 27-03-2014

Silenziosamente e approfittando della distrazione generale per le crisi internazionali in corso, l’islam radicale ha fatto un grande passo avanti in Gran Bretagna. A dire il vero, sono gli inglesi che lo hanno fatto in sua vece. Infatti: la Law Society, l’ente che rappresenta i solicitor (avvocati indipendenti che introducono e preparano il processo), ha emesso le sue nuove linee guida, in cui vengono introdotti i principi della sharia (la legge coranica) in materia di eredità, quando il caso riguarda famiglie di religione musulmana. Quando e se i tribunali britannici dovessero accettare ufficialmente le nuove linee guida, si tratterebbe, in assoluto, del primo caso di recepimento della sharia da parte di un corpo giuridico occidentale. Infatti, sin dal 2008, la magistratura britannica tollerava, ma non faceva propria, la presenza di corti islamiche che potevano svolgere un compito arbitrale in casi di diritto familiare e patrimoniale riguardanti cittadini britannici di fede musulmana. In questo caso, invece, saranno i solicitor britannici a dover recepire e applicare norme islamiche. Le corti islamiche già in funzione sarebbero circa 85. Il condizionale è d’obbligo, perché solo una minoranza di esse è ufficialmente riconosciuta dalle autorità, mentre in molti altri casi, tribunali informali funzionano già da prima del 2008 nelle moschee e all’interno di assemblee familiari e di clan. Le corti riconosciute, sono autorizzate dall’Arbitration Act, che permette loro di mediare (non giudicare) in casi di dispute economiche, violenza domestica, dispute familiari e liti sull’eredità. Tribunali islamici veri e propri non ci sono, non sono legali, ma controllare tutte queste corti improvvisate, in quartieri in cui la stragrande maggioranza è musulmana, è un’impresa impossibile. E infatti avvengono già episodi degni dei regimi saudita e iraniano: nel novembre del 2013, una ronda di islamici radicali, in un quartiere orientale della capitale, sequestrava alcolici e aggrediva i “miscredenti” per implementare la sharia, a mo’ di polizia religiosa. Ovviamente i criminali in questione sono stati arrestati per vandalismi e aggressione. Ma altre forme di sharia, più edulcorate, sono entrate a far parte del sistema britannico, come gli “islamic bond”, titoli che implementano l’interesse 0 secondo la legge coranica, per incoraggiare gli investitori musulmani. L’ultima mossa, quella delle linee guida per i solicitor, sarà dunque il recepimento di una realtà che già esiste sul campo, da anni, in base al classico argomento del “se lo fanno in tanti, vuol dire che è legale”, la versione democratica della legge del più forte. Perché cosa devono tener conto gli avvocati indipendenti britannici, d’ora in avanti, se il nuovo regolamento sarà approvato dalle corti? Dovranno accettare che l’eredità che spetta a una donna corrisponda alla metà rispetto a quella che spetta a un uomo. Dovranno cancellare una serie di formule legali e parole che non rispettano la tradizione islamica. I “bambini”, per esempio, non saranno menzionati, perché quelli "illegittimi", compresi i figli legalmente adottati, non avranno diritto ad alcuna eredità (e noi che ci preoccupavamo per la parificazione piena dei diritti dei figli naturali, nati al di fuori dal matrimonio…). Nel testamento dovrà essere certificata, da corti islamiche britanniche, la fede in Allah. Perché i non credenti saranno esclusi da eredità. I matrimoni contratti al di fuori della legge coranica, in chiesa o con rito civile, non saranno ritenuti validi, dunque si escluderà la vedova dall’eredità. Nei testamenti dei sudditi di religione musulmana, non conteranno più le persone nominate espressamente, ma i gradi di parentela. E si ammette la possibilità di uomini sposati più volte: dunque anche la poligamia, espulsa dalla porta del sistema legale britannico, rientra silenziosamente dalla finestra. Una moglie divorziata dal marito non sarà più sua erede: si dovrà dimostrare l’esistenza di un rapporto coniugale, nato da matrimonio islamico, fino alla data di morte del marito. Non si potrà più, neppure, fare donazioni ai figli di un erede defunto, perché ciò è vietato dalla sharia. Le femministe cosa dicono? La baronessa Caroline Cox, membro della Camera dei Lord, ha scritto editoriali di fuoco, in questi giorni. «È la negazione di tutto ciò per cui ci siamo battuti. Le suffragette (le prime femministe che ottennero il suffragio femminile, ndr) si rivolterebbero nella tomba». Ma al di là di questa singola protesta parlamentare britannica, il mondo femminista europeo sembra totalmente distratto. Chi ha condotto le battaglie per ottenere quote rosa nelle aziende e in parlamento, una legge ad hoc contro il “femminicidio” e promosso campagne contro la violenza sulle donne, potrebbe mai accettare che i diritti delle musulmane britanniche vengano di colpo dimezzati? Attendiamo e vediamo. Il femminismo è internazionale. Ci attendiamo una mobilitazione anche in Italia. Scommettiamo che vedremo poco o nulla? Una riforma simile, se dovesse affermarsi nella common law britannica, cambierebbe per sempre il volto della Gran Bretagna e specialmente delle sue comunità musulmane. Ora esiste un forte incentivo ad abbracciare l’islam, specie per i maschi. E, al contrario, sarà fortemente disincentivato l’abbandono della religione musulmana. Gli apostati britannici, non solo rischieranno la vita perché qualche zelante cercherà di ammazzarli (implementando la pena di morte per apostasia, riconosciuta solo dalla sharia), ma saranno penalizzati dalla legge, perché perderanno la loro eredità. Lo deve sapere chiunque cerchi di fuggire in Inghilterra da un regime islamico persecutore: a Londra non lo accoglierà più quella libertà che si aspettava di trovare, ma ritroverà, anche lì, i suoi stessi persecutori.

mercoledì 26 marzo 2014

Il North Dakota vieta l’aborto eugenetico dei bambini con la sindrome di Down, http://www.notizieprovita.it/

Il governatore repubblicano del North Dakota, Jack Dalrymple, ha spiegato di aver firmato perché «questa legge è un tentativo legittimo di porre delle domande»


sindrome di Down_aborto eugenetico_North DakotaIl North Dakota è il primo Stato americano a vietare l’aborto eugenetico di bambini con la sindrome di Down o con altre malattie. È la prima legge priva di compromessi da quando l’aborto è stato legalizzato negli Stati Uniti dagli anni Settanta.
LA LEGGE. Lo Stato americano è il quinto a vietare l’aborto in base al sesso. Una norma proibisce anche di abortire oltre le sei settimane o quando il battito cardiaco del bambino viene rilevato. La prima legge, che vieta l’aborto sulla base di anomalie genetiche o in base al sesso, risponde al fatto che 9 bambini su 10 a cui viene diagnosticata la sindrome di Down vengono abortiti e al problema dell’omicidio delle bambine, ormai diffuso anche in America soprattutto nelle comunità di immigrati cinesi e indiani. Una seconda norma vieta l’aborto appena il battito cardiaco è riscontrabile.
Con una terza norma si obbligano le cliniche che praticano gli aborti ad assumere quei medici che, fino ad oggi, venivano assoldati dall’esterno per compiere l’intervento. In questa maniera, dovendoli assumere, si metterà un freno allo fenomeno del nomadismo professionale dei medici abortisti.

È POSSIBILE. Il governatore del North Dakota, Jack Dalrymple, ha dichiarato all’Associated Press che le norme passate alle Camere hanno «educato me. Mi sono informato in merito come meglio potevo. La mia conclusione non deriva da una convinzione religiosa o legata a una questione privata». Dalrymple ha spiegato di aver voluto firmare perché, «anche se la probabilità di una tale misura di sopravvivere al giudizio della Corte saranno basse, questo disegno di legge è comunque un tentativo legittimo da parte del legislatore statale di porre delle domande sulla sentenza “Roe contro Wade”(quella sull’aborto,ndr)». Il governatore ha chiesto al legislatore di mettere da parte i soldi per un “fondo contenzioso” che permetterebbe al procuratore generale dello Stato di difendere il provvedimento contro le probabili cause che subirà, anche se, ha aggiunto «il denaro non è un problema».
Charmaine Yoest, presidente dell’Americans United for Life, ringraziando Bette Grande, il repubblicano che ha introdotto le norme in parlamento, ha sottolineato che «il governatore e i legislatori del North Dakota hanno dimostrato una grande umanità e coraggio nell’approvare queste norme». Costringendo tutti a vedere che legiferare in questo senso è ancora possibile.

di Benedetta Frigerio

lunedì 24 marzo 2014

Gb, la Sharia entra nel sistema legale A rischio l'eredità per le donne, 24.3.2014, http://www.tgcom24.mediaset.it/


Elaborate nuove linee guida per notai e avvocati: i testamenti potranno essere conformi ai dettami musulmani. Scoppia la polemica

Gb, la Sharia entra nel sistema legale A rischio l'eredità per le donne08:26 - Rivoluzione in Gran Bretagna. I testamenti potranno essere redatti secondo i dettami della Sharia, la legge islamica. Donne, non credenti e figli nati fuori dal matrimonio o adottati potranno essere esclusi dall'eredità. Sono state infatti elaborate nuove linee guida per notai e avvocati con l'obiettivo di redigere atti riconosciuti dai tribunali britannici ma che abbiano allo stesso tempo specifiche caratteristiche conformi alle regole musulmane.

Gb, la Sharia entra nel sistema legale A rischio l'eredità per le donne
La notizia ha fatto in poco tempo il giro del Regno Unito creando non poche polemiche. "Questi ultimi sviluppi sono molto preoccupanti, farebbero rivoltare le suffragette nella tomba", dichiara la baronessa Caroline Cox, membro della camera dei Lord impegnata in campagne per la protezione delle donne dalle discriminazioni a sfondo religioso. 

Ma "The law society", l'associazione degli avvocati di Inghilterra e Galles da cui è partita la riforma delle linee guida, difende la propria scelta: "E' volta a promuovere una buona pratica", spiega il presidente Nicholas Fluck. 

Seguendo la Sharia, chi non crede potrà essere escluso dal testamento. Alle donne e ai figli nati fuori dal matrimonio, invece, potrebbe non essere riconosciuto il medesimo diritto di eredità disposto per gli uomini. 

"Si rischia di far emergere un sistema legale parallelo", avvertono i sudditi di Sua maestà più critici rispetto alle nuove disposizioni.

Evidenza di consapevolezza negli stati vegetativi, Calendar 23 marzo 2014, http://www.uccronline.it/


Un paziente in stato vegetativo, incapace cioè di muoversi e parlare, ha mostrato segni evidenti di “consapevolezza” mai rilevati prima. Il sorprendente risultato è stato raggiunto da un gruppo di scienziati del Medical Research Council Cognition and Brain Sciences Unit (MRC CBSU), guidati dal dottor Srivas Chennu dell’Università di Cambridge.

Stanza d'ospedaleLa ricerca – pubblicata il 31 ottobre scorso sulla rivista NeuroImage: Clinical, Vol. 3, 2013, pag. 450-461 – aveva lo scopo di indagare la capacità attentiva di pazienti diagnosticati “vegetativi” o “di coscienza minima” nei riguardi di determinati stimoli uditivi (parole-target), inseriti casualmente in una serie di distrattori (parole irrilevanti).

Sono state analizzate le “risposte” elettroencefalografiche di 21 pazienti cerebrolesi, 9 con diagnosi di stato vegetativo e 12 con diagnosi di coscienza minima. Solo uno dei 21 pazienti è stato in grado di filtrare le informazioni rilevanti da quelle irrilevanti. Inoltre, alla risonanza magnetica funzionale (fMRI, Functional Magnetic Resonance Imaging) lo stesso paziente – “comportamentalmente vegetativo” – mostrava una “consapevolezza” volitiva nell’eseguire semplici comandi di immaginazione motoria nel gioco del tennis. Gli scienziati hanno anche scoperto che, nonostante la mancanza di discriminazione degli stimoli-target, altri tre pazienti in stato di coscienza minima reagivano a parole nuove, seppur irrilevanti.

“Non solo abbiamo trovato il paziente che ha avuto la capacità di prestare attenzione – ha dichiarato Chennu – ma abbiamo ottenuto prove indipendenti per lo sviluppo di una tecnologia del futuro che possa aiutare i pazienti in stato vegetativo a comunicare con il mondo esterno.” Nonostante il contributo notevole e straordinario della ricerca di Chennu & coll., il livello di consapevolezza reale nei pazienti con danni cerebrali gravi rimane un campo di indagine complesso e difficilissimo, oltre che palesemente tragico per la vita – e la qualità di vita – di questi malati. Senza alcuna ambizione di valutare o discutere lo sforzo assolutamente titanico della ricerca diagnostica nei disturbi cronici di coscienza, la rilevanza – anche etica – di questo genere di studi invita comunque ad alcune considerazioni di fondo, in parte ignorate nel dibattito pubblico.

Praticamente sconosciuto fino a qualche tempo fa in quanto prodotto della rianimazione e della terapia intensiva, lo stato vegetativo (Vegetative State, VS) è una condizione clinica di veglia senza alcun segno apparente di consapevolezza di sé o dell’ambiente circostante. Benché gli occhi siano aperti nella veglia e chiusi nel sonno, il respiro spontaneo e la funzione autonomica preservata, nessun tipo di espressione o comprensione linguistica, nessuna risposta volontaria o intenzionale, riproducibile e continua viene data a stimoli uditivi, visivi, tattili o dolorosi. Diversamente, lo stato di coscienza minima (Minimally Conscious State, MCS) riguarda quei pazienti che scarsamente reattivi agli stimoli e con danno neuronale globale mostrano segni distinguibili di consapevolezza, seppur intermittenti e limitati.

La diagnosi di VS e MCS è effettuata solo dopo un’attenta valutazione del livello di consapevolezza del paziente; tale valutazione è necessariamente inferenziale data l’oggettiva impossibilità di valutare in modo diretto la coscienza di una persona. I limiti di tali stime sono noti e frequentemente sottolineati dal mondo scientifico. Si calcola ad esempio che il 40 per cento circa delle diagnosi di stato vegetativo sia inattendibile. Inoltre, “anche in una corretta diagnosi differenziale tra VS e MCS, sembra plausibile ipotizzare che vi siano persone in grado di ‘fare qualcosa’ e altre che non lo sono”: John Whyte, primo ricercatore presso il Neuro-Cognitive Rehabilitation Research Network, e il suo team hanno infatti dimostrato la grande individualità che caratterizza ciascun paziente, anche nelle risposte farmacologiche. La ricerca di Chennu & coll., pocanzi illustrata, ne è peraltro un’autorevole conferma.

Vi è poi la questione cruciale della prognosi, ovvero della possibilità di recupero di consapevolezza da parte del paziente. L’impegno per le risorse logistiche, del personale (assistenza riabilitativa, paramedica, e medica) e dei costi necessari per la gestione di questi pazienti è imponente. Se si considera che la mortalità è dell’ordine del 3-50% a seconda dell’eziologia e il recupero di coscienza è del 50-60% nei primi 3-4 mesi per diventare sempre più raro con il passare del tempo, la necessità di una prognosi precoce è pertanto obbligatoria sia per gli approcci terapeutici necessari che per la qualità di vita del paziente e dei famigliari. Tuttavia, ancora nessun modello prognostico risulta idoneo ad una corrispondente generalizzazione.

In tutto questo i metodi del brain imaging sembrano rappresentare una delle soluzioni più promettenti e dunque praticate nella valutazione del grado di consapevolezza VS e MCS. Secondo l’ipotesi che l’attività cerebrale sia direttamente legata alle variazioni di parametri fisiologici come ad esempio il flusso sanguigno, la tecnologia del neuroimaging permetterebbe di “visualizzare” il cervello in vivo sia strutturalmente (anatomia) che funzionalmente (fisiologia). E, nel nostro caso, di individuare quelle attività cognitive altrimenti latenti nei test VS e MCS tradizionali.

Nonostante ciò e nonostante il successo letteralmente esplosivo (e per alcuni sospetto, si veda V. Biasi, ECPS Journal – 1/2010) nel campo delle neuroscienze, le tecniche del brain imaging sollevano rischi e criticità epistemologici tutt’altro che secondari. Problematiche come il “riduzionismo materialistico” (l’imaging è un’inferenza e non il cervello, né tantomeno la coscienza; cfr., Legrenzi & Umiltà, Neuro-mania, Il cervello non spiega chi siamo) o la “deviazione frenologica” dell’organizzazione cerebrale (l’errata correlazione area cerebrale/funzione conduce ad identificare locus lesionato a deficit funzionale; cfr., Kosslyn, If Neuroimaging is the Answer, what is the Question?) costituiscono costanti esempi di semplificazioni o sottovalutazioni della varietà e complessità della vita psichica. Scrive infatti Biasi: “Gli studi correlazionali ci possono dire, per fare un esempio, che alcuni neuroni si attivano in corrispondenza di un comportamento, come un semplice gesto o l’azione più complessa del risolvere un problema matematico, ma non abbiamo facoltà di concludere che quel neurone produce in modo deterministico la soluzione.”

A questo punto, i rilievi svolti sinora circa lo stato della ricerca nei pazienti “vegetativi” o di “coscienza minima” provocano domande e perplessità consistenti.  Ad esempio, su quale base alcuni Paesi possono revocare la nutrizione artificiale a persone in VS anche senza una direttiva anticipata di trattamento, o testamento biologico? sulla base del neuroimaging? sulla diagnosi? sulla prognosi, o sul livello di coscienza “misurato” al capezzale del malato? Come mai diversi studi raccomandano la cautela nell’utilizzo clinico di PET (Positron Emission Tomography/Tomografia a emissione di positroni) o fMRI – in quanto meri strumenti di ricerca – mentre la gran parte dei pazienti irreversibilmente vegetativi viene a tutt’oggi classificata (anche da PET o fMRI) priva di coscienza, e per questo incapace di provare dolore o sofferenza, piacere e desiderio? Se sono giustamente considerate “strumentali” le risposte corticali a stimoli verbali nei pazienti con gravi disturbi di coscienza, perché non dovrebbero esserlo anche nella prognosi di irreversibilità dello stato vegetativo? Per di più, è plausibile la standardizzazione di test e scale di misura data l’evidente individualità delle risposte corticali e non? È così azzardata l’idea che, benché consapevoli, i pazienti VS non sono in grado di comprendere o rispondere (come nei casi di afasia o di depressione catatonica, o di diffuse lesioni dopaminergiche) a test, forse inadeguati?

Nell’incertissimo – e a questo punto trasversale - ex informata conscientia, qualsiasi ricorso prudenziale e di tutela delle persone in stato vegetativo dovrebbe costituire uno dei più praticati ed immutabili doveri etici fondamentali.

Valentina Fanton

martedì 18 marzo 2014

C'è aborto nella contraccezione d'emergenza?

La sottile linea di separazione tra profilassi e interruzione volontaria di gravidanza, www.zenit.org/it

Roma, 15 Dicembre 2013 (Zenit.org) Elisabetta Bolzan | 367 hits

Fino a pochi decennio fa, nel linguaggio medico comune, con il termine “aborto” si intendeva l’interruzione volontaria di una gravidanza in atto prima che il feto potesse essere autonomamente vitale, puntando l’attenzione sull’evento biologico più che sulla vita del concepito e assumendo allo stesso tempo come definizione di “gravidanza” quel processo generativo che ha inizio col concepimento (quindi con la fecondazione dell’ovocita da parte del gamete maschile) e ha termine con la nascita di un bambino, così come suggerisce l’obiettività dei dati scientifici.

Nel 1972, però, venne pubblicato dall’American College of Obstetrics and Gynecology (ACOG) un testo dal titolo Obstetric-Gynecologic Terminology in cui si definì la gravidanza come «lo stato di una donna dopo il concepimento e fino al termine della gestazione»[1], associando però il concetto di concepimento non più all’evento della fecondazione bensì a quello dell’impianto in utero dell’embrione a stadio di blastocisti, con ciò oscurando quel periodo di cinque giorni precedenti in cui lo zigote si affaccia all’utero dopo aver attraversato la tuba di Falloppio in cui ha avuto inizio[2].

Ma cos’è – in fondo – un travisamento linguistico di fronte alla trasparenza del dato biologico? Non siamo forse nell’epoca del trionfo della tecnica e della conoscenza come frutto dell’evidenza scientifica? Certo, non ci si sarà lasciati fuorviare da un errore così macroscopico. E invece questa definizione, frutto di una visione ideologica, venne subito recepita, giustificandola in relazione alle tecniche di fecondazione artificiale – che proprio negli anni ’70 conobbero i primi risultati auspicati e perseguiti già da decenni da parte dei ricercatori – tecniche che prevedono che l’ovulo, già fecondato in provetta, venga successivamente – in un tempo più o meno lungo – inserito nell’utero della donna per la quale, in questo caso, l’evento della gestazione ha inizio solo ora. In tal modo però si giunse a riscrivere il concetto di gravidanza in generale. Ma ciò che più interessa è che si giunse ad affermare che ogni intervento che precede l’impianto dell’embrione in utero e che ne provochi un’interruzione nello sviluppo non rientra più nella fattispecie di aborto, e questo rimane tuttora sulla base della vecchia definizione di aborto e della nuova definizione di gravidanza. Ci si chiede, quasi increduli: «Come può essere accaduto che una ridefinizione di un fenomeno così importante, come la gravidanza, sia stata largamente accolta senza che nuovi dati embriologici o ginecologici avessero mutato sostanzialmente le nostre conoscenze?»[3]. Girando le parole hanno creato una nuova realtà o, come meglio scrive John Wilks trattando il tema della Contraccezione preimpiantatoria e di emergenza, «l’ideologia si sostituisce all’oggettività dei fatti scientifici universali»[4]. Infatti nel 1985 la Federazione Internazionale dei Ginecologi e degli Ostetrici ha ratificato questa comprensione ideologica mediante un pronunciamento della Commissione sugli aspetti medici della riproduzione umana, la quale «condivide i seguenti punti: “la gravidanza avviene solo con l’impianto dell’ovulo fecondato”. Secondo le precedenti definizioni di “concepimento” e di “gravidanza”, un intervento abortivo interrompe una gravidanza solo se successivo all’impianto»[5]. Non si tratta di una semplice definizione stampata su carta, ma della dichiarazione di un organo di portata mondiale capace di influenzare l’opinione pubblica orientandola a considerare una pillola intercettiva come si trattasse di un sistema anticoncezionale e di giustificare una certa azione politica ed economica orientata in tal direzione. Si legge in un articolo – comparso nel 1997 sulla rivista medica The New England Journal of Medicine a firma di D. A. Grimes –: «La gravidanza inizia con l’impianto, non con la fertilizzazione. Le organizzazioni mediche e il governo federale convergono su questo punto»[6]. Da qui a far passare il messaggio che la contraccezione d’emergenza rappresenta un prolungamento della normale metodica anticoncezionale il passo è breve.

Nello stesso anno negli Stati Uniti d’America, considerando che «è stato calcolato che l’uso diffuso della contraccezione di emergenza negli Stati Uniti potrebbe prevenire oltre un milione di aborti e 2 milioni di gravidanze non desiderate che terminano nella nascita di un bambino»[7], la Food and Drug Administration dichiarò che la contraccezione d’emergenza ormonale era un metodo efficace per prevenire gravidanze indesiderate[8]. Si resta sconcertati dinnanzi a dichiarazioni come quella appena citata che non solo oscura totalmente il fatto che anche la contraccezione di emergenza può provocare l’uccisione di un concepito ma che pone pure sullo stesso piano un milione di aborti e la nascita di due milioni di persone con il fatto che queste non sarebbero desiderate. Il criterio di decisione che porta alla diffusione della contraccezione d’emergenza e al suo utilizzo è dunque il desiderio che una donna, una coppia hanno o meno nei confronti del figlio, ideale o reale che sia, sopprimendo di conseguenza l’oggettività che si è di fronte a una vita umana.

***

Bibliografia

[1] E. Hughes, Committee of terminology. American College of Obstetrician and Gynaecologists. Obstetric-Gynaecologic Terminology, citato in M. P. faggioni, Aspetti etici della contraccezione d’emergenza, in L. Romano, M. L. Di Pietro, M. P. Faggioni, M. Casini, RU-486, Dall’aborto chimico alla contraccezione di emergenza. Riflessioni biomediche, etiche e giuridiche, ART, Roma, 2008, 130.

[2] Ibid. Cfr. anche J. Wilks, Contraccezione preimpiantatoria e di emergenza, in Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia, EDB, Bologna 20062, 151.

[3] M. P. faggioni, Aspetti etici della contraccezione d’emergenza, 131.

[4] J. Wilks, Contraccezione preimpiantatoria e di emergenza, 150.

[5] H. J. Tatum, E. B. Connell, A decade of intrauterine contraception: 1976 to 1986, citato in J. Wilks, Contraccezione preimpiantatoria e di emergenza, 151.

[6] D. A. Grimes, Emergency contraception. Expanding opportunities for primary prevention, citato in M. P. faggioni, Aspetti etici della contraccezione d’emergenza, 130.

[7] A. Glasier, Emergency postcoital contraception, citato in A. Serra, Deviazioni della medicina: contraccezione di emergenza e aborto chimico, in La Civiltà Cattolica 157 (2006), 535.

[8] Ibid.

(15 Dicembre 2013) © Innovative Media Inc.

Altro che "pre-embrione"... è un bambino!

L'utilizzo ideologico delle parole serve a far accettare la contraccezione che porta all'interruzione di gravidanza, www.zenit.org/it

Roma, 16 Marzo 2014 (Zenit.org) Elisabetta Bolzan | 183 hits

In un articolo precedente, analizzando la questione della contraccezione d’emergenza, emerse chiaramente come la questione terminologica riguardante la definizione di gravidanza oscurasse l’evidenza scientifica per la quale non esiste alcuna cesura tra momento della fecondazione e momento d’inizio della gravidanza come evento che determina la nascita e lo sviluppo di una vita umana.

Qui vedremo come questa visione si propaga ai danni del secondo dei due soggetti in questione: l’embrione. Ci si chiede quale sia il significato della realtà embrionale nei suoi primi giorni di esistenza. Secondo la visione sopra ricordata, se per la donna la gravidanza ha inizio solo in relazione all’annidamento e non prima, anche l’embrione sarà considerato tale, ed eticamente e giuridicamente rilevante, solo a seguito di questo evento.

Ogni operazione posta in essere nei suoi confronti nella fase che precede l’impianto verrà considerata come un intervento neutro. Così a seconda dell’azione che di volta in volta esercitano la madre, il medico o il ricercatore, l’ovocita fecondato potrà raggiungere la qualifica di embrione – e perciò di figlio – di feto abortito – diventando un corpo inanimato – di cumulo cellulare idoneo alla sperimentazione o al prelievo di tessuti – come deposito di cellule staminali o di altro tipo.

A questa manipolazione ideologica corrispondono diverse definizioni: si parla di pre-embrione, di ovulo fecondato, di embrione preimpianto. Come ricorda Justo Aznar, direttore dell’Instituto de Ciencias de la Vida dell’Università Cattolica di Valencia, in Spagna, il termine pre-embrione comparve nel 1984 per la prima volta nel Rapporto Warnock, che dichiarò la possibilità di intervenire nella vita dell’embrione dal momento del concepimento fino al quattordicesimo giorno successivo, parlando genericamente di “manipolazione dell’embrione”.

Nel rapporto stesso, tuttavia, la Commissione che lo stilò ammise anche che la vita dell’essere umano comincia propriamente con la fecondazione. Il termine pre-embrione venne quindi introdotto non a seguito di considerazioni strettamente scientifiche ma volendo creare un fraintendimento finalizzato unicamente a oscurare la dignità umana che appartiene all’embrione medesimo[1]. Si è voluta giustificare questa comprensione sostenendo che prima di questo istante lo zigote non dà alcun segnale di sé, del proprio essere autonomo o dell’esserci in relazione alla madre.

Alcuni[2] asseriscono che non si possa parlare di essere individuo prima del quattordicesimo giorno dal concepimento perché è solo da quel momento che l’embrione raggiunge la conformazione cellulare differenziata di ectoderma, mesoderma ed endoderma – da cui avranno origine tutti gli organi e i tessuti – e «compare nell’ectoderma primitivo una zona più inspessita detta stria primitiva»[3], che – sempre secondo tale visione – sarebbe il primo indicatore della presenza di un essere capace di differenziazione e di autonomia. Indubbiamente questa è una fase importante a partire dalla quale l’embrione, inserito com’è nella mucosa della parete endometriale e avendo stabilito i legami coi vasi sanguigni materni per trarne nutrimento e ossigeno e per trasferirvi le scorie da eliminare, organizza momento per momento la crescita di ogni sua parte, di modo che ad ogni istante corrisponda un preciso stadio dell’intero processo di sviluppo: il percorso dell’embrione infatti è strutturato in maniera tale da rispondere a una cadenza di sviluppo ordinata e improrogabile per ciascuna delle parti del corpo che lo compongono[4].

Ma proprio questo indica che non c’è soluzione di continuità tra concepimento, annidamento, comparsa della stria primitiva ed evoluzione progressiva dell’essere umano fino all’evento della nascita. Così si esprime Dignitas Personae: «Il corpo embrionale si sviluppa progressivamente secondo un “programma” ben definito e con un proprio fine che si manifesta con la nascita di ogni bambino»[5]. Così come un bambino non nasce tale se non perché così si è formato nel seno materno per nove mesi, allo stesso modo non si dà la possibilità che uno zigote giunga a penetrare l’endometrio se gli si impedisce di giungervi dopo che si è costituito. Ugualmente, se quando affonda nella mucosa intrauterina si stabilisce il primo contatto fisico, non si può altrettanto correttamente affermare che questo sia il primo segno del legame tra madre e figlio, come visto relativamente al cross talk.

È stato inoltre affermato, in un articolo del 1998, che «la fecondazione è condizione necessaria ma insufficiente per la gravidanza»[6]. Pur essendo vero che una percentuale molto alta di ovuli fecondati non giunge a impiantarsi[7]; è altrettanto vero però che questo essere necessario ma di per sé ancora insufficiente alla nascita di un bambino può a ragione venir detto per ogni successiva fase di crescita dell’embrione, che tuttavia non potrà darsi se non dopo questa prima tra tutte: l’istante del concepimento.

Purtroppo però la tenzone non si gioca tanto sul piano scientifico, quanto piuttosto su quello ideologico: l’evidenza scientifica non basta a chiudere l’argomento. Nell’articolo sopra citato di Aznar, apparso ultimamente in Medicina e Morale, vengono riportati i dati relativi all’utilizzo della parola “pre-embrione” (e quindi del concetto che essa sottende) negli anni che vanno dal 1991 al 2008 da parte delle riviste mediche: si rileva come la sua frequenza sia molto bassa e praticamente nulla tra le testate più autorevoli.

Osserva l’Autore: «For most experts the pre-embryo, biologically speaking, does not exist, so the term that identifies it as such is becoming less frequently used in scientific literature»[8]. L’intervento così chiosa: «the above data support the finding that the term “pre-embryo” is practically outside the current scientific context, and that its use, in most case, has a more ideological than scientific connotation, all with the aim of depriving the embryo of its ontological status of living human being, to thus be able to manipulate it without greater ethical responsibility»[9].

Ci si chiede infatti se un tale nominalismo può davvero sottendere una onesta comprensione della realtà o piuttosto se non si cerchi nelle parole una copertura a interessi non altrimenti giustificabili: la mentalità che porta a negare la realtà dell’embrione umano nei suoi primi quattordici giorni di esistenza insinua la presunzione di poterlo manipolare arbitrariamente come mero cumulo di cellule, quando la verità è che si sta ponendo mano al destino di un essere umano, impedendogli di crescere e venire alla luce.

Nella Storia dell’Umanità la pratica dell’aborto procurato risale ai tempi più antichi, tanto che perfino il Giuramento di Ippocrate, risalente al V secolo a.C., ne parla esplicitamente quando afferma: «A nessuna donna io darò un medicinale abortivo»[10]. L’onestà intellettuale e scientifica di queste parole così antiche fa trapelare la giusta considerazione che dell’aborto si aveva quale grave offesa alla vita innocente del concepito, nonostante molte conoscenze sulla biologia della riproduzione umana siano state raggiunte solo molto più tardi, a partire dalla seconda metà del XX secolo.

Oggi, a fronte del fatto che è possibile giungere a vedere l’istante stesso della fecondazione e interpretare molti fenomeni che regolano questo evento, avendo messo mano all’albero della conoscenza del bene e del male (cfr. Gen 3, 4-7), appare la superbia dell’uomo nel voler decidere da sé ciò che è buono e ciò che non lo è, costruendo un linguaggio nuovo e strumentale all’aggressione delle radici della vita, illudendosi che questo arrivi anche a modificare il fatto che esse obbediscono immancabilmente al loro Creatore.

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NOTE

[1] Cfr. J. Aznar, Scientific use of the term “pre-embryo”, in Medicina e Morale 61 (2011), 485-489.

[2] C. Grobstein, Science and the Unborn: Choosing Human Futures, citato in M. P. faggioni, Aspetti etici della contraccezione d’emergenza, 135.

[3] M. P. Faggioni, La vita nelle nostre mani. Manuale di bioetica teologica, Edizioni Camilliane, Torino 20092, 255.

[4] Cfr. B. Mozzanega, Da vita a vita. Viaggio alla scoperta della riproduzione umana, 53.

[5] Congregazione per la Dottrina della Fede, Dignitas Personae, 4.

[6] J. Guillebaud, Time for emergency contraception with Levonorgestrel alone, citato da J. Wilks, Contraccezione preimpiantatoria e di emergenza, 152.

[7] Il prof. Schinella riporta l’opinione che «oltre il 50% degli embrioni manca l’impianto» (I. Schinella, Nuove forme di intercezione e di contragestazione in Dignitas Personae, 182).

[8] «Per molti esperti il pre-embrione, biologicamente parlando, non esiste, quindi il termine che lo identifica sta cadendo in disuso nella letteratura scientifica» (J. Aznar, Scientific use of the term “pre-embryo”, 486).

[9] «I dati sopra riportati consentono di affermare che il termine “pre-embrione” è in ultima analisi fuori dall’attuale contesto scientifico, e che il suo utilizzo, nella maggior parte dei casi, ha una connotazione più ideologica che scientifica, con lo scopo di privare l’embrione dello stato ontologico di essere umano vivente che gli appartiene, potendolo così manipolare senza ulteriore responsabilità morale» (J. Aznar, Scientific use of the term “pre-embryo”, 489).

[10] Cfr. M. P. Faggioni, La vita nelle nostre mani. Manuale di bioetica teologica, 296.

(16 Marzo 2014) © Innovative Media Inc.

Pillola dei cinque giorni dopo senza prescrizione medica?

L'Agenzia Europea per i medicinali sta per liberalizzare la vendita dell'EllaOne in Germania, Polonia e Italia, http://www.zenit.org/it

Roma, 17 Marzo 2014 (Zenit.org) Thaddeus Baklinski | 72 hits

EllaOne, la  pillola dei cinque giorni dopo, potrebbe essere presto venduta senza l'obbligo di  presentazione della ricetta medica negli ultimi tre paesi dell'Unione europea che ne richiedono la prescrizione. Ne dà notizia LifeSiteNews.com.

L'EMA (Agenzia europea per i medicinali), con sede a Londra, sta consigliando che  la pillola dei cinque giorno dopo, potenzialmente abortiva, commercializzata con il brand "ellaOne", dovrebbe essere resa disponibile senza obbligo di presentazione di ricetta medica negli ultimi tre paesi della UE - Germania, Polonia e Italia - dove la prescrizione del medico è ancora necessaria per ottenere questo pericoloso farmaco.

Secondo un rapporto della Deutsche Welle, l'Agenzia europea per i medicinali (EMA) sostiene di avere l'autorità di decidere per tutti i Paesi membri della UE se una prescrizione sia necessaria per una particolare marca di farmaco.

Mentre l'EMA e le organizzazioni tedesche di "pianificazione familiare" minimizzano i rischi dei farmaci utilizzati come pillole del giorno dopo ed i loro effetti causanti l'aborto, le organizzazioni dei medici tedeschi sono contrarie a dispensare liberamente questi farmaci senza un adeguato consulto medico.

Daphne Hahn, direttore di Pro Familia, la principale organizzazione di salute sessuale e riproduttiva tedesca e parte della International Planned Parenthood, ha dichiarato che la disponibilità del farmaco senza obbligo di prescrizione medica andrebbe a vantaggio delle donne dal momento che "la maggior parte delle emergenze accadono durante il fine settimana o nei giorni festivi".

Hahn ha inoltre riferito a Deutsche Welle che questo moderno controllo delle nascite è sicuro al 100%. Tuttavia, Christian Albring, presidente della Germany's gynecologists' association, ha avvertito che una consultazione con un medico è di vitale importanza, perché la pillola del giorno dopo non è adatta per ogni donna. Ha manifestato preoccupazione per le donne che assumono anche antidepressivi o farmaci per l'epilessia ed ha inoltre rilevato che una recente ricerca ha scoperto che le pillole del giorno dopo non sono efficaci per le donne in sovrappeso.

"Una consultazione non dovrebbe essere effettuata da chi non sia un ginecologo o un medico”, ha detto Albring alla Deutsche Welle.
Inoltre, Frank Ulrich Montgomery, presidente della German Medical Association, ha avvertito che rendendo la pillola del giorno dopo disponibile senza obbligo di presentazione di ricetta medica si ignora il potenziale danno alle donne a causa di seri effetti collaterali negativi.
In un'intervista ad un quotidiano egli ha sottolineato l'importanza di prescrivere la pillola solo previa consultazione di un medico e ha dichiarato che è "imperativo" che le pillole siano disponibili solo nelle farmacie.
"La pillola del giorno dopo rimane un farmaco di emergenza con effetti collaterali", ha affermato Montgomery. Sostenitori pro-life hanno lanciato l'allarme riguardo alla sicurezza ed alla sperimentazione del principio attivo usato in "EllaOne", dicendo esso è un farmaco con  potenziale abortivo  chimico simile alla  RU- 486, ridenominato e presentato al pubblico come farmaco contraccettivo.

Il nome chimico per il principio attivo di EllaOne è l'ulipristal acetato, il quale funziona come un progestinico-bloccante, o "modulatore selettivo del recettore del progesterone” (SPRM). Altri tipi di farmaci contraccettivi d'emergenza funzionano rilasciando enormi quantità di progesterone nel corpo di una donna, impedendo così l'ovulazione, inibendo la migrazione degli spermatozoi e riducendone la capacità fecondante. Si può anche avere un effetto abortivo se l'afflusso di progesterone cambia il rivestimento dell'utero, impedendo ad  un embrione già concepito di impiantarsi.
Ulipristal acetato funziona in modo diverso, con risultati abortivi di gran lunga più efficaci. Come SPRM, spegne i recettori del progesterone nel corpo della donna, essenziali non solo per l'inizio della gravidanza, ma anche per la sua continuazione.

Quando la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti approvò Ella (ellaOne) nel 2010, ha permesso a detto farmaco di essere commercializzato come un contraccettivo d'emergenza ”occasionale”, da assumersi da parte delle donne fino a cinque giorni dopo il rapporto sessuale.
La Food and Drug Administration  aveva tuttavia avvertito che era pericoloso per le donne usare Ella più che occasionalmente, in quanto non si avevano dati sulla sua sicurezza a lungo termine. Aveva inoltre avvisato che prima di prescrivere Ella  dovrebbe essere escluso che le donne si trovino in stato di  gravidanza e che le donne che avvertono dolori al basso ventre o che diventano gravide dopo l'assunzione del farmaco dovrebbero essere controllate da chi fornisce loro assistenza sanitaria, per la possibilità del verificarsi di gravidanze ectopiche.

Il Mifepristone, farmaco assunto in due fasi con l'RU-486 in regime di aborto chimico, è anch'esso uno SPRM (modulatore selettivo del recettore del progesterone). È stato constatato che il  Mifepristone ha avuto migliaia di "segnalazioni di eventi avversi" legati al suo utilizzo. A partire dal momento in cui la FDA ne ha approvato la vendita nel 2000, il Mifepristone è stato collegato a 13 morti accertate, di cui 9 sono stati segnalate negli Stati Uniti. Dal  maggio 2006, quando la FDA ha iniziato a comunicare i casi di donne che soffrono degli  effetti avversi a causa dell'assunzione dell'RU-486,  ne sono stati registrati 1.070, tra cui sei morti, 9 incidenti letali, 232 ricoveri, 116 trasfusioni di sangue e 88 casi di infezione.
"Ella è un pericoloso farmaco abortivo, non commettete errori riguardo ad esso", ha sottolineato Kristan Hawkins, direttore esecutivo di Students for Life of America, in una dichiarazione del 2010, invitando la FDA a rivedere e revocare la sua decisione. “L'approvazione di Ella da parte della FDA per la vendita negli Stati Uniti dimostra che la FDA non ha svolto il suo lavoro proteggendo le donne, in particolare le giovani donne, che SFLA (Students for Life of America) aiuta quotidianamente".

Wendy Wright, ex presidente di “Concerned Women for America”, ha definito l'approvazione di ellaOne da parte della FDA come un esempio di come i farmaci utilizzati per controllare la fertilità possano avere standard di sicurezza più bassi rispetto ad altri tipi di farmaci dal momento che “avere a che fare con gravi complicazioni e anche con la morte della donna sembra preferibile rispetto ad alla sua eventuale gravidanza".

Ed ha aggiunto: "Le esigue sperimentazioni fatte su Ella indicano che essa può causare aborti e malformazioni congenite. Tuttavia, la FDA ha rilasciato il permesso alla HRA Pharma di immettere sul mercato Ella per evitare di testare pienamente questo farmaco, così le donne saranno tenute all'oscuro riguardo a quali serie complicanze esso possa causare a loro ed al loro bambino".

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Fonte: vitanascente.blogspot.it

[Articolo originale in http://www.lifesitenews.com/news/morning-after-pill-may-soon-be-over-the-counter-in-last-three-eu-countries]

[Traduzione con adattamento di Anna Fusina]

lunedì 17 marzo 2014

Il gender, la società senza sesso e il compito di noi madri e padri. Alla riscoperta della bellezza del corpo, 17 marzo 2014 di Eugenia Scabini, www.tempi.it

Eugenia Scabini, autrice di questo articolo, è professoressa di Psicologia dei legami familiari presso la facoltà di Psicologia dell’Università cattolica di Milano, di cui è stata preside dal 1999 al 2011.

Vi ricordate il 12 maggio 2007, quella singolare manifestazione a Roma chiamata “Family day”? Al di là degli obiettivi, è stata anche, per chi vi ha partecipato, una grande festa di popolo, di vitalità delle famiglie. Sono passati non molti anni da quel giorno e il nostro mondo è occupato da tutt’altri scenari che hanno impegnato in dibattiti e manifestazioni, ma anche in precise scelte giuridiche e sociali, molti paesi europei tra cui la Francia e la Spagna: il matrimonio per le coppie omosessuali, con possibilità o meno di adozione dei figli, la sostituzione dei termini “padre” e “madre” con il più generico “genitore A” e “genitore B” o uno e due.

Tutto questo ci ha in parte sorpreso, a volte preoccupato, ma comunque nella maggioranza dei casi l’abbiamo vissuto un “po’ a distanza”, vuoi perché capitava altrove, vuoi perché urgenti e pressanti aspetti legati alla crisi economica ci avevano forse fatto sentire questi temi meno fondamentali per la vita delle famiglie, sottovalutandone la loro importanza ai fini di una vita squisitamente umana.

Tuttavia, ora con una strategia meno frontale ma più sottilmente invasiva, si fanno avanti anche da noi proposte o iniziative come l’utilizzo a Milano dei moduli per l’iscrizione alla scuola con la generica definizione di “genitore” invece che di “padre” e “madre” o la pubblicazione della “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”, a firma di Unar e del dipartimento per le Pari opportunità. Quest’ultima va ben oltre la più che legittima denuncia del bullismo e dell’omofobia e, mettendo in scacco alcuni capisaldi della costruzione dell’identità personale e familiare, ha provocato più che legittime proteste soprattutto per quanto riguarda il fronte educativo, proteste che hanno poi portato a un blocco della iniziativa.

È quindi il momento che quel popolo festoso riprenda coscienza di sé e faccia sentire la sua voce, non tanto per vincere una battaglia che si presenta chiaramente ideologica, ma per fare riemergere quella che papa Benedetto ha indicato come «un’ecologia dell’uomo» che sia in grado di proteggerlo «contro la distruzione di se stesso», recuperando e vivificando i fondamentali dell’umano.

Ma quali sono i fondamentali dell’umano? Innanzitutto la persona che, con la sua inviolabile dignità umana e la sua libertà, è riferimento centrale della civiltà europea ed esplicitamente al centro della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Dire persona è ben diverso che dire individuo, entità astratta e sciolta dai legami, che pure ha determinato lo sviluppo del pensiero del Novecento. La persona, unica e irripetibile, è costitutivamente un “essere in relazione”: in breve, ciascuno di noi è un “generato” che rimanda costitutivamente ai “generanti”, entro una catena generazionale del dare-ricevere la vita imprescindibile per l’identità di ciascuno e, al tempo stesso, per l’identità della società in cui le persone si muovono.

Come ben dice papa Francesco nella Lumen Fidei: «La persona vive sempre in relazione. Viene da altri, appartiene ad altri, la sua vita si fa più grande nell’incontro con altri. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. Il linguaggio stesso, le parole con cui interpretiamo la nostra vita e la nostra realtà, ci arriva attraverso altri, preservato nella memoria viva di altri. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande».

Un corpo vivente
Ma dire che la persona è “un essere in relazione” non è dire una cosa vaga e impalpabile, perché la persona è un corpo vivente. Vorrei porre l’accento sulla parola “corpo”, quel corpo che oggi è da una parte esaltato e dall’altra manipolato a piacimento e ridotto a un insieme di organi. Sappiamo invece dalla ricerca psicologica che, sin dalle prime fasi della vita, il corpo umano è attraversato da primordiali emozioni, stati mentali, capacità di interazioni e, fin dalla vita intrauterina, risponde ed è influenzato (soprattutto attraverso il corpo della madre) da ciò che lo circonda e dal mondo affettivo e relazionale della sua famiglia, che lo attende, pre-figurando il suo “posto”.

Il corpo umano è vivo, è vivente. Corpo vivente significa affermare che l’aspetto sorgivo dell’essere umano è costituito da un’unità biologica, psichica, spirituale e relazionale. La persona è, e come tale può pensarsi e agire, entro tale unità e in forza di essa. La vita umana, che la Chiesa ha sempre con grande forza difeso, è data dalla coscienza che essa è il bene per eccellenza senza del quale nulla potrebbe sussistere. Dire corpo vivente significa al tempo stesso dire “corpo sessuato”. L’essere sessuato investe tutta la persona umana e non è solo una differenza anatomica. L’umanità esiste al maschile e al femminile e una società vera è quella in cui le persone possono compiere l’imprescindibile itinerario di umanizzazione che le porta dal nascere maschio e femmina, al divenire uomo e donna.

In questo processo la famiglia ha un ruolo fondamentale: come dice il noto psicologo Urie Bronfenbrenner, «la famiglia rende umani gli esseri umani». E qui sta il fondamento dei diritti della famiglia che troviamo chiaramente espresso nella Carta dei diritti della famiglia di cui da poco abbiamo celebrato i 30 anni della sua pubblicazione (e che vale la pena rileggere). Qui, e non prima, si innesta l’itinerario in cui la cultura, a partire da questa originaria differenza (e non a prescinderne) offre la trama dei significati personali e sociali, essenziali nella costruzione dell’identità. In questa prospettiva il corpo, lungi dall’essere un limite di cui liberarsi – e attraverso interventi manipolatori, passare dall’essere maschio al diventare femmina e viceversa e alle ormai numerose varianti – è la risorsa primordiale e la sede della persona: io “sono” un corpo e non “ho” un corpo.

La dualità maschio femmina
Con felicissima espressione Giovanni Paolo II nelle famose “Catechesi del Mercoledì” così ribadisce l’unità di corpo e persona e la sua riconoscibilità nella relazione tra l’uomo e la donna. «Quando il primo uomo, alla vista della donna esclama: “È carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” (Gen, 2,23), afferma semplicemente l’identità umana di entrambi. Così esclamando, egli sembra dire: “Ecco un corpo che esprime la ‘persona’”» (Udienza generale 9 gennaio 1980).

Così viene figurato il mistero dell’essere umano, creato nella dualità di maschio e femmina e, quindi, radicato in una differenza, ma pure segnato da una comune appartenenza al genere umano. È quest’ultima che consente all’uomo e alla donna, al maschile e al femminile, di non essere abissalmente distanti, ma, nella relazione e tensione reciproca, parti indispensabili dell’intera umanità. L’altro consente a me stesso di riconoscermi, l’altro è la mia attrattiva e il mio destino. L’altro: l’altro genere, l’altra generazione, l’Altro, il Creatore di tutte le cose che ha creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza e l’ha creato maschio e femmina. Così ci dice l’antropologia del principio che ci pone dinnanzi all’umano come costituito da una “uguaglianza differenziata”.

Giovanni Paolo II, per esprimere questa condizione originaria ha coniato una espressione nuova, un neologismo. Ha parlato dell’uomo e della donna come «uni-dualità relazionale», che consente a ciascuno «di sentire il rapporto interpersonale e reciproco come un dono arricchente e responsabilizzante» (Lettera alle donne 8). La corporeità e l’essere situati nella differenza sessuale ci parla così dell’unità procreativa e del generare nella direzione del «dono arricchente e responsabilizzante» bene vitale e primario della famiglia e fonte della stessa sopravvivenza e sviluppo della società. Ma il compito affidato all’uni-dualità interpersonale non si ferma qui poiché l’uomo e la donna, con il loro comune e collaborativo contributo, devono portare a compimento il mondo e la storia.

«Il matrimonio e la procreazione in se stessa non determinano definitivamente il significato originario e fondamentale dell’essere corpo, né dell’essere, in quanto corpo, maschio e femmina», così ancora ci dice questo grande Papa (Udienza generale 9 gennaio 1980).

La comparsa dell’individuo
Certo non facile è mantenere insieme la comunanza senza svilirla nella omologazione e la differenza senza creare pericolose scissioni. Non facile mantenere viva la tensione tra il femminile e il maschile senza farla esplodere nel conflitto o rinchiuderla nel dominio e subordinazione dell’uno sull’altro. I cristiani non si fanno troppe illusioni al proposito perché sanno che c’è stata una turbativa all’origine (il peccato originale che Giovanni Paolo II peraltro equamente distribuisce tra l’uomo e la donna) e sanno perciò che l’armonia tra i generi ma anche tra le generazioni (le due differenze costitutive dell’umano) vanno sempre pazientemente ricostruite nella vita familiare e sociale e non senza grande sofferenza.

Così la realizzazione storica di questo riconoscimento di pari dignità della persona umana ha incontrato non poche difficoltà ed è ancora oggi ben lungi dall’essere rispettato. Ne hanno fatto le spese soprattutto le donne come del resto lo stesso Giovanni Paolo II profeticamente dalla Mulieris dignitatem (1988) alla Lettera alle donne (1995) e in altri numerosi interventi già oltre trent’anni fa denunciava, rilanciando in positivo la peculiarità indispensabile dell’apporto della donna alla vita umana e sociale, parlando di «genio femminile».

Dove sono oggi finiti questi fondamentali e la loro ricchezza e attrattiva? Sono finiti nella latenza, vivono come un patrimonio sommerso al quale così poco riusciamo ad attingere e a far diventare rilevante nella vita personale, familiare e sociale. Invece della persona compare l’individuo con il suo diritto di autodeterminazione e di scelta insindacabile anche quando tale scelta ha conseguenze dirette su un altro essere umano come tristemente accade quando si genera “affittando” un utero o si approva l’eutanasia per i minori come avvenuto di recente in Belgio.

Invece dell’unità corpo-persona assistiamo, come acutamente osservava la psicoanalista Janine Chasseguet-Smirgel già una decina di anni fa, ad una depersonalizzazione del corpo da se stesso, ad una scissione tra io corporeo e io psichico. Il corpo vivente si frantuma, diventa un oggetto muto, si lascia meccanicamente e passivamente trascrivere dalla tecnologia che ne ha preso possesso, non senza guadagno commerciale. La frammentazione del corpo vivente produce schegge impazzite e contraddizioni palesi: edonismo del “fisico”, determinismo del genetico (persino della libertà e moralità) e al tempo stesso attribuzione di enorme potenza alla cultura che avrebbe la capacità di costruire e de-costruire la differenza sessuale.

Recuperare i fondamentali
Nelle teorie del gender di tipo radicalmente costruttivista, oggi di moda, la “differenza reciprocante” del femminile e del maschile collassa in una rappresentazione dell’essere umano come indistinto, indifferenziato, ibrido e si preconizza una società transgenere, postpadre e postmadre. E la questione non sta, come in genere si dibatte, sulla capacità delle coppie, magari dello stesso sesso, di saper ben allevare bambini ma sta nel mettere questi ultimi nella condizione di affacciarsi alla vita con un vuoto di origine. Il tema della generatività e del suo intrinseco riferimento all’origine è questione centrale sia da un punto di vista antropologico che psicologico, come abbiamo più volte evidenziato nella nostra “prospettiva relazionale-simbolica” di lettura del “famigliare”. In questa deriva, l’itinerario a ritroso che l’umanità oggi rischia di percorrere trascina al ribasso la persona dal riconoscimento, al misconoscimento, all’indifferenza, all’incuria.

Quale il nostro compito? Recuperare i fondamentali e metterli in azione. È oggi il tempo di una presenza attiva, vigile e propositiva degli adulti, delle madri e dei padri (ma sappiamo che possiamo e dobbiamo essere madri e padri anche dei figli altrui) perché nostra è la responsabilità verso le nuove generazioni. Esse devono potersi nutrire di quelle risorse materiali, simboliche e morali che fanno della vita una vita umana. E l’educazione è l’ambito primario di tale impegno perché l’educazione è un proseguimento della generazione come ci ha ben insegnato quel grande uomo e vero seguace di Cristo che è stato don Luigi Giussani. Lui ha svegliato dal torpore più di una generazione e con ciascuna di loro si è messo in moto appassionatamente facendo ritrovare entro la proposta-esperienza cristiana la risposta ai desideri profondi del cuore e un senso dell’agire vivace e concreto nella vita sociale.

Comunione, non divisione
Ogni generazione comincia da capo ma è destinata al fallimento se suppone di cominciare da zero. Deve poter ritrovare nel patrimonio che le arriva, magari impoverito, la traccia di un cammino. Noi non siamo migliori dei nostri padri come cantavamo un tempo pensando invece di riuscirci. Ma possiamo riprenderci e risvegliarci partendo proprio dalla domanda che ci viene dai nostri figli, dalle nuove generazioni. Dobbiamo fare questo viaggio però insieme, madri e padri, fratelli di condizione e accomunati dalla stessa responsabilità. Il destino del femminile e del maschile è la comunione non la divisione e neppure la realizzazione solitaria. Questa generazione è sfidata nel corpo, come ogni giorno vediamo nella cronaca, e su questo punto si concentra la domanda di umanizzazione e la ricerca di identità.

Forse che per il cristiano il tema è secondario? Il corpo, cristianamente la carne, il corpo di Cristo, il corpo della Chiesa, la resurrezione dei corpi… Che cosa di più attraente di una proposta che fa trovare speranza, vita e pace nell’abbraccio con un Corpo pieno di luce che ci lega profondamente gli uni agli altri e ci rende amici e fratelli, piuttosto che un percorso errabondo alla ricerca di sé attraverso la spettacolarizzazione del proprio corpo o la peregrinazione da un corpo sessuato ad un altro?

Torniamo insieme all’origine. E l’unico modo per essere ancora generativi e per far sì che possano esserlo le nuove generazioni, col loro irripetibile volto.

Il vero tema è la verità del matrimonio di Matteo Matzuzzi, 17-03-2014, www.lanuovabq.it

Ripubblichiamo l'intervista del quotidiano "Il Foglio" all'arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra, che risponde alla relazione in Concistoro del cardinale Walter Kasper sul senso del matrimonio e sulla pastorale per i casi difficili, come quello dei divorziati risposati. Questa intervista riprende gli stessi contenuti già espressi dal cardinale Caffarra in Concistoro, una critica radicale all'approccio offerto dal cardinale Kasper. L'intervista è lunga, ma si tratta di un documento teologico importante che ben rappresenta la tradizione della Chiesa a difesa dell'indissolubilità del matrimonio.

La “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II è al centro di un fuoco incrociato. Da una parte si dice che è il fondamento del Vangelo della famiglia, dall’altra che è un testo superato. È pensabile un suo aggiornamento?
Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale, è vero che al tempo della Familiaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati-risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980. Dire che la Familiaris Consortio è nata in un contesto storico completamente diverso da quello di oggi, non è vero. Fatta questa precisazione, dico che prima di tutto la Familiaris Consortio ci ha insegnato un metodo con cui si deve affrontare le questioni del matrimonio e della famiglia. Usando questo metodo è giunta a una dottrina che resta un punto di riferimento ineliminabile. Quale metodo? Quando a Gesù fu chiesto a quali condizioni era lecito il divorzio, della liceità come tale non si discuteva a quel tempo, Gesù non entra nella problematica casuistica da cui nasceva la domanda, ma indica in quale direzione si doveva guardare per capire che cosa è il matrimonio e di conseguenza quale è la verità dell’indissolubilità matrimoniale. Era come se Gesù dicesse: “Guardate che voi dovete uscire da questa logica casuistica e guardare in un’altra direzione, quella del Principio”. Cioè: dovete guardare là dove l’uomo e la donna vengono all’esistenza nella verità piena del loro essere uomo e donna chiamati a diventare una sola carne. In una catechesi, Giovanni Paolo II dice: “Sorge allora cioè quando l’uomo è posto per la prima volta di fronte alla donna la persona umana nella dimensione del dono reciproco la cui espressione (che è l’espressione anche della sua esistenza come persona) è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità”. Questo è il metodo della Familiaris Consortio.

Qual è il significato più profondo e attuale della “Familiaris Consortio”?
"Per avere occhi capaci di guardare dentro la luce del Principio", la Familiaris Consortio afferma che la Chiesa ha un soprannaturale senso della fede, il quale non consiste solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l’opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere. E in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico. Tale ricerca per sé sola, però, non è da ritenersi espressione del senso della fede (FC 5). Ho parlato di verità del matrimonio. Vorrei precisare che questa espressione non denota una norma ideale del matrimonio. Denota ciò che Dio con il suo atto creativo ha inscritto nella persona dell’uomo e della donna. Cristo dice che prima di considerare i casi, bisogna sapere di che cosa stiamo parlando. Non stiamo parlando di una norma che ammette o non eccezioni, di un ideale a cui tendere. Stiamo parlando di ciò che sono il matrimonio e la famiglia. Attraverso questo metodo la Familiaris Consortio, individua che cosa è il matrimonio e la famiglia e quale è il suo genoma - uso l’espressione del sociologo Donati -, che non è un genoma naturale, ma sociale e comunionale. È dentro questa prospettiva che l’Esortazione individua il senso più profondo della indissolubilità matrimoniale (cfr. FC 20). La Familiaris Consortio quindi ha rappresentato uno sviluppo dottrinale grandioso, reso possibile anche dal ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano. Nella prima di queste catechesi, il 3 settembre 1979, Giovanni Paolo II dice che intende accompagnare come da lontano i lavori preparatori del Sinodo che si sarebbe tenuto l’anno successivo. Non l’ha fatto affrontando direttamente temi dell’assise sinodale, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde. È come se avesse detto, Io Giovanni Paolo II voglio aiutare i padri sinodali. Come li aiuto? Portandoli alla radice delle questioni. È da questo ritorno alle radici che nasce la grande dottrina sul matrimonio e la famiglia data alla Chiesa dalla Familiaris Consortio. E non ha ignorato i problemi concreti. Ha parlato anche del divorzio, delle libere convivenze, del problema dell’ammissione dei divorziati-risposati all’Eucaristia. L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato; che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta.

Molte conferenze episcopali hanno sottolineato che dalle risposte ai questionari in preparazione dei prossimi due Sinodi, emerge che la dottrina della “Humanae Vitae” crea ormai solo confusione. È così, o è stato un testo profetico?
Il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, Paolo VI diceva: «Della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me». Dopo ormai quarantasei anni, vediamo sinteticamente cosa è accaduto all’istituto matrimoniale e ci renderemo conto di come è stato profetico quel documento. Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale. Non c’è dubbio che quando l’Humanae Vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base dell’Humanae Vitae. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra.

Quale?
L’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?
Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime da una norma, ma, qual è il bene del rapporto coniugale. Qual è la sua verità intima. Mi stupisce che qualcuno dica che l’Humanae Vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae Vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti? È al corrente di innumerevoli coppie che nel mondo vivono con gioia la verità di Humanae Vitae?

Il cardinale Kasper sottolinea che ci sono grandi aspettative nella Chiesa in vista del Sinodo e che si corre il rischio di una pessima delusione se queste fossero disattese. Un rischio concreto, a suo giudizio?
Non sono un profeta né sono figlio di profeti. Accade un evento mirabile. Quando il pastore non predica opinioni sue o del mondo, ma il Vangelo del matrimonio, le sue parole colpiscono le orecchie degli uditori, ma nel loro cuore entra in azione lo Spirito Santo che lo apre alle parole del pastore. Mi domando poi delle attese di chi stiamo parlando. Una grande rete televisiva statunitense ha compiuto un’inchiesta su comunità cattoliche sparse in tutto il mondo. Essa fotografa una realtà molto diversa dalle risposte al questionario registrate in Germania, Svizzera e Austria. Un solo esempio. Il 75 per cento della maggior parte dei paesi africani è contrario all’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Ripeto ancora: di quali attese stiamo parlando? Di quelle dell’Occidente? È dunque l’Occidente il paradigma fondamentale in base al quale la Chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?

Il cardinale Müller ha detto che è deprecabile che i cattolici non conoscano la dottrina della Chiesa e che questa mancanza non può giustificare l’esigenza di adeguare l’insegnamento cattolico allo spirito del tempo. Manca una pastorale familiare?
È mancata. È una gravissima responsabilità di noi pastori ridurre tutto ai corsi prematrimoniali. E l’educazione all’affettività degli adolescenti, dei giovani? Quale pastore d’anime parla ancora di castità? Un silenzio pressoché totale, da anni, per quanto mi risulta. Guardiamo all’accompagnamento delle giovani coppie: chiediamoci se abbiamo annunciato veramente il Vangelo del matrimonio, se l’abbiamo annunciato come ha chiesto Gesù. E poi, perché non ci domandiamo perché i giovani non si sposano più? Non è sempre per ragioni economiche, come solitamente si dice. Parlo della situazione dell’Occidente. Se si fa un confronto tra i giovani che si sposavano fino a trent’anni fa e oggi, le difficoltà che avevano trenta o quarant’anni fa non erano minori rispetto a oggi. Ma quelli costruivano un progetto, avevano una speranza. Oggi hanno paura e il futuro fa paura; ma se c’è una scelta che esige speranza nel futuro, è la scelta di sposarsi. Sono questi gli interrogativi fondamentali, oggi. Ho l’impressione che se Gesù si presentasse all’improvviso a un convegno di preti, vescovi e cardinali che stanno discutendo di tutti i gravi problemi del matrimonio e della famiglia, e gli chiedessero come fecero i farisei: “Maestro, ma il matrimonio è dissolubile o indissolubile? O ci sono dei casi, dopo una debita penitenza…?”.Gesù cosa risponderebbe? Penso la stessa risposta data ai farisei: “Guardate al Principio”. Il fatto è che ora si vogliono guarire dei sintomi senza affrontare seriamente la malattia. Il Sinodo quindi non potrà evitare di prendere posizione di fronte a questo dilemma: il modo in cui s’è andata evolvendo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia è positivo per le persone, per le loro relazioni e per la società, o invece costituisce un decadimento delle persone, delle loro relazioni, che può avere effetti devastanti sull’intera civiltà? Questa domanda il Sinodo non la può evitare. La Chiesa non può considerare che questi fatti (giovani che non si sposano, libere convivenze in aumento esponenziale, introduzione del c.d. matrimonio omosessuale negli ordinamenti giuridici, e altro ancora) siano derive storiche, processi storici di cui essa deve prendere atto e dunque sostanzialmente adeguarsi. No. Giovanni Paolo II scriveva nella Bottega dell’Orefice che “creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto”. Anche la Chiesa, dunque, deve smettere di farci sentire il respiro dell’eternità dentro all’amore umano? Deus avertat!

Si parla della possibilità di riammettere all’Eucaristia i divorziati risposati. Una delle soluzioni proposte dal cardinale Kasper ha a che fare con un periodo di penitenza che porti al pieno riaccostamento. È una necessità ormai ineludibile o è un adeguamento dell’insegnamento cristiano a seconda delle circostanze?
Chi fa questa ipotesi, almeno finora non ha risposto a una domanda molto semplice: che ne è del primo matrimonio rato e consumato? Se la Chiesa ammette all’Eucarestia, deve dare comunque un giudizio di legittimità alla seconda unione. È logico. Ma allora - come chiedevo - che ne è del primo matrimonio? Il secondo, si dice, non può essere un vero secondo matrimonio, visto che la bigamia è contro la parola del Signore. E il primo? È sciolto? Ma i papi hanno sempre insegnato che la potestà del Papa non arriva a questo: sul matrimonio rato e consumato il Papa non ha nessun potere. La soluzione prospettata porta a pensare che resta il primo matrimonio, ma c’è anche una seconda forma di convivenza che la Chiesa legittima. Quindi, c’è un esercizio della sessualità umana extraconiugale che la Chiesa considera legittima. Ma con questo si nega la colonna portante della dottrina della Chiesa sulla sessualità. A questo punto uno potrebbe domandarsi: e perché non si approvano le libere convivenze? E perché non i rapporti tra gli omosessuali? La domanda di fondo è dunque semplice: che ne è del primo matrimonio? Ma nessuno risponde. Giovanni Paolo II diceva nel 2000 in un’allocuzione alla Rota che “emerge con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante atto definitorio”. La formula è tecnica, “dottrina da tenersi definitivamente”: vuol dire che su questo non è più ammessa la discussione fra i teologi e il dubbio tra i fedeli.

Quindi non è questione solo di prassi, ma anche di dottrina?
Sì, qui si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo.

Non c’è però il rischio di guardare al sacramento solo come una sorta di barriera disciplinare e non come un mezzo di guarigione?
È vero che la grazia del sacramento è anche sanante, ma bisogna vedere in che senso. La grazia del matrimonio sana perché libera l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi per sempre con tutta la pienezza del loro essere. Questa è la medicina del matrimonio: la capacità di amarsi per sempre. Sanare significa questo, non che si fa stare un po’ meglio la persona che in realtà rimane ammalata, cioè costitutivamente ancora incapace di definitività. L’indissolubilità matrimoniale è un dono che viene fatto da Cristo all’uomo e alla donna che si sposano in lui. È un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere. E’ un dono e Dio non si pente mai dei suoi doni. Non a caso Gesù, rispondendo ai farisei, fonda la sua risposta rivoluzionaria su un atto divino. ‘Ciò che Dio ha unito’, dice Gesù. E’ Dio che unisce, altrimenti la definitività resterebbe un desiderio che è sì naturale, ma impossibile a realizzarsi. Dio stesso dona compimento. L’uomo può anche decidere di non usare di questa capacità di amare definitivamente e totalmente. La teologia cattolica ha poi concettualizzato questa visione di fede attraverso il concetto di vincolo coniugale. Il matrimonio, il segno sacramentale del matrimonio produce immediatamente tra i coniugi un vincolo che non dipende più dalla loro volontà, perché è un dono che Dio ha fatto loro. Queste cose ai giovani che oggi si sposano non vengono dette. E poi ci meravigliamo se succedono certe cose.

Un dibattito molto appassionato si è articolato attorno al senso della misericordia. Che valore ha questa parola?
Prendiamo la pagina di Gesù e dell’adultera. Per la donna trovata in flagrante adulterio, la legge mosaica era chiara: doveva essere lapidata. I farisei infatti chiedono a Gesù cosa ne pensasse, con l’obiettivo di attirarlo dentro la loro prospettiva. Se avesse detto “lapidatela”, subito avrebbero detto “Ecco, lui che predica misericordia, che va a mangiare con i peccatori, quando è il momento dice anche lui di lapidarla”. Se avesse detto “non dovete lapidarla”, avrebbero detto “ecco a cosa porta la misericordia, a distruggere la legge e ogni vincolo giuridico e morale”. Questa è la tipica prospettiva della morale casuistica, che ti porta inevitabilmente in un vicolo alla fine del quale c’è il dilemma tra la persona e la legge. I farisei tentavano di portare in questo vicolo Gesù. Ma lui esce totalmente da questa prospettiva, e dice che l’adulterio è un grande male che distrugge la verità della persona umana che tradisce. E proprio perché è un grande male, Gesù, per toglierlo, non distrugge la persona che lo ha commesso, ma la guarisce da questo male e raccomanda di non incorrere in questo grande male che è l’adulterio. «Neanche io ti condanno, va e non peccare più». Questa è la misericordia di cui solo il Signore è capace. Questa è la misericordia che la Chiesa, di generazione in generazione, annuncia. La Chiesa deve dire che cosa è male. Ha ricevuto da Gesù il potere di guarire, ma alla stessa condizione. È verissimo che il perdono è sempre possibile: lo è per l’assassino, lo è anche per l’adultero. Era già una difficoltà che facevano i fedeli ad Agostino: si perdona l’omicidio, ma nonostante ciò la vittima non risorge. Perché non perdonare il divorzio, questo stato di vita, il nuovo matrimonio, anche se una “reviviscenza” del primo non è più possibile? La cosa è completamente diversa. Nell’omicidio si perdona una persona che ha odiato un’altra persona, e si chiede il pentimento su questo. La Chiesa in fondo si addolora non perché una vita fisica è terminata, bensì perché nel cuore dell’uomo c’è stato un tale odio da indurre perfino a sopprimere la vita fisica di una persona. Questo è il male, dice la Chiesa. Ti devi pentire di questo e ti perdonerò. Nel caso del divorziato risposato, la Chiesa dice: “Questo è il male: il rifiuto del dono di Dio, la volontà di spezzare il vincolo messo in atto dal Signore stesso”. La Chiesa perdona, ma a condizione che ci sia il pentimento. Ma il pentimento in questo caso significa tornare al primo matrimonio. Non è serio dire: sono pentito ma resto nello stesso stato che costituisce la rottura del vincolo, della quale mi pento. Spesso - si dice - non è possibile. Ci sono tante circostanze, certo, ma allora in queste condizioni quella persona è in uno stato di vita oggettivamente contrario al dono di Dio. La Familiaris Consortio lo dice esplicitamente. La ragione per cui la Chiesa non ammette i divorziati-risposati all’Eucaristia non è perché la Chiesa presuma che tutti coloro che vivono in queste condizioni siano in peccato mortale. La condizione soggettiva di queste persone la conosce il Signore, che guarda nella profondità del cuore. Lo dice anche San Paolo: “Non vogliate giudicare prima del tempo”. Ma perché - ed è scritto sempre nella Familiaris Consortio - “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quella unione di amore fra Cristo e la Chiesa significata e attuata dall’Eucaristia” (FC 84). La misericordia della Chiesa è quella di Gesù, quella che dice che è stata deturpata la dignità di sposo, il rifiuto del dono di Dio. La misericordia non dice: “Pazienza, vediamo di rimediare come possiamo”. Questa è la tolleranza essenzialmente diversa dalla misericordia. La tolleranza lascia le cose come sono per ragioni superiori. La misericordia è la potenza di Dio che toglie dallo stato di ingiustizia.

Non si tratta di accomodamento, dunque.
Non è un accomodamento, sarebbe indegno del Signore una cosa del genere. Per fare gli accomodamenti bastano gli uomini. Qui si tratta di rigenerare una persona umana, e di questo è capace solo Dio e in suo nome la Chiesa. San Tommaso dice che la giustificazione di un peccatore è un’opera più grande che la creazione dell’universo. Quando viene giustificato un peccatore, accade qualcosa che è più grande di tutto l’universo. Un atto che magari avviene in un confessionale, attraverso un sacerdote umile, povero. Ma lì si compie un atto più grande della creazione del mondo. Non dobbiamo ridurre la misericordia ad accomodamenti, o confonderla con la tolleranza. Questo è ingiusto verso l’opera del Signore.

Uno degli assunti più citati da chi auspica un’apertura della Chiesa alle persone che vivono in situazioni considerate irregolari è che la fede è una ma i modi per applicarla alle circostanze particolari devono essere adeguati ai tempi, come la Chiesa ha sempre fatto. Lei che ne pensa?
La Chiesa può limitarsi ad andare là dove la portano i processi storici come fossero derive naturali? Consiste in questo annunciare il Vangelo? Io non lo credo, perché altrimenti mi chiedo come si faccia a salvare l’uomo. Le racconto un episodio. Una sposa ancora giovane, abbandonata dal marito, mi ha detto che vive nella castità ma fa una fatica terribile. Perché, dice, “non sono una suora, ma una donna normale”. Ma mi ha detto che non potrebbe vivere senza Eucaristia. E quindi anche il peso della castità diventa leggero, perché pensa all’Eucaristia. Un altro caso. Una signora con quattro figli è stata abbandonata dal marito dopo più di vent’anni di matrimonio. La signora mi dice che in quel momento ha capito che doveva amare il marito nella croce, “come Gesù ha fatto con me”. Perché non si parla di queste meraviglie della grazia di Dio? Queste due donne non si sono adeguate ai tempi? Certo che non si sono adeguate ai tempi. Resto, le assicuro, molto male nel prendere atto del silenzio, in queste settimane di discussione, sulla grandezza di spose e sposi che, abbandonati, restano fedeli. Ha ragione il professor Grygiel quando scrive che a Gesù non interessa molto cosa pensa la gente di lui. Interessa cosa pensano i suoi apostoli. Quanti parroci e vescovi potrebbero testimoniare episodi di fedeltà eroica. Dopo un paio d’anni che ero qui a Bologna, ho voluto incontrare i divorziati-risposati. Erano più di trecento coppie. Siamo stati assieme un’intera domenica pomeriggio. Alla fine, più d’uno m’ha detto di aver capito che la Chiesa è veramente madre quando impedisce di ricevere l’Eucaristia. Non potendo ricevere l’Eucaristia, comprendono quanto sia grande il matrimonio cristiano, e bello il Vangelo del matrimonio.

Sempre più spesso viene sollevato il tema del rapporto tra il confessore e il penitente, anche come possibile soluzione per venire incontro alla sofferenza di chi ha visto fallire il proprio progetto di vita. Qual è il suo pensiero?
La tradizione della Chiesa ha sempre distinto - distinto, non separato - il suo compito magisteriale dal ministero del confessore. Usando un’immagine, potremmo dire che ha sempre distinto il pulpito dal confessionale. Una distinzione che non vuol significare una doppiezza, bensì che la Chiesa dal pulpito, quando parla del matrimonio, testimonia una verità che non è prima di tutto una norma, un ideale verso cui tendere. A questo momento entra con amorevolezza il confessore, che dice al penitente: “Quanto hai sentito dal pulpito, è la tua verità, la quale ha a che fare con la tua libertà, ferita e fragile”. Il confessore conduce il penitente in cammino verso la pienezza del suo bene. Non è che il rapporto tra il pulpito e il confessionale sia il rapporto tra l’universale e il particolare. Questo lo pensano i casuisti, soprattutto nel Seicento. Davanti al dramma dell’uomo, il compito del confessore non è di far ricorso alla logica che sa passare dall’universale al singolare. Il dramma dell’uomo non dimora nel passaggio dall’universale al singolare. Dimora nel rapporto tra la verità della sua persona e la sua libertà. Questo è il cuore del dramma umano, perché io con la mia libertà posso negare ciò che ho appena affermato con la mia ragione. Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male. Il dramma è questo. Il confessore si pone dentro questo dramma, non al meccanismo universale-particolare. Se lo facesse inevitabilmente cadrebbe nell’ipocrisia e sarebbe portato a dire “va bene, questa è la legge universale, però siccome tu ti trovi in queste circostanze, non sei obbligato”. Inevitabilmente, si elaborerebbe una fattispecie ricorrendo la quale, la legge diventa eccepibile. Ipocritamente, dunque, il confessore avrebbe già promulgato un’altra legge accanto a quella predicata dal pulpito. Questa è ipocrisia! Guai se il confessore non ricordasse mai alla persona che si trova davanti che siamo in cammino. Si rischierebbe, in nome del Vangelo della misericordia, di vanificare il Vangelo dalla misericordia. Su questo punto Pascal ha visto giusto nelle sue Provinciali, per altri versi profondamente ingiuste. Alla fine l’uomo potrebbe convincersi che non è ammalato, e quindi non è bisognoso di Gesù Cristo. Uno dei miei maestri, il servo di Dio padre Cappello, grande professore di diritto canonico, diceva che quando si entra in confessionale non bisogna seguire la dottrina dei teologi, ma l’esempio dei santi.