lunedì 17 marzo 2014

Il vero tema è la verità del matrimonio di Matteo Matzuzzi, 17-03-2014, www.lanuovabq.it

Ripubblichiamo l'intervista del quotidiano "Il Foglio" all'arcivescovo di Bologna, cardinale Carlo Caffarra, che risponde alla relazione in Concistoro del cardinale Walter Kasper sul senso del matrimonio e sulla pastorale per i casi difficili, come quello dei divorziati risposati. Questa intervista riprende gli stessi contenuti già espressi dal cardinale Caffarra in Concistoro, una critica radicale all'approccio offerto dal cardinale Kasper. L'intervista è lunga, ma si tratta di un documento teologico importante che ben rappresenta la tradizione della Chiesa a difesa dell'indissolubilità del matrimonio.

La “Familiaris Consortio” di Giovanni Paolo II è al centro di un fuoco incrociato. Da una parte si dice che è il fondamento del Vangelo della famiglia, dall’altra che è un testo superato. È pensabile un suo aggiornamento?
Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale, è vero che al tempo della Familiaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati-risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980. Dire che la Familiaris Consortio è nata in un contesto storico completamente diverso da quello di oggi, non è vero. Fatta questa precisazione, dico che prima di tutto la Familiaris Consortio ci ha insegnato un metodo con cui si deve affrontare le questioni del matrimonio e della famiglia. Usando questo metodo è giunta a una dottrina che resta un punto di riferimento ineliminabile. Quale metodo? Quando a Gesù fu chiesto a quali condizioni era lecito il divorzio, della liceità come tale non si discuteva a quel tempo, Gesù non entra nella problematica casuistica da cui nasceva la domanda, ma indica in quale direzione si doveva guardare per capire che cosa è il matrimonio e di conseguenza quale è la verità dell’indissolubilità matrimoniale. Era come se Gesù dicesse: “Guardate che voi dovete uscire da questa logica casuistica e guardare in un’altra direzione, quella del Principio”. Cioè: dovete guardare là dove l’uomo e la donna vengono all’esistenza nella verità piena del loro essere uomo e donna chiamati a diventare una sola carne. In una catechesi, Giovanni Paolo II dice: “Sorge allora cioè quando l’uomo è posto per la prima volta di fronte alla donna la persona umana nella dimensione del dono reciproco la cui espressione (che è l’espressione anche della sua esistenza come persona) è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità”. Questo è il metodo della Familiaris Consortio.

Qual è il significato più profondo e attuale della “Familiaris Consortio”?
"Per avere occhi capaci di guardare dentro la luce del Principio", la Familiaris Consortio afferma che la Chiesa ha un soprannaturale senso della fede, il quale non consiste solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l’opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere. E in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico. Tale ricerca per sé sola, però, non è da ritenersi espressione del senso della fede (FC 5). Ho parlato di verità del matrimonio. Vorrei precisare che questa espressione non denota una norma ideale del matrimonio. Denota ciò che Dio con il suo atto creativo ha inscritto nella persona dell’uomo e della donna. Cristo dice che prima di considerare i casi, bisogna sapere di che cosa stiamo parlando. Non stiamo parlando di una norma che ammette o non eccezioni, di un ideale a cui tendere. Stiamo parlando di ciò che sono il matrimonio e la famiglia. Attraverso questo metodo la Familiaris Consortio, individua che cosa è il matrimonio e la famiglia e quale è il suo genoma - uso l’espressione del sociologo Donati -, che non è un genoma naturale, ma sociale e comunionale. È dentro questa prospettiva che l’Esortazione individua il senso più profondo della indissolubilità matrimoniale (cfr. FC 20). La Familiaris Consortio quindi ha rappresentato uno sviluppo dottrinale grandioso, reso possibile anche dal ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano. Nella prima di queste catechesi, il 3 settembre 1979, Giovanni Paolo II dice che intende accompagnare come da lontano i lavori preparatori del Sinodo che si sarebbe tenuto l’anno successivo. Non l’ha fatto affrontando direttamente temi dell’assise sinodale, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde. È come se avesse detto, Io Giovanni Paolo II voglio aiutare i padri sinodali. Come li aiuto? Portandoli alla radice delle questioni. È da questo ritorno alle radici che nasce la grande dottrina sul matrimonio e la famiglia data alla Chiesa dalla Familiaris Consortio. E non ha ignorato i problemi concreti. Ha parlato anche del divorzio, delle libere convivenze, del problema dell’ammissione dei divorziati-risposati all’Eucaristia. L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato; che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta.

Molte conferenze episcopali hanno sottolineato che dalle risposte ai questionari in preparazione dei prossimi due Sinodi, emerge che la dottrina della “Humanae Vitae” crea ormai solo confusione. È così, o è stato un testo profetico?
Il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, Paolo VI diceva: «Della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me». Dopo ormai quarantasei anni, vediamo sinteticamente cosa è accaduto all’istituto matrimoniale e ci renderemo conto di come è stato profetico quel documento. Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento della Humanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale. Non c’è dubbio che quando l’Humanae Vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base dell’Humanae Vitae. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra.

Quale?
L’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?
Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime da una norma, ma, qual è il bene del rapporto coniugale. Qual è la sua verità intima. Mi stupisce che qualcuno dica che l’Humanae Vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae Vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti? È al corrente di innumerevoli coppie che nel mondo vivono con gioia la verità di Humanae Vitae?

Il cardinale Kasper sottolinea che ci sono grandi aspettative nella Chiesa in vista del Sinodo e che si corre il rischio di una pessima delusione se queste fossero disattese. Un rischio concreto, a suo giudizio?
Non sono un profeta né sono figlio di profeti. Accade un evento mirabile. Quando il pastore non predica opinioni sue o del mondo, ma il Vangelo del matrimonio, le sue parole colpiscono le orecchie degli uditori, ma nel loro cuore entra in azione lo Spirito Santo che lo apre alle parole del pastore. Mi domando poi delle attese di chi stiamo parlando. Una grande rete televisiva statunitense ha compiuto un’inchiesta su comunità cattoliche sparse in tutto il mondo. Essa fotografa una realtà molto diversa dalle risposte al questionario registrate in Germania, Svizzera e Austria. Un solo esempio. Il 75 per cento della maggior parte dei paesi africani è contrario all’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Ripeto ancora: di quali attese stiamo parlando? Di quelle dell’Occidente? È dunque l’Occidente il paradigma fondamentale in base al quale la Chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?

Il cardinale Müller ha detto che è deprecabile che i cattolici non conoscano la dottrina della Chiesa e che questa mancanza non può giustificare l’esigenza di adeguare l’insegnamento cattolico allo spirito del tempo. Manca una pastorale familiare?
È mancata. È una gravissima responsabilità di noi pastori ridurre tutto ai corsi prematrimoniali. E l’educazione all’affettività degli adolescenti, dei giovani? Quale pastore d’anime parla ancora di castità? Un silenzio pressoché totale, da anni, per quanto mi risulta. Guardiamo all’accompagnamento delle giovani coppie: chiediamoci se abbiamo annunciato veramente il Vangelo del matrimonio, se l’abbiamo annunciato come ha chiesto Gesù. E poi, perché non ci domandiamo perché i giovani non si sposano più? Non è sempre per ragioni economiche, come solitamente si dice. Parlo della situazione dell’Occidente. Se si fa un confronto tra i giovani che si sposavano fino a trent’anni fa e oggi, le difficoltà che avevano trenta o quarant’anni fa non erano minori rispetto a oggi. Ma quelli costruivano un progetto, avevano una speranza. Oggi hanno paura e il futuro fa paura; ma se c’è una scelta che esige speranza nel futuro, è la scelta di sposarsi. Sono questi gli interrogativi fondamentali, oggi. Ho l’impressione che se Gesù si presentasse all’improvviso a un convegno di preti, vescovi e cardinali che stanno discutendo di tutti i gravi problemi del matrimonio e della famiglia, e gli chiedessero come fecero i farisei: “Maestro, ma il matrimonio è dissolubile o indissolubile? O ci sono dei casi, dopo una debita penitenza…?”.Gesù cosa risponderebbe? Penso la stessa risposta data ai farisei: “Guardate al Principio”. Il fatto è che ora si vogliono guarire dei sintomi senza affrontare seriamente la malattia. Il Sinodo quindi non potrà evitare di prendere posizione di fronte a questo dilemma: il modo in cui s’è andata evolvendo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia è positivo per le persone, per le loro relazioni e per la società, o invece costituisce un decadimento delle persone, delle loro relazioni, che può avere effetti devastanti sull’intera civiltà? Questa domanda il Sinodo non la può evitare. La Chiesa non può considerare che questi fatti (giovani che non si sposano, libere convivenze in aumento esponenziale, introduzione del c.d. matrimonio omosessuale negli ordinamenti giuridici, e altro ancora) siano derive storiche, processi storici di cui essa deve prendere atto e dunque sostanzialmente adeguarsi. No. Giovanni Paolo II scriveva nella Bottega dell’Orefice che “creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto”. Anche la Chiesa, dunque, deve smettere di farci sentire il respiro dell’eternità dentro all’amore umano? Deus avertat!

Si parla della possibilità di riammettere all’Eucaristia i divorziati risposati. Una delle soluzioni proposte dal cardinale Kasper ha a che fare con un periodo di penitenza che porti al pieno riaccostamento. È una necessità ormai ineludibile o è un adeguamento dell’insegnamento cristiano a seconda delle circostanze?
Chi fa questa ipotesi, almeno finora non ha risposto a una domanda molto semplice: che ne è del primo matrimonio rato e consumato? Se la Chiesa ammette all’Eucarestia, deve dare comunque un giudizio di legittimità alla seconda unione. È logico. Ma allora - come chiedevo - che ne è del primo matrimonio? Il secondo, si dice, non può essere un vero secondo matrimonio, visto che la bigamia è contro la parola del Signore. E il primo? È sciolto? Ma i papi hanno sempre insegnato che la potestà del Papa non arriva a questo: sul matrimonio rato e consumato il Papa non ha nessun potere. La soluzione prospettata porta a pensare che resta il primo matrimonio, ma c’è anche una seconda forma di convivenza che la Chiesa legittima. Quindi, c’è un esercizio della sessualità umana extraconiugale che la Chiesa considera legittima. Ma con questo si nega la colonna portante della dottrina della Chiesa sulla sessualità. A questo punto uno potrebbe domandarsi: e perché non si approvano le libere convivenze? E perché non i rapporti tra gli omosessuali? La domanda di fondo è dunque semplice: che ne è del primo matrimonio? Ma nessuno risponde. Giovanni Paolo II diceva nel 2000 in un’allocuzione alla Rota che “emerge con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante atto definitorio”. La formula è tecnica, “dottrina da tenersi definitivamente”: vuol dire che su questo non è più ammessa la discussione fra i teologi e il dubbio tra i fedeli.

Quindi non è questione solo di prassi, ma anche di dottrina?
Sì, qui si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo.

Non c’è però il rischio di guardare al sacramento solo come una sorta di barriera disciplinare e non come un mezzo di guarigione?
È vero che la grazia del sacramento è anche sanante, ma bisogna vedere in che senso. La grazia del matrimonio sana perché libera l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi per sempre con tutta la pienezza del loro essere. Questa è la medicina del matrimonio: la capacità di amarsi per sempre. Sanare significa questo, non che si fa stare un po’ meglio la persona che in realtà rimane ammalata, cioè costitutivamente ancora incapace di definitività. L’indissolubilità matrimoniale è un dono che viene fatto da Cristo all’uomo e alla donna che si sposano in lui. È un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere. E’ un dono e Dio non si pente mai dei suoi doni. Non a caso Gesù, rispondendo ai farisei, fonda la sua risposta rivoluzionaria su un atto divino. ‘Ciò che Dio ha unito’, dice Gesù. E’ Dio che unisce, altrimenti la definitività resterebbe un desiderio che è sì naturale, ma impossibile a realizzarsi. Dio stesso dona compimento. L’uomo può anche decidere di non usare di questa capacità di amare definitivamente e totalmente. La teologia cattolica ha poi concettualizzato questa visione di fede attraverso il concetto di vincolo coniugale. Il matrimonio, il segno sacramentale del matrimonio produce immediatamente tra i coniugi un vincolo che non dipende più dalla loro volontà, perché è un dono che Dio ha fatto loro. Queste cose ai giovani che oggi si sposano non vengono dette. E poi ci meravigliamo se succedono certe cose.

Un dibattito molto appassionato si è articolato attorno al senso della misericordia. Che valore ha questa parola?
Prendiamo la pagina di Gesù e dell’adultera. Per la donna trovata in flagrante adulterio, la legge mosaica era chiara: doveva essere lapidata. I farisei infatti chiedono a Gesù cosa ne pensasse, con l’obiettivo di attirarlo dentro la loro prospettiva. Se avesse detto “lapidatela”, subito avrebbero detto “Ecco, lui che predica misericordia, che va a mangiare con i peccatori, quando è il momento dice anche lui di lapidarla”. Se avesse detto “non dovete lapidarla”, avrebbero detto “ecco a cosa porta la misericordia, a distruggere la legge e ogni vincolo giuridico e morale”. Questa è la tipica prospettiva della morale casuistica, che ti porta inevitabilmente in un vicolo alla fine del quale c’è il dilemma tra la persona e la legge. I farisei tentavano di portare in questo vicolo Gesù. Ma lui esce totalmente da questa prospettiva, e dice che l’adulterio è un grande male che distrugge la verità della persona umana che tradisce. E proprio perché è un grande male, Gesù, per toglierlo, non distrugge la persona che lo ha commesso, ma la guarisce da questo male e raccomanda di non incorrere in questo grande male che è l’adulterio. «Neanche io ti condanno, va e non peccare più». Questa è la misericordia di cui solo il Signore è capace. Questa è la misericordia che la Chiesa, di generazione in generazione, annuncia. La Chiesa deve dire che cosa è male. Ha ricevuto da Gesù il potere di guarire, ma alla stessa condizione. È verissimo che il perdono è sempre possibile: lo è per l’assassino, lo è anche per l’adultero. Era già una difficoltà che facevano i fedeli ad Agostino: si perdona l’omicidio, ma nonostante ciò la vittima non risorge. Perché non perdonare il divorzio, questo stato di vita, il nuovo matrimonio, anche se una “reviviscenza” del primo non è più possibile? La cosa è completamente diversa. Nell’omicidio si perdona una persona che ha odiato un’altra persona, e si chiede il pentimento su questo. La Chiesa in fondo si addolora non perché una vita fisica è terminata, bensì perché nel cuore dell’uomo c’è stato un tale odio da indurre perfino a sopprimere la vita fisica di una persona. Questo è il male, dice la Chiesa. Ti devi pentire di questo e ti perdonerò. Nel caso del divorziato risposato, la Chiesa dice: “Questo è il male: il rifiuto del dono di Dio, la volontà di spezzare il vincolo messo in atto dal Signore stesso”. La Chiesa perdona, ma a condizione che ci sia il pentimento. Ma il pentimento in questo caso significa tornare al primo matrimonio. Non è serio dire: sono pentito ma resto nello stesso stato che costituisce la rottura del vincolo, della quale mi pento. Spesso - si dice - non è possibile. Ci sono tante circostanze, certo, ma allora in queste condizioni quella persona è in uno stato di vita oggettivamente contrario al dono di Dio. La Familiaris Consortio lo dice esplicitamente. La ragione per cui la Chiesa non ammette i divorziati-risposati all’Eucaristia non è perché la Chiesa presuma che tutti coloro che vivono in queste condizioni siano in peccato mortale. La condizione soggettiva di queste persone la conosce il Signore, che guarda nella profondità del cuore. Lo dice anche San Paolo: “Non vogliate giudicare prima del tempo”. Ma perché - ed è scritto sempre nella Familiaris Consortio - “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quella unione di amore fra Cristo e la Chiesa significata e attuata dall’Eucaristia” (FC 84). La misericordia della Chiesa è quella di Gesù, quella che dice che è stata deturpata la dignità di sposo, il rifiuto del dono di Dio. La misericordia non dice: “Pazienza, vediamo di rimediare come possiamo”. Questa è la tolleranza essenzialmente diversa dalla misericordia. La tolleranza lascia le cose come sono per ragioni superiori. La misericordia è la potenza di Dio che toglie dallo stato di ingiustizia.

Non si tratta di accomodamento, dunque.
Non è un accomodamento, sarebbe indegno del Signore una cosa del genere. Per fare gli accomodamenti bastano gli uomini. Qui si tratta di rigenerare una persona umana, e di questo è capace solo Dio e in suo nome la Chiesa. San Tommaso dice che la giustificazione di un peccatore è un’opera più grande che la creazione dell’universo. Quando viene giustificato un peccatore, accade qualcosa che è più grande di tutto l’universo. Un atto che magari avviene in un confessionale, attraverso un sacerdote umile, povero. Ma lì si compie un atto più grande della creazione del mondo. Non dobbiamo ridurre la misericordia ad accomodamenti, o confonderla con la tolleranza. Questo è ingiusto verso l’opera del Signore.

Uno degli assunti più citati da chi auspica un’apertura della Chiesa alle persone che vivono in situazioni considerate irregolari è che la fede è una ma i modi per applicarla alle circostanze particolari devono essere adeguati ai tempi, come la Chiesa ha sempre fatto. Lei che ne pensa?
La Chiesa può limitarsi ad andare là dove la portano i processi storici come fossero derive naturali? Consiste in questo annunciare il Vangelo? Io non lo credo, perché altrimenti mi chiedo come si faccia a salvare l’uomo. Le racconto un episodio. Una sposa ancora giovane, abbandonata dal marito, mi ha detto che vive nella castità ma fa una fatica terribile. Perché, dice, “non sono una suora, ma una donna normale”. Ma mi ha detto che non potrebbe vivere senza Eucaristia. E quindi anche il peso della castità diventa leggero, perché pensa all’Eucaristia. Un altro caso. Una signora con quattro figli è stata abbandonata dal marito dopo più di vent’anni di matrimonio. La signora mi dice che in quel momento ha capito che doveva amare il marito nella croce, “come Gesù ha fatto con me”. Perché non si parla di queste meraviglie della grazia di Dio? Queste due donne non si sono adeguate ai tempi? Certo che non si sono adeguate ai tempi. Resto, le assicuro, molto male nel prendere atto del silenzio, in queste settimane di discussione, sulla grandezza di spose e sposi che, abbandonati, restano fedeli. Ha ragione il professor Grygiel quando scrive che a Gesù non interessa molto cosa pensa la gente di lui. Interessa cosa pensano i suoi apostoli. Quanti parroci e vescovi potrebbero testimoniare episodi di fedeltà eroica. Dopo un paio d’anni che ero qui a Bologna, ho voluto incontrare i divorziati-risposati. Erano più di trecento coppie. Siamo stati assieme un’intera domenica pomeriggio. Alla fine, più d’uno m’ha detto di aver capito che la Chiesa è veramente madre quando impedisce di ricevere l’Eucaristia. Non potendo ricevere l’Eucaristia, comprendono quanto sia grande il matrimonio cristiano, e bello il Vangelo del matrimonio.

Sempre più spesso viene sollevato il tema del rapporto tra il confessore e il penitente, anche come possibile soluzione per venire incontro alla sofferenza di chi ha visto fallire il proprio progetto di vita. Qual è il suo pensiero?
La tradizione della Chiesa ha sempre distinto - distinto, non separato - il suo compito magisteriale dal ministero del confessore. Usando un’immagine, potremmo dire che ha sempre distinto il pulpito dal confessionale. Una distinzione che non vuol significare una doppiezza, bensì che la Chiesa dal pulpito, quando parla del matrimonio, testimonia una verità che non è prima di tutto una norma, un ideale verso cui tendere. A questo momento entra con amorevolezza il confessore, che dice al penitente: “Quanto hai sentito dal pulpito, è la tua verità, la quale ha a che fare con la tua libertà, ferita e fragile”. Il confessore conduce il penitente in cammino verso la pienezza del suo bene. Non è che il rapporto tra il pulpito e il confessionale sia il rapporto tra l’universale e il particolare. Questo lo pensano i casuisti, soprattutto nel Seicento. Davanti al dramma dell’uomo, il compito del confessore non è di far ricorso alla logica che sa passare dall’universale al singolare. Il dramma dell’uomo non dimora nel passaggio dall’universale al singolare. Dimora nel rapporto tra la verità della sua persona e la sua libertà. Questo è il cuore del dramma umano, perché io con la mia libertà posso negare ciò che ho appena affermato con la mia ragione. Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male. Il dramma è questo. Il confessore si pone dentro questo dramma, non al meccanismo universale-particolare. Se lo facesse inevitabilmente cadrebbe nell’ipocrisia e sarebbe portato a dire “va bene, questa è la legge universale, però siccome tu ti trovi in queste circostanze, non sei obbligato”. Inevitabilmente, si elaborerebbe una fattispecie ricorrendo la quale, la legge diventa eccepibile. Ipocritamente, dunque, il confessore avrebbe già promulgato un’altra legge accanto a quella predicata dal pulpito. Questa è ipocrisia! Guai se il confessore non ricordasse mai alla persona che si trova davanti che siamo in cammino. Si rischierebbe, in nome del Vangelo della misericordia, di vanificare il Vangelo dalla misericordia. Su questo punto Pascal ha visto giusto nelle sue Provinciali, per altri versi profondamente ingiuste. Alla fine l’uomo potrebbe convincersi che non è ammalato, e quindi non è bisognoso di Gesù Cristo. Uno dei miei maestri, il servo di Dio padre Cappello, grande professore di diritto canonico, diceva che quando si entra in confessionale non bisogna seguire la dottrina dei teologi, ma l’esempio dei santi.

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