La caccia all’obiettore continua e quando l’attualità non offre appigli per mettere all’angolo il medico non abortista ecco che i radicali rispolverano un cold case. Nel 2010 una donna, Valentina Magnanti, dichiara che al quinto mese di gravidanza è stata costretta ad abortire da sola, unicamente assistita dal marito Fabrizio, nel bagno dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Il caso è stato riesumato dalla solerte avvocato Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni: «Questa è omissione di soccorso , un reato penale, anche se la coppia ha deciso di non denunciare la struttura. È la dimostrazione di come la legge 194 in Italia non garantisca sempre la presenza di un medico non obiettore nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza». Nel mirino anche la legge 40. La donna, intervistata da Repubblica infatti così commenta: «E tutto questo per colpa di una legge sulla fecondazione ingiusta. […]Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l’accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto». E poi chiosa: «Pensate la desolazione che troppi devono vivere, obbligati a implorare per un ricovero, per abortire, come me, un figlio desiderato».
Ma le cose sono andate davvero così? Pare di no a sentire l’ASL, la quale dichiara in una nota: «La signora fu seguita dal personale che ha l'obbligo dell'assistenza anche nel caso di obiezione di coscienza. Nel caso specifico due medici non obiettori che fanno parte dell'équipe istituzionalmente preposta all'Ivg. Abbiamo verificato le dichiarazioni della signora Valentina e a noi risulta che è stata prontamente assistita ed avviata alla sala parto per il 'secondamento' [l'espulsione della placenta] e per le successive procedure previste nel post parto». La tesi sostenuta dall’ASL è avvalorata anche dal fatto che la donna non ha deciso di sporgere denuncia. La signora afferma che non ha intrapreso le vie legali perché “quando è finito tutto non avevo più la forza di fare nulla”, però ci pare strano che l’avv. Gallo, fiutando il colpo grosso per mettere sul banco degli imputati la legge 194, non avesse approfittato dell’occasione. Forse proprio perché c’era solo fumo ma niente arrosto.
Fatto sta che ancora una volta sui media è passato il seguente messaggio: in Italia non si riesce ad abortire perché ci sono troppi obiettori. In cuor nostro nutriremmo anche questa nobile speranza, la speranza che gli obiettori siano zavorre capaci di rallentare la macchina degli aborti di Stato, ma ahinoi non è così. Qualche dato. Il Comitato Nazionale di Bioetica nel luglio del 2012 pubblica un documento dal titolo “Obiezione di coscienza e bioetica” in cui si afferma che “sulla base dei dati disponibili si vede come in alcune regioni all’aumentare degli obiettori di coscienza diminuiscano i tempi di attesa delle donne, e, viceversa, in altre regioni al diminuire del numero di obiettori aumentino i tempi di attesa, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare. In altre parole, non è il numero di obiettori di per sé a determinare l’accesso all’ivg, ma il modo in cui le strutture sanitarie si organizzano nell’applicazione della legge 194/78”.
Alle stesse conclusioni è arrivata anche l’ultima Relazione sullo stato di attuazione della legge 194: dato che ogni medico abortista, su 44 settimane lavorative, deve compiere 1,7 aborti a settimana ciò significa che “eventuali difficoltà nell’accesso ai servizi, quindi, sono probabilmente da ricondursi a una distribuzione non adeguata degli operatori fra le strutture sanitarie, all’interno di ciascuna regione”. Infatti vero è che negli anni il numero di medici obiettori è aumentato ma è rimasto invariato quello dei medici non obiettori. E dato che il numero di aborti chirurgici legali è diminuito, questo ci porta a dire che il carico di lavoro per i medici non obiettori è diminuito anch’esso negli anni. Anche il successivo monitoraggio voluto dal Ministero della Salute per verificare se gli obiettori fossero un intralcio non ha potuto che concludere che la loro presenza è ininfluente sulle pratiche abortive.
Inoltre una recente Risoluzione della XII Commissione Affari sociali del 6 marzo scorso si esprime in modo analogo affermando che “eventuali difficoltà nell'accesso ai percorsi Ivg sembrano quindi dovute a una distribuzione inadeguata del personale fra le strutture sanitarie all'interno di ciascuna regione”.
Infine un dato da non sottovalutare: dal 1978 ad oggi quante denunce sono state fatte perché una donna non ha potuto ottenere l’aborto che desiderava? Zero. Questo per dire che obiettori o non obiettori la mattanza di Stato non ha mai subito il minimo arresto.
Torniamo da ultimo alla vicenda dell’ospedale Pertini. Due riflessioni. Ancora una volta in tutta questa vicenda ci siamo dimenticati dell’attore principale: quel bambino ucciso al quinto mese di vita per volontà della madre. Seconda considerazione tanto scomoda quanto vera. L’aborto è un crimine e da che mondo è mondo chi accetta di commettere un crimine si assume anche la responsabilità dei danni che questa azione può provocare a se stesso. Se vuoi fare il male accetta anche le conseguenze negative che ricadranno sulla tua persona, accetta i rischi e i pericoli di questa tua scelta. Non si è mai visto un rapinatore inveire contro lo Stato perché non gli garantisce “una rapina sicura, senza rischi, né incidenti”. Ma nel nostro ordinamento c’è un’eccezione: l’aborto. Pratica letale la quale deve essere compiuta in tutta sicurezza per la donna.
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