L’altro obiettivo che la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza doveva raggiungere, era quello di tutelare la salute fisica e psichica della donna posta di fronte ad una gravidanza indesiderata, e dai pericoli a cui costei sarebbe andata incontro nel sottoporsi ad un aborto casalingo fai-da-te o clandestino. Peccato però che, anche in questo caso, le cose non sono andate come previsto: la 194 non ha fallito unicamente il proposito di cancellare l’aborto clandestino, ma anche quello di tutelare la salute della donna perché, il tanto propagandato aborto sicuro, cioè senza conseguenze sulla salute, in realtà non esiste.
Il motivo è di facile comprensione: l’aborto non è una passeggiata; anche se la gravidanza indesiderata è equiparata ad una malattia da debellare, interromperla non è di certo come curare il raffreddore o l’influenza stagionale. L’aborto, qualsiasi aborto (legale, illegale, casalingo, in ospedale, chirurgico, farmacologico), coinvolge la donna nella sua totalità: biologica, psicologica e spirituale. Dal punto di vista fisico esso dà un brusco contrordine al corpo, mediante il blocco di un processo naturale complesso, provocando – chimicamente o meccanicamente – un trauma, foriero di complicanze e rischi per la salute sia nell’immediato che nel breve e lungo periodo. Molte conseguenze si registrano anche a livello psicologico, generate dal fatto che la donna sa di non aver curato alcuna malattia, aspirato una “cisti” o un mero “grumo di sangue”, con l’aborto a cui si è sottoposta. La donna sa che quello era un bambino, il figlio al quale lei ha impedito di venire al mondo. Da questa consapevolezza discendono anche le conseguenze a livello spirituale o morale.
Conseguenze sulla salute fisica
Con l’aborto chirurgico eseguito tramite aspirazione o raschiamento, possono presentarsi i seguenti effetti collaterali e rischi:
Infezioni
Dovute all’inserimento degli attrezzi chirurgici o a parti del feto non asportate per errore dall’utero (aborto incompleto). Un’infezione pelvica può causare febbre persistente e la necessità di un ricovero ospedaliero. Un articolo pubblicato il 15 novembre 1984 sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology, intitolato “Postabortal pelvic infection associated with Chlamydia trachomatis and the influence of humeral immunity”, ha sottolineato che “l’infezione pelvica è una complicanza frequente e grave dell’aborto procurato nel 30% dei casi”. I rischi che ne conseguono riguardano: “infertilità futura, dolore addominale cronico, gravidanze ectopiche”[1].
Danno cervicale
La cervice uterina può essere tagliata, lacerata o danneggiata durante le operazioni di dilatazione del collo dell’utero, o dall’uso degli attrezzi chirurgici durante l’intervento.
Perforazione e cicatrizzazione della parete uterina
Anche l’utero può essere perforato o lacerato dagli attrezzi chirurgici che, nei casi più gravi, potrebbe richiedere un’isterectomia d’emergenza (asportazione dell’utero), con l’ulteriore conseguenza di perdita irreversibile della capacità procreativa. Le perforazioni uterine sono pericolose non solo perché possono provocare emorragie interne, potenzialmente letali, ma anche perché lasciano tessuto cicatriziale nella parete dell’utero, in grado di compromettere future gravidanze. Nel numero di agosto 1989 dell’American Journal of Obstetrics and Gynecology, in un articolo intitolato “The frequency and management of uterine perforations during first-trimester abortions”[2], tre noti medici abortisti hanno riconosciuto che le perforazioni uterine, durante gli aborti di routine nel primo trimestre, avvengono sette volte in più di quanto si pensi. Durante il periodo di due anni preso in esame, gli autori hanno praticato 6.408 aborti nel primo trimestre, registrando otto perforazioni uterine, corrispondenti al tasso di perforazione riportato in letteratura (1,3 per 1.000). Durante lo stesso periodo i medici abortisti hanno eseguito ulteriori 706 aborti nel primo trimestre unitamente a sterilizzazione laparoscopica (legatura delle tube), durante i quali hanno scoperto che, se solo due fori erano stati notati al momento della procedura abortiva, il laparoscopio ne aveva rivelati dodici in più, con un conseguente tasso effettivo di perforazione del 19,8 per mille. La fotocamera usata per l’operazione di legatura delle tube aveva, in sostanza, fatto luce su ciò che il più delle volte passa inosservato, portando gli autori a concludere che “la reale incidenza delle perforazioni uterine è significativamente sottostimata” e che la maggior parte delle perforazioni dell’utero, che si verificano durante la procedura di aborto, non viene individuata né trattata.
Emorragie
Emorragie lievi sono normali dopo un aborto. Tuttavia, se il collo dell’utero o l’utero stesso, dovessero essere lacerati o perforati, l’emorragia potrebbe divenire massiva tale da rendere necessaria una trasfusione di sangue ed un intervento nella sede interessata per riparare il danno. Ma le emorragie possono verificarsi anche a causa di residui fetali rimasti in utero.
Lesione di organi interni
Una perforazione o lacerazione dell’utero può causare danni anche agli organi vicini, in particolare alla vescica e all’intestino.
Complicanze relative all’anestesia
Su 100 aborti l’anestesia generale ha un’incidenza di complicazioni nel 3% dei casi, mentre l’anestesia locale nell’1,5%.
Morte
È una circostanza rara ma possibile, quale esito nefasto degli effetti collaterali già descritti.
L’associazione americana “Life Dynamics” ha stilato un elenco – visibile nel suo sito internet (www.lifedynamics.com)[3] – di 348 donne morte dopo aver fatto ricorso a cosiddetti “aborti legali sicuri”, indicando per ciascuna di loro la clinica che ha praticato l’aborto e le circostanze che ne hanno determinato il decesso. L’elenco si chiama “The Blackmun Wall”, in “omaggio” al giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Harry Blackmun, che nel 1973 scrisse la sentenza Roe v. Wade che legalizzò l’aborto negli USA. Agli operatori delle cliniche per aborti come la Planned Parenthood – scrivono gli autori – piace far credere che la sentenza del giudice Blackmun abbia reso l’aborto sicuro e legale, ma la verità è che l’averlo reso legale non lo ha fatto diventare anche sicuro: le procedure di aborto mettono a repentaglio la salute della madre, l’“aborto legale sicuro” ha ucciso ognuna delle donne presenti nell’elenco. Gli autori, quindi, precisano che le centinaia di donne registrate, rappresentano solo la punta dell’iceberg delle morti, in quanto sia le statistiche di Stato che quelle federali riportano un numero ben più elevato di decessi legati all’aborto. Decessi che non è stato possibile inserire nella lista per mancanza di dettagli disponibili, ma anche perché – spiegano gli autori -, per una serie di ragioni la stragrande maggioranza delle morti per aborto rimane sconosciuta.
Queste sono alcune delle donne decedute a causa dell’aborto, elencate nel “Blackmun Wall”: Eurice Agbaaga è morta per emorragia a causa dell’utero perforato e un’arteria addominale recisa. A causa di emorragia a seguito di perforazione uterina sono morte anche Mickey Apodaca, Faith, Gloria Aponte, Tracy, Isabel, Brenda Banks, Myrta Baptiste, Junette Barnes, Nadine, Teresa Causey, Sandra Chmiel, e moltissime altre; molte di loro non ce l’hanno fatta nemmeno dopo l’isterectomia d’emergenza praticata per fermare l’emorragia. Gloria è entrata in coma dopo l’aborto con prostaglandina a 15 settimane di gravidanza; rianimata è rimasta parzialmente paralizzata fino alla morte sopraggiunta cinque mesi dopo. Charisse Ards è morta a causa di un’infezione pelvica subentrata dopo l’aborto. Jacqueline Bailey è morta dopo un aborto salino al secondo trimestre di gravidanza, l’autopsia ha rivelato che l’utero si era lacerato durante il parto e che era morta dissanguata. Betty è morta per cause legate all’anestesia paracervicale subito dopo un aborto eseguito nel primo trimestre di gravidanza. Lori è morta per sepsi dopo un aborto salino a 16 settimane di gestazione. Roxanne ha iniziato ad avere le convulsioni subito dopo l’anestesia locale ed è andata in arresto cardiaco prima che l’aborto (nel primo trimestre della gravidanza) avesse inizio. Brenda Benton è morta un mese dopo l’aborto a causa di una necrosi epatica dovuta ad una reazione tossica all’anestesia generale. Cassandra Bleavins ha subìto una perforazione uterina durante la procedura abortiva, che è stata riparata; due settimane più tardi è tornata in ospedale a causa di una grave emorragia ed è stata sottoposta ad un nuovo intervento per riparare l’arteria che era stata recisa; durante l’intervento è andata in arresto cardiaco; rianimata, è morta tre giorni dopo a causa di un’insufficienza cardiopolmonare a seguito di emorragia da utero perforato e arteria uterina lacerata. Dorothy Brown è morta per emorragia da aborto incompleto dopo un’interruzione nel primo trimestre. Stephanie è morta di emorragia polmonare a causa di un disturbo della coagulazione del sangue sviluppato dopo un aborto al secondo trimestre. Marla Cardamome è morta il giorno dopo l’aborto per coagulazione intravascolare disseminata. Patricia Cachon è morta dissanguata sette ore dopo un aborto a 24 settimane, a causa di una profonda lacerazione della cervice uterina. Ginger è morta di embolia polmonare due giorni dopo un aborto in anestesia generale a 14 settimane di gestazione. Andrea Corey è morta a causa di un’infezione sviluppata a seguito di tessuto abortivo rimasto in utero. Tammy è morta 19 giorni dopo l’aborto a causa di un’infezione. Marina DeChapell è morta durante la procedura abortiva nel primo trimestre di gravidanza a causa di arresto cardio-respiratorio per una reazione all’anestesia. Gaylene Golden e diverse altre donne sono morte a causa di embolia da liquido amniotico. Moris Helen Herron è morta a una settimana dall’aborto, dopo un malessere generale e febbre molto alta, a causa di una perforazione uterina con danneggiamento dell’intestino: l’autopsia ha rivelato fluido fecale e feci nella cavità addominale. Christine Mora è morta di setticemia acuta con emorragia cerebrale cinque giorni dopo l’aborto…
I rischi e le complicazioni aumentano nel caso di aborto effettuato oltre i primi 90 giorni di gravidanza, sia che si applichi il metodo dell’isterotomia (un intervento simile al taglio cesareo); che il metodo del parto indotto (con soluzione salina o prostaglandina); che il metodo di “dilatazione ed evacuazione” (il collo dell’utero viene dilatato in misura maggiore rispetto all’aborto del primo trimestre poi, 1-2 giorni dopo, il feto viene estratto con il forcipe, non prima d’essergli stato schiacciato il cranio per facilitarne la fuoriuscita o, se troppo grande, d’essere stato smembrato). Le stime parlano di serie conseguenze in 1 caso su 100 negli aborti precoci (entro 90 giorni), ed in un 1 caso su 50 negli aborti tardivi. In particolare negli aborti tardivi si possono in più verificare oltre ai rischi precedentemente visti:
Rischio di shock o disturbo della coagulazione Il rischio è lievissimo ed è presente in caso di utilizzo di soluzione salina.
Emorragie Nel parto indotto con soluzione salina o prostaglandine in ragione di 10 casi ogni 1.000 aborti.
Ritenzione della placenta Per 40 casi su 1.000 con la soluzione salina e ancora di più con le prostaglandine.
Nel caso in cui l’aborto sia effettuato col metodo farmacologico, cioè mediate l’uso della pillola Ru486, a dispetto di quello che è propagandato, i tempi si allungano e gli effetti collaterali aumentano. Per capire come mai, esaminiamo il funzionamento di questa procedura abortiva[4].
La donna che ha constatato di essere incinta e ha deciso per l’interruzione, seguendo le procedure della 194 si recherà in un consultorio o dal proprio medico per il primo accertamento, e poi si prenderà una settimana (prevista dalla legge) per riflettere sulla propria decisione. Visti i tempi stretti per l’efficacia dell’Ru486 (il metodo chimico è applicato entro la 7 settimana a partire dalla data di inizio dell’ultimo ciclo mestruale), la donna non avrà molto tempo per cercare soluzioni diverse, come discuterne con il padre del bambino, con un’amica o un familiare; infatti, il tempo che intercorre tra la consapevolezza di essere incinta e la possibilità di accedere alla pillola abortiva è di appena 15 giorni, compresi i 7 di pausa obbligatoria.
Dopo aver deciso per l’aborto, la donna si reca in ospedale per prendere la pasticca di Mifepristone (a seconda dei protocolli in un’unica somministrazione o in tre) e, dopo circa 3/4 ore, può tornare a casa. L’hanno però avvertita che per i successivi 15 giorni deve avere sempre con sé il telefono e il numero di urgenza da chiamare e, in caso di spostamenti, deve poter raggiungere velocemente un centro ospedaliero in grado di effettuare interventi di emergenza. Il Mifepristone agisce bloccando i ricettori del progesterone che è l’ormone chiave della gravidanza, necessario alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’embrione: se viene a mancare, il concepito muore per mancanza di nutrimento.
Dopo aver preso la pasticca può accadere che la donna abortisca entro le successive 48 ore. Infatti, dalla morte dell’embrione, l’organismo capisce che la gravidanza è finita, dando così inizio all’espulsione come se si trattasse di un aborto spontaneo. Ma questo succede solo al 3% delle donne. Tutte le altre, dopo due giorni, dovranno tornare presso la struttura sanitaria per prendere il Misoprostol, una prostaglandina che agisce rilassando il collo dell’utero e, mediante l’induzione delle contrazioni, permettendo l’espulsione del sacco amniotico con l’embrione morto. A seconda dei protocolli, il Misoprostol si può prendere per via orale o vaginale. È a questo punto che inizia la vera e propria procedura abortiva.
Sono trascorsi due giorni dalla prima pasticca, due giorni in cui la donna è stata consapevole che la vita dentro di lei si stava spegnendo. Tecnicamente l’aborto non è avvenuto, ma la donna si trova in una terra di nessuno, nel bel mezzo di una procedura che non può interrompere, anche se l’espulsione non è nemmeno iniziata. Giunta a questo stadio, infatti, se dovesse ripensarci, decidendo di proseguire la gravidanza, lo farebbe con la consapevolezza che il figlio potrebbe nascere con gravissime malformazioni, a causa dell’effetto teratogeno del Misoprostol, in grado cioè di modificare o alterare lo sviluppo dell’embrione.
Dopo aver assunto la prostaglandina, la donna resta in attesa che inizi la fase espulsiva, comincerà quindi ad avvertire una serie di sintomi:
Dolori addominali (se ne lamenta il 96% delle donne).
Nausea (per il 61% delle donne).
Mal di testa (31% delle donne).
Vomito (26% delle donne).
Diarrea (20% delle donne).
Vertigini (12% delle donne).
Affaticamento generale (10% delle donne).
Mal di schiena (9% delle donne).
Ed in misura minore: brividi, eruzioni cutanee, perdita di coscienza, variazioni nella pressione del sangue, febbre.
Sono tutte condizioni temporaneamente invalidanti e per mitigarle è necessario intervenire con ulteriori farmaci. La sofferenza, infatti, con il metodo chimico, è prevista e data per scontata, persino i più accesi sostenitori dell’Ru486 sono costretti ad ammettere, nelle relazioni mediche e scientifiche, che le donne soffrono decisamente di più, e più a lungo, che con la tecnica chirurgica.
Dopo aver preso il secondo farmaco, iniziano le perdite di sangue, come avviene per ogni donna che si sottopone all’aborto. Con quello chimico, però, il flusso emorragico è generalmente maggiore, sia in quantità che in durata (mediamente si prolunga dagli 8 ai 17 giorni), come più doloroso è il momento della fase espulsiva, che può protrarsi per diverse ore. La maggioranza delle donne abortisce entro 24 ore. In questa fase la donna dovrà controllare costantemente il flusso, sia per capire se l’aborto è avvenuto, sia per scongiurare il rischio di emorragia (accade ad 1 donna su 100). È stata infatti avvisata che se per due ore consecutive si riempiono due assorbenti (4 in due ore) o se ha la sensazione di sanguinare eccessivamente, deve contattare subito il medico.
In uno studio effettuato nel 1998 da P. Slade, è emerso che ben il 56% delle donne aveva visto l’embrione abortito, e che costoro erano più soggette a soffrire successivamente di disturbi psicologici, incubi ricorrenti, flashback e pensieri non voluti. Ha fatto molto discutere il recente caso della donna romana sottopostasi ad aborto col metodo classico all’ospedale San Camillo, la quale ha espulso il feto, della grandezza di 5,5 centimetri, ben dieci giorni dopo l’intervento mentre si stava facendo la doccia. Il marito l’ha trovata accasciata in forte stato di choc e, l’avvocato della donna – che ha presentato una denuncia contro l’ospedale -, ha fatto sapere che la sua cliente ha una forte depressione: “non dorme, non esce di casa, non lavora quasi più”. Da più parti si è gridato all’ennesimo caso di malasanità, ma il direttore del San Camillo, Aldo Morrone, ha replicato ricordando ciò che i medici ben sanno, e cioè che “purtroppo in letteratura sono segnalati molti casi di eventi avversi nel caso di interruzioni di gravidanza”[5]. Nessuno, invece, che abbia osservato come l’aver visto l’embrione abortito da parte della donna (un fatto raro nell’aborto con aspirazione), che le ha causato uno choc e un successivo stato depressivo, sia un evento dato per scontato nell’aborto farmacologico, dove più della metà delle donne dovrà fare i conti con la visione dell’embrione espulso.
Come si vede, l’intero percorso abortivo con l’Ru486 richiede una quantità di tempo impressionante, considerando che la parola fine, la donna, potrà scriverla solo dopo la quarta visita medica, che avviene a due settimane dalla prima pillola. Nel caso in cui l’utero mostrasse dei residui di materiale abortivo, o se le perdite di sangue non si fossero ancora arrestate, sarebbe tenuta a sottoporsi in ogni caso anche al metodo chirurgico (succede a 5-8 donne su 100).
Quello che viene fraudolentemente chiamato “aborto facile e veloce” impegna, di fatto, la donna per un totale di 15 giorni e, come se non bastasse, presenta pure livelli di sofferenza e pericolosità ben più elevati dei metodi classici. Basti pensare che solo la mortalità, con l’aborto farmacologico, è di ben dieci volte superiore a quella dell’aborto per raschiamento o aspirazione. Secondo i dati diffusi dalla Food and drug administration (Fda) – l’Agenzia federale Usa per la sicurezza di farmaci e cibo – aggiornati all’aprile 2011, le morti avvenute a seguito di assunzione dell’Ru486 sono passate, rispetto al precedente rapporto, da 12 a 14, ma il numero è incompleto, poiché desunto unicamente dalle segnalazioni della Danco Laboratories (la società che commercializza il farmaco negli Usa). Quando infatti si vanno a considerare anche i casi verificatesi negli altri Paesi e quelli emersi dai congressi medici e dalla letteratura specialistica, si vede che il numero dei decessi è, in realtà, ben più elevato. La giornalista Assuntina Morresi ne ha fatto un riepilogo aggiornato in un articolo[6] su Avvenire dell’ottobre 2013. Le donne morte con la pillola Ru486 sono attualmente 27. Alle 14 decedute negli Stati Uniti si devono aggiungere 6 donne morte in Gran Bretagna, 1 in Canada, 1 in Portogallo, 2 in Francia, 1 in Svezia, 1 a Taiwan e 1 in Australia. Le morti sono avvenute per setticemia a seguito di infezioni da Clostridium (Sordellii, Septicum o Perfringes). Inizialmente si pensava che la causa fosse da imputare ad una somministrazione inappropriata per via vaginale del secondo farmaco, ma la morte per infezione di una giovane donna che lo aveva assunto per bocca ha smentito questa ipotesi.
Per quanto riguarda gli altri effetti collaterali, la Fda ha reso noto che, tra le donne che hanno abortito con l’Ru486, 612 sono dovute tornare con urgenza in ospedale, a seguito di complicazioni varie, e ben 339 di loro hanno avuto bisogno di trasfusioni di sangue, a causa delle emorragie subite. 256 donne hanno manifestato una setticemia, cioè un’“infezione sistemica che si diffonde al di là degli organi riproduttivi”. 48 di queste infezioni sono state classificate come “severe”, rendendo pertanto indispensabile la somministrazione di antibiotici endovena per almeno tre giorni. Le donne che hanno assunto l’Ru486, nonostante presentassero una gravidanza extrauterina, incorrendo in gravissimi rischi per la vita (esplosione della tuba con conseguente emorragia interna), sono state ben 58. In tutto, le denunce di complicazioni registrate finora dalla Fda, e ammesse dalla Danco, sono 2.207, un numero assai più elevato delle 637 documentate nel 2006 dalla ricercatrice e ginecologa Donna Harrison – pubblicate sulla rivista medica Annals of Pharmacotherapy – che all’epoca la Danco aveva denunciato come troppo elevate[7]. Altrove i dati non cambiano, ad esempio in Australia, nei sei anni di utilizzo dell’Ru486, il Therapeutic Goods Administration (TGA) ha rilevato 793 casi di complicazioni.
Insomma, checché se ne dica, pillole magiche per interrompere la gravidanza non ne esistono, e l’aborto chimico “facile, veloce e sicuro” è pura speculazione ideologica sulla pelle delle donne.
L’aborto, quale che sia il metodo usato, non presenta problematiche solo nell’immediato, diversi effetti collaterali, alcuni potenzialmente molto gravi, possono insorgere anche in futuro e in occasione di gravidanze successive:
Parti prematuri e aborti spontanei
Le donne che in passato si sono sottoposte ad uno o più aborti indotti, vanno incontro ad un maggiore rischio di partorire prematuramente o di incorrere in un aborto spontaneo, a causa di un danno alla cervice uterina (o al suo indebolimento), di cicatrici presenti nella parete dell’utero, e a seguito di infezioni. Dell’associazione tra aborto e parto prematuro si è occupato un importante studio finlandese, pubblicato ad agosto 2012 sulla rivista Human Reproduction. Lo studio – condotto nel periodo 1996-2008 su 300.858 primipare – ha evidenziato che le donne con tre o più aborti alle spalle avevano una probabilità tre volte maggiore di partorire un bambino prematuro. Nel complesso i dati hanno indicato: 3 bambini nati prima di 28 settimane per ogni 1.000 donne che non hanno mai avuto un aborto, 4 ogni mille donne che hanno avuto un aborto, 6 ogni mille che hanno avuto due aborti e 11 per mille se la donna ne ha avuti tre o più. Il dottore inglese Peter Saunders, del Christian Medical Fellowship, ha commentato i risultati dello studio nel suo blog, scrivendo: “Come avevo precedentemente osservato, ci sono circa 120 articoli di letteratura mondiale che già attestano un’associazione tra aborto e parto prematuro, e molto pochi invero quelli che la contestano. Ma questo studio finlandese è molto importante per il numero di casi valutati e anche perché ha preso in esame tutti i principali fattori di confondimento che potrebbero sminuire la solidità delle conclusioni (per esempio l’aggiustamento è stato fatto per l’età materna, lo stato civile, la posizione socioeconomica, l’urbanità, il fumo in gravidanza, precedenti gravidanze ectopiche e aborti spontanei)”[8]. Saunders ha ricordato nell’occasione che la prematurità comporta per il bambino “maggiori rischi di infezione, ipotermia e morte”, e per la società enormi costi sanitari: “secondo i ricercatori dell’Oxford Centre for Health Economics, le nascite premature costano al Regno unito un extra di 939mila sterline l’anno”.
Risultati analoghi sono stati ottenuti da un altro studio[9], presentato il 5 settembre 2012 al British Science Festival, condotto in Scozia dal professor Siladitya Bhattacharya, titolare della cattedra di ostetricia e ginecologia all’Università di Aberdeen. Bhattacharya e il suo team, hanno analizzato i dati delle donne scozzesi che avevano abortito tra il 1981 e il 2007, sia chirurgicamente che farmacologicamente, scoprendo che l’aborto chirurgico aumenta il rischio di parto prematuro in successive gravidanze del 37%, rispetto alle donne primipare che non hanno abortito; in particolare a seguito di preeclampsia (gestosi), ovvero di alta pressione arteriosa in gravidanza, pericolosa sia per la madre che per il feto, che generalmente porta ad una nascita prematura. Lo studio ha mostrato che è sufficiente anche una sola interruzione di gravidanza per incorrere in complicazioni in gravidanze future. Bhattacharya ha concluso: “Abbiamo scoperto che le donne che avevano avuto un aborto procurato nella loro prima gravidanza, erano più a rischio di problemi materni e perinatali rispetto alle donne che avevano avuto un parto o nessuna gravidanza precedente”.
Placenta previa
Numerosissimi sono gli studi ad aver dimostrato la connessione tra aborto chirurgico e placenta previa nella gravidanza successiva, una problematica che può causare alla donna perdite ematiche ripetute fino a vere e proprie emorragie, e al concepito una minore ossigenazione e rischi legati alla prematurità. Uno dei primi studi ad aver messo in luce questa associazione[10], è stato pubblicato nel 1981 sull’American Journal of Obstetrics & Gynecology. In un altro studio[11] – apparso nel 1993 sull’International Journal of Obstetrics & Ginaecology -, i ricercatori hanno scoperto che le donne ad aver abortito con il metodo di aspirazione con raschiamento, avevano “il 30% in più di probabilità di avere una gravidanza successiva complicata a causa della placenta previa”. Nel 1994 è l’Italia a documentare la relazione tra aborto e questa patologia, con uno studio[12], pubblicato sulla rivista Placenta, che ha esaminato 49.765 cartelle cliniche (dal 1979 al 1991) della Clinica Mangiagalli di Milano. I ricercatori hanno concluso che “l’età avanzata e aborti precedenti sono associati ad un aumento della frequenza di placenta previa”. Molte altre ricerche[13], realizzate in seguito, si sono occupate dei fattori che possono indurre la formazione della placenta previa, individuando tra le cause: l’età materna avanzata, precedenti parti con taglio cesareo e, appunto, l’aborto chirurgico.
Isterectomia post-partum
Associato all’aborto vi è anche l’aumento del rischio di isterectomia post-partum. Lo ha documentato, a dicembre 2011, la rivista Acta et Obstetricia Gynecologica Scandinavica[14]. Lo studio indica proprio la placenta previa quale principale causa di un’isterectomia post-partum d’emergenza, e suggerisce altri potenziali fattori di rischio, come la gravidanza multipla e l’aborto chirurgico.
Sanguinamento vaginale in future gravidanze
L’aborto aumenta il rischio di sanguinamento vaginale nelle gravidanze successive. Uno degli studi ad averlo messo in luce è stato pubblicato a dicembre 2011 sulla rivista Contraception. Lo studio si è basato sull’osservazione, durante la gravidanza e il parto, di 4.931 donne che avevano precedentemente abortito con l’Ru486, 4.800 donne con un precedente aborto chirurgico e 4.925 donne senza alcuna storia di aborto alle spalle. I ricercatori hanno visto che le donne che avevano avuto un aborto precedente, sia di tipo farmacologico che chirurgico, avevano un più alto rischio di sanguinamento vaginale rispetto a coloro che non avevano mai abortito. I tassi di sanguinamento vaginale in gravidanza registrati sono stati, rispettivamente: 16,5% nelle donne con precedenti aborti farmacologici, 17,3% nelle donne con precedenti aborti chirurgici, e 13,9% nelle donne senza alcuna storia di aborto[15].
Cancro al seno
Numerosi sono gli studi scientifici ad aver messo in luce la relazione tra aborto procurato e il successivo sviluppo di cancro al seno. Una ricerca presentata nel 1994 sul Journal of the National Cancer Institute ha concluso che “fra le donne che erano rimaste incinte almeno una volta, il rischio di cancro al seno in coloro che avevano abortito era del 50% più alto di quello delle altre donne”, mentre “nessun aumento del rischio di cancro al seno era associato all’aborto spontaneo”[16].
Indicativo in proposito è un articolo[17] apparso il 17 gennaio 2011 su Lifenews.com, in cui sono elencati importanti studi americani che hanno dimostrato l’aumentata incidenza di tumore al seno per le donne che si sono sottoposte all’aborto volontario. Tra questi vi è quello del professor Joel Brind, endocrinologo del Baruch College di New York, che – in un articolo del 1996 pubblicato sul Journal of Epidemiol Community Healty -, ha evidenziato un “aumento del 30% di probabilità di sviluppare cancro al seno” da parte delle donne che hanno avuto aborti procurati. Brind fa notare che negli Stati Uniti, le cifre mostrano che dal 1973 “l’aborto legale ha provocato circa 300.000 morti in più a causa del cancro al seno”. Karin Malec, a capo della Coalition on Abortion/Breast Cancer (un gruppo nato per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema) ha fatto presente che, dopo l’analisi innovativa fatta da Brind nel 1996, negli anni successivi il numero di studi ad aver dimostrato il legame aborto-cancro al seno ha continuato ad aumentare. “Negli ultimi 21 mesi – ha osservato Malec -, quattro studi epidemiologici e una recensione hanno riportato un legame tra aborto e cancro al seno. Uno di essi aveva come coautrice Louise Brinton del National Cancer Institute. Possiamo contare circa 50 studi epidemiologici dal 1957 che riportano un legame[18]. Supportato da studi biologici e sperimentali”. Poi Malec ha denunciato il fatto che “gli esperti hanno dimostrato nelle riviste mediche che quasi tutti i circa 20 studi che negano tale associazione sono gravemente difettosi (fraudolenti). Come nel caso dell’occultamento del legame tabacco-cancro, essi sono usati per imbrogliare le donne facendo loro credere che l’aborto sia sicuro”.
Della questione si è occupata anche la dottoressa Angela Lanfranchi, della Robert Wood Johnson Medical School del New Jersey, che, nel 2002 in California, ha testimoniato in una causa contro la Planned Parenthood, comunicando di aver avuto conversazioni private con importanti esperti, i quali erano concordi circa il fatto che l’aborto aumenti il rischio di cancro al seno, ma si rifiutavano di discuterne pubblicamente, perché la consideravano una questione “troppo politica”.
In un articolo per la rivista medica Linacre Quarterly, la Lanfranchi ha spiegato[19] come mai l’aborto indotto aumenti il rischio di cancro al seno, un rischio che, invece, non c’è in caso di aborto spontaneo. Scrive la Lanfranchi: “L’aborto indotto aumenta notevolmente il rischio di cancro al seno perché interrompe i normali cambiamenti fisiologici che si verificano nel seno durante una gravidanza a termine e che abbassano il rischio di cancro al seno per la madre. Una donna che porta a termine una gravidanza a 20 anni ha un rischio di cancro al seno del 90% più basso rispetto ad una donna che aspetta fino a 30 anni. Il tessuto del seno dopo la pubertà e prima di una gravidanza a termine è immaturo e vulnerabile al cancro. Il 75% di questo tessuto è di lobuli di Tipo 1 dove iniziano i tumori duttali e il 25% di lobuli di Tipo 2 dove iniziano i tumori lobulari. Il cancro duttale costituisce l’85% di tutti i tumori al seno mentre il cancro lobulare rappresenta il 12-15% dei tumori al seno. Quando una donna concepisce, l’embrione secerne gonadotropina corionica umana (hCG), l’ormone che si controlla nei test di gravidanza. L’hCG stimola le ovaie della madre ad aumentare i livelli di estrogeno e progesterone nel suo corpo, raddoppiando di conseguenza la sua quantità di tessuto mammario; effettivamente, dopo, la madre ha più lobuli di Tipo 1 e 2, dove il cancro ha inizio. A metà gravidanza, 20 settimane, il feto e la placenta producono hPL, un altro ormone, che dà avvio alla maturazione del tessuto mammario di modo che possa produrre latte. È solo dopo 32 settimane che la madre ha abbastanza lobuli maturi di Tipo 4, resistenti al cancro, cosicché il rischio di cancro al seno le diminuisce. L’aborto procurato prima delle 32 settimane lascia il seno materno con più tessuto vulnerabile per l’inizio del cancro. Per questo motivo ogni nascita prematura prima delle 32 settimane, e non solo l’aborto procurato, aumenta o raddoppia il rischio di cancro al seno. Al termine della gravidanza, l’85% del suo tessuto mammario è resistente al cancro. Ogni gravidanza successiva diminuisce il rischio di un ulteriore 10%. Invece, gli aborti spontanei nel primo trimestre non aumentano il rischio di cancro al seno perché c’è qualcosa che non va con l’embrione, per cui i livelli di hCG sono bassi. Un’altra ipotesi è che c’è qualcosa che non va con le ovaie della madre e i livelli di estrogeni e progesterone sono bassi. Quando questi ormoni sono bassi il seno della madre non cresce e non cambia. Se, per qualsiasi motivo, una donna decide di interrompere la gravidanza, dovrebbe iniziare a fare lo screening al seno (mammografia) a partire da circa 8-10 anni dopo l’aborto, in modo che se sviluppa un cancro, possa essere individuato e curato precocemente per un risultato migliore”.
L’aborto farmacologico, in particolare, può compromettere future gravidanze a causa dell’aumento del rischio di gravidanze extrauterine, chiusura di una tuba, aborti spontanei, sterilità e endometriosi. La compromissione della futura capacità riproduttiva è associata ad infezioni pelviche o genitali, molto frequenti nell’interruzione di gravidanza con la pillola abortiva. I ricercatori hanno, infatti, scoperto che “La RU486 ha anche un effetto immunosoppressore in quanto aumenta la produzione di cortisolo. Il cortisolo, è un ormone glicocorticoide, che agisce sia sul sistema immunitario facendo diminuire la capacità dei leucociti di migrare verso le zone dei tessuti infetti e di sopprimere l’espressione genica dei linfociti, sia sulla capacità dei neutrofili di uccidere le cellule batteriche. Tutti questi effetti impediscono al sistema immunitario di combattere l’aggressione batterica. Questo spiega come mai uno degli effetti più comuni della RU486 siano le infezioni pelviche o genitali, come la clamidiosi e la gonorrea”[20].
Conseguenze sulla salute psichica
L’aborto volontario fa sentire le sue conseguenze anche sulla salute psichica della donna. In particolare, rientrano tra i postumi dell’aborto procurato le seguenti manifestazioni[21]:
Bassa autostima.
Lutto (può includere pianto che sembra non finire mai).
Depressione (può manifestarsi in una insensibilità emotiva, ossia nell’incapacità di provare sentimenti di gioia e tristezza).
Senso di colpa.
Senso di alienazione (da se stesse, dalla famiglia, dagli amici,…).
Vergogna.
Isolamento.
Rabbia (spesso profondamente seppellita, ma a volte esplosiva).
Difficoltà nel concentrarsi.
Episodi di pianto (incontrollato o apparentemente immotivato).
Incubi/sogni che riguardano bambini (ad esempio sognare di bambini che vengono attaccati da mostri o da altre entità minacciose, oppure – come ha descritto una donna – di bambini morti, tagliati a pezzi, o in difficoltà o sofferenti, ai quali non si riesce a prestare aiuto).
Allucinazioni auditorie del pianto di un bambino.
Flashback dell’esperienza dell’aborto (possono nascere apparentemente dal nulla, ma spesso scattano a seguito di “mine” presenti nella memoria. Può trattarsi del rumore dell’aspirapolvere che ricorda quello della pompa aspirante per l’isterosuzione, o della musica o i suoni che si sentivano durante l’intervento e il ricovero. Oppure della vista della tessera sanitaria, o di successive visite ginecologiche – spesso evitate dalle donne dopo l’aborto -. Ma “mine” scatenanti possono essere anche, per esempio, gli ascensori o le scale – usati per accedere al reparto di Ivg -, o dei biscotti – offerti alla donna dopo l’Ivg,…).
Disordini del sonno.
Pensieri di suicidio (uno studio condotto nello Stato dell’Ohio, dalla Linea Verde “Suicidio anonimo”, ha reso noto che durante un periodo di 36 mesi, 1.800 su 4.000 che avevano chiamato, avevano avuto aborti in precedenza).
Tentativi di suicidio.
Abuso di sostanze (uno studio condotto in California su 12.000 donne in gravidanza, ha dimostrato che quasi tutte coloro che in passato avevano avuto due o più aborti, stavano facendo uso di alcool durante la gravidanza – fino a 100 ml al giorno. Mentre, in un altro studio, condotto dal Boston City Hospital nell’ambito di un programma di cura prenatale, si è visto che le donne ad aver ammesso l’uso di cocaina, avevano una percentuale più che doppia di rivelare 2 aborti in passato, e tre volte più grande di rivelare 3 aborti in passato, rispetto a coloro che non ne facevano uso).
Problemi nelle relazioni (dopo un aborto finiscono circa il 70% delle relazioni affettive, mentre altre entrano in crisi profonda. Alcune donne si allontanano dalla famiglia di origine e dalle amiche più intime).
Difficoltà con l’intimità (i rapporti intimi con un uomo vengono evitati per paura di dover rivelare vicende del proprio passato – incluso l’aborto o gli aborti -, o per paura di restare di nuovo incinte).
Disturbi alimentari.
Automutilazione.
Dolore fisico (all’addome, alla schiena o dolori mestruali, sia di origine psicosomatica che a causa di complicazioni dell’intervento abortivo).
Insensibilità fisica.
Ipervigilanza, nervosismo, agitazione.
Difficoltà nelle gravidanze successive (ad esempio una forte ansietà durante la gravidanza, oppure paura di non riuscire a portare a termine la gravidanza a causa di un aborto spontaneo, paura di un parto prematuro, di partorire un bambino morto, di una gravidanza ectopica, o di infertilità conseguente all’aborto).
Difficoltà in successivi travagli e parti (il parto inizia ma poi si ferma, oppure non progredisce, rendendo necessario il ricorso al taglio cesareo).
Incapacità di formare un forte legame con i figli nati in seguito (alcune donne descrivono molta difficoltà nell’allattare, nel dar da mangiare con il biberon, nel cambio dei pannolini, in generale in qualsiasi attività che richieda un contatto intimo con il neonato. Il legame che si sviluppa è fatto di comportamenti iperprotettivi uniti ad un certo distacco emotivo).
Attrazione/ossessione per la gravidanza (nella sua manifestazione più acuta può portare a manifestare comportamenti bizzarri).
Allontanamento da situazioni che hanno per protagonisti bambini, gravidanze e aborto (ad esempio spegnere la Tv o cambiare canale durante le pubblicità in cui compaiano neonati, o notizie sull’aborto; evitare battesimi, compleanni e ogni altro luogo in cui si sa che si troveranno bambini,…).
Disfunzioni sessuali.
Promiscuità sessuale (può essere collegata al desiderio inconscio di concepire nuovamente, oppure come forma di autopunizione).
Gravidanza “di sostituzione” (spesso si verifica un anno dopo l’aborto, o un anno dopo la data in cui il figlio abortito sarebbe dovuto nascere).
Gravidanza “fantasma” (ovvero l’illusione di essere incinta, accompagnata da visite dal medico, nei centri di aiuto alla vita, e al pronto soccorso).
Matrimonio con il padre del bambino (con il quale si è vissuta l’esperienza dell’aborto provocato, spesso nel tentativo di salvare il rapporto dopo l’aborto).
Relazioni abusive (nei casi in cui la donna abbia subìto un abuso, può trattarsi di una forma di autopunizione; ma ci sono anche casi in cui è la donna che diventa abusiva nei confronti del partner).
Reazioni “da anniversario” (l’anniversario del concepimento, dell’aborto, e della presunta nascita del figlio, possono essere giorni, settimane o mesi difficilissimi, con molto pianto, depressione, incidenti, malattie,…).
Sovracompensazione nella carriera o vita professionale (soprattutto per quelle donne che hanno abortito perché volevano finire l’università o raggiungere determinate mete professionali).
Coinvolgimento con il movimento “a favore della vita” o, al contrario, con il movimento “pro-abortista”.
Ferita spirituale (molte donne sentono con l’aborto di aver fatto la prima esperienza di “peccato grave”. Alcune hanno paura che Dio le punisca, in particolare nella loro speranza di future gravidanze e possibilità di avere altri figli. Sia donne che uomini, spesso riferiscono di essersi allontanati da Dio e dal proprio cammino spirituale dopo l’esperienza dell’aborto).
Abuso su bambini avuti in seguito (può trattarsi di un abuso emozionale attraverso una distanza emotiva; di un abuso verbale; di un vero e proprio abuso fisico che si manifesta nell’imporre una disciplina più dura del normale, nell’uso di violenza fisica, accompagnata, talvolta, da perdita del controllo. Alcune donne immaginano il bambino abortito quasi come il bambino “perfetto”, e provano una grande disillusione verso il bambino avuto in seguito: un bambino con i suoi limiti e i suoi problemi).
Rapporto conflittuale con gli uomini (attraverso un sentimento di amarezza nei loro confronti, difficoltà nel dare loro fiducia, oppure manifestato attraverso l’abitudine a scegliere sempre gli uomini sbagliati, quest’ultima come forma di autopunizione).
Sono ormai moltissimi gli studi[22] autorevoli condotti in tutto il mondo, pubblicati su illustri riviste scientifiche, che documentano l’insorgenza di disturbi psicologici dopo un aborto volontario, che smentiscono sia quanto stabilito dalle leggi in materia di aborto - secondo le quali l’aborto rappresenti la soluzione ai problemi psichici derivanti da una gravidanza indesiderata -, sia quanto affermato dagli attivisti pro-choice – secondo i quali la sindrome post aborto sia solo un’invenzione del fronte pro-life -. Uno di questi studi è apparso nel 2011 sulla rivista scientifica British Journal of Psychiatry, mettendo in evidenza dei dati impressionanti. La ricerca “Aborto e salute mentale”[23] è stata condotta dalla ricercatrice Priscilla Coleman, della Bowling Green State University dell’Ohio (Usa), su un campione di 877.181 donne, delle quali 163.831 con un’esperienza di aborto. La ricerca ha mostrato che “quasi il 10% dell’incidenza di problemi di salute mentale era riconducibile all’aborto”, inoltre: “le donne che erano passate attraverso un’esperienza di aborto hanno fatto registrare un aumento dell’81% del rischio di problemi di salute mentale di vario genere rispetto alle donne che non hanno mai avuto un aborto”. In particolare, le donne che hanno abortito hanno il 155% in più di probabilità di manifestare tendenze al suicidio e il doppio di probabilità di soffrire di problemi psicologici (e psichiatrici), rispetto a coloro che non hanno abortito. Il rischio di problemi legati all’ansia aumenta del 34%, mentre del 37% è l’aumento della possibilità di cadere in depressione. Infine, del 110% (più del doppio) è il rischio di abuso di alcool e del 220% (più del triplo) di ricorrere al consumo di droghe (soprattutto marijuana) allo scopo di alleviare il proprio disagio.
Il dottor David C. Reardon – riconosciuta autorità mondiale in questo campo -, responsabile dell’Elliot Institute che da oltre vent’anni si occupa dell’impatto dell’aborto sulle donne, ha affermato[24] che, dal 1980, i medici che si occupano di salute mentale, hanno iniziato a curare un numero sempre più alto di donne con problemi psicologici ed emotivi a causa di un aborto provocato. Gli studi dimostrano che, per le donne, l’aborto indotto è molto più “devastante” di quanto si pensi: l’Elliot Institute ha raccolto in un unico volume circa un centinaio di complicazioni fisiche connesse all’aborto, risultanti dai diversi studi realizzati in tutto il mondo. Amy Sobie, portavoce dell’Istituto, ha dichiarato che “l’aborto continua a uccidere le donne. Può essere legale, ma non è sicuro”, spiegando che le più importanti riviste mediche hanno dato conto di un più alto tasso di morte associato all’aborto, di tassi di suicidio sette volte più elevati nelle donne che hanno interrotto la gravidanza, oltre che della correlazione tra aborto provocato e abuso di sostanze, depressione, infertilità e divorzio. “Gli studi dimostrano che le donne che hanno avuto un aborto non supportano i gruppi pro-aborto - ha concluso Sobie –. Sanno sulla propria pelle che l’industria dell’aborto ha fallito”.
Una delle prime ricerche ad aver documentato l’esistenza della sindrome post aborto, è stata pubblicata nel 1989 sulla Rivista Psichiatrica dell’Università di Ottawa. I ricercatori hanno sottolineato come non ci siano prove in letteratura sul fatto che l’aborto migliori lo stato psicologico della madre, mentre diversi studi hanno iniziato a mettere in luce un tasso allarmante di complicanze post aborto, sia a livello fisico (infiammazioni, infezioni, infertilità futura, emorragie, ecc.), che mentale (traumi psicologici)[25].
Nel 1996 è il prestigioso British Medical Journal a pubblicare uno studio[26] condotto dall’équipe finlandese guidata da Mika Gissler, basato su 9.192 decessi di donne in età fertile avvenuti in Finlandia tra il 1987 e il 1994, di cui 1.347 per suicidio. Dagli archivi sanitari i ricercatori hanno individuato le donne che nei dodici mesi precedenti la morte per suicidio, avevano partorito, avuto un aborto spontaneo o un aborto volontario, scoprendo che il tasso di suicidio nelle donne che avevano partorito era “la metà del tasso di suicidio generale nelle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni”, quello nelle donne che avevano avuto un aborto spontaneo era di 1-2 volte superiore alla media, mentre coloro che erano ricorse all’aborto volontario presentavano una percentuale nettamente superiore sia alla media, che al tasso dell’aborto spontaneo: “Il tasso di suicidio dopo un aborto era il triplo del tasso generale di suicidio, e il sestuplo del tasso associato al parto”. “I nostri dati hanno mostrato – concludono i ricercatori – che la gravidanza portata a termine previene il suicidio o che le donne che arrivano al parto non sono ad alto rischio di suicidio. […] I nostri dati mostrano chiaramente che le donne che hanno avuto un aborto presentano un aumento del rischio di suicidio, che dovrebbe essere preso in considerazione nella prevenzione di queste morti”.
Una ricerca[27] pubblicata nel 2000 dall’Elliot Institute, ha rilevato che per la donna “l’aborto è quattro volte più letale del parto”. Tra le cause di morte i ricercatori indicano i suicidi, gli incidenti, gli omicidi e la morte naturale. A proposito delle morti per incidenti, gli autori notano che è molto probabile che alcune di queste morti classificate come accidentali, siano in realtà suicidi. Le ricerche sulle donne che hanno avuto aborti mostrano, infatti, come costoro vadano incontro deliberatamente ad incidenti con la propria auto, spesso in stato di ubriachezza, con l’intento di uccidersi. Ma – continua lo studio – è anche probabile che molti di questi decessi siano semplicemente legati all’aumento di comportamenti a rischio dopo l’aborto. Alcune donne si preoccupano di meno se vivono o muoiono dopo un aborto. Altre cercano di “auto-curare” un senso di depressione con una scarica di adrenalina, spesso trovata nel prendersi dei rischi. Ma vi sono anche altri postumi dell’aborto, ben documentati, come l’abuso di alcool e sostanze, che aumentano il rischio per la persona di incidenti mortali.
A proposito delle morti per omicidio, gli autori fanno notare che molte donne hanno dichiarato di aver iniziato a perdere la calma con più facilità dopo l’aborto, mentre altre hanno ammesso di essere diventate anche più violente se fatte arrabbiare. L’aumento di tendenze, dopo l’aborto, verso la rabbia e la violenza, sono anche state associate in maniera significativa all’abuso di sostanze e ad elevate tendenze suicide. In altre parole – specificano gli autori – le donne più inclini alla rabbia sono anche più inclini a “rinunciare” alla vita. Questa è una combinazione pericolosa che può portare con facilità a scontri mortali con gli altri. Infine, per quanto riguarda l’aumento dei decessi per morte naturale dopo un aborto indotto, gli autori osservano che lo stress fisico e psicologico associato all’aborto può comportare un impatto negativo sulla salute generale. La depressione, per esempio, è stata associata a soppressione della risposta immunitaria; il conflitto psicologico consuma energia; un lutto prolungato o non risolto può distogliere la donna dal prendersi cura di altri problemi di salute. Ma l’aborto è stato associato anche ad altri fattori come disturbi del sonno, disordini alimentari e abuso di sostanze, ognuno dei quali può avere un impatto negativo diretto sulla salute della donna. Gli autori concludono: “Questi risultati sottolineano l’importanza che le cliniche che praticano aborti abbiano la responsabilità di controllare, nelle donne che cercano un aborto, se vi sia una storia di suicidio, un comportamento autodistruttivo, e instabilità psicologica. La mancanza di controllo per questi fattori di rischio è chiaramente una grave negligenza. Inoltre, quando i consulenti della clinica abortiva rassicurano falsamente le donne sul fatto che l’aborto è più sicuro del parto, dovrebbero essere ritenuti responsabili di pratiche commerciali false e ingannevoli”.
Sull’esempio dell’indagine finlandese, l’Elliot Institute ha voluto valutare l’incidenza della mortalità associata all’aborto volontario sulle donne americane. Lo studio[28] – pubblicato nell’agosto 2002 sul Southern Medical Journal – si è basato su 173.279 donne che nel 1989 avevano interrotto volontariamente la gravidanza o partorito, confrontandole con i certificati di morte del periodo 1989-1997. Lo studio ha scoperto che – rispetto alle donne che avevano partorito – coloro che avevano abortito avevano un rischio significativamente maggiore, aggiustato per età, su tutte le cause di morte (1,62), in particolare: da suicidio (2,54), da incidenti (1,82), così come da morte naturale (1,44), inclusa la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) (2,18), le malattie circolatorie (2,87), e la malattia cerebrovascolare (5,46). “Gli alti tassi di mortalità associati all’aborto – hanno concluso i ricercatori – persistono nel tempo e vanno oltre i confini socio-economici. Questo può essere spiegato con tendenze autodistruttive, depressione, e altri comportamenti non salutari aggravati dall’esperienza dell’aborto”.
A dicembre 2002, uno studio[29] scientifico – uscito sul Journal of Obstetrics and Gynaecology – ha preso in considerazione la correlazione tra l’aborto indotto e l’uso di sostanze durante una successiva gravidanza, rilevando che le donne ad aver avuto un aborto procurato erano significativamente più propense a fare uso di marijuana, altre droghe illecite e alcool, nella loro successiva gravidanza, rispetto alle donne che avevano avuto un precedente parto. Risultati molto simili si sono avuti anche prendendo in considerazione solo le primipare.
Nel gennaio 2003 una nuova ricerca[30] viene pubblicata sull’Obstetrical and Gynecological Survey ad opera del Department of Epidemiology dell’Università del North Carolina. I ricercatori hanno rilevato che un precedente aborto indotto era un fattore di rischio per la placenta previa, l’aumento del rischio di un successivo parto pretermine, il cancro al seno, e disturbi dell’umore (depressione) abbastanza consistenti da suscitare atti di autolesionismo.
Nel medesimo anno, appaiono sul Medical Science Monitor i risultati di un altro studio[31] che ha voluto analizzare l’incidenza della depressione tra le donne che avevano abortito o partorito. I ricercatori del Department of Psychology dell’Università del Texas hanno preso in considerazione 1.884 donne che tra il 1980 e il 1982 avevano avuto la loro prima gravidanza (terminata con l’aborto o il parto) rilevando che, le donne per le quali la prima gravidanza era finita in aborto, avevano il 65% in più di probabilità di essere ad “alto rischio” di depressione clinica, rispetto a coloro che avevano partorito. I ricercatori hanno concluso che “l’aborto può essere un fattore di rischio per la successiva depressione nel periodo di otto anni dopo l’evento”.
Sempre nel 2003, viene pubblicato sul Canadian Medical Association Journal una ricerca che ha valutato il legame tra aborto e parto con successivi disturbi psicologici. Lo studio[32] si è basato sui dati archiviati nel 1989 dal California Medicaid, prendendo in considerazione le donne tra i 13 e i 49 anni che avevano abortito o partorito e che, in precedenza, non avevano avuto ricoveri psichiatrici o gravidanze. I ricercatori hanno visto che le donne ad aver avuto un aborto avevano un rischio significativamente più elevato di ricovero psichiatrico, rispetto alle donne che avevano partorito, in tutti i periodi di tempo esaminati (breve e lungo termine).
Uno studio[33] finlandese, pubblicato a febbraio 2004 sull’American Journal of Obstetrics & Gynecology e presentato sull’European Journal of Public Health[34] il 28 luglio 2005, ha voluto analizzare il rapporto tra la gravidanza, l’aborto e le morti per cause esterne, prendendo in esame 15.823 donne finlandesi di età compresa tra i 15 e i 49 anni, che erano decedute nel periodo di quattordici anni 1987-2000. Le informazioni sui decessi sono state reperite dal “Cause-of-Death Register” e confrontate con il “Medical Birth Register” (865.988 nati vivi e morti), con il “Register on Induced Abortions” (156.789 aborti indotti) e l’“Hospital Discharge Register” (118.490 aborti spontanei), al fine di identificare le morti associate alla gravidanza (419). I ricercatori hanno scoperto che il tasso di mortalità delle donne (aggiustato per età) durante la gravidanza e entro un anno dalla sua conclusione, era di 36,7 decessi per 100.000 gravidanze, risultando nettamente inferiore al tasso di mortalità delle donne non gravide (57 per 100.000 person-years). La mortalità era più bassa dopo un parto (28,2/100.000) piuttosto che dopo un aborto spontaneo (51,9/100.000) e, decisamente inferiore rispetto ad un aborto indotto, che ha fatto registrare il tasso di mortalità più elevato (83,1/100.000). I ricercatori, perciò, concludono che lo studio dimostra l’effetto benefico delle gravidanze sulla salute delle donne, incluse quelle che non finiscono in nascita a causa di un aborto spontaneo.
Nel 2005, sul Medical Research Methodology (BMC) sono apparsi i risultati di uno studio norvegese[35] volto a determinare l’entità del disagio mentale dopo l’aborto indotto e spontaneo. Lo studio si è basato su interviste e somministrazione di questionari a 40 donne che avevano avuto un aborto spontaneo e a 80 sottopostesi ad aborto volontario. I questionari sono stati compilati 10 giorni, 6 mesi, 2 anni e 5 anni dopo l’interruzione della gravidanza, mostrando che le donne ad aver sperimentato l’aborto spontaneo, avevano avuto un maggiore disagio mentale 10 giorni e 6 mesi dopo l’evento traumatico, rispetto alle donne sottopostesi ad aborto indotto; ma, rispetto a queste ultime, le prime hanno fatto registrare un miglioramento significativamente più veloce nel superamento del senso di annullamento, del dolore, della perdita, del senso di colpa e della rabbia, nell’arco di tutto il periodo di osservazione. Le donne ad aver sperimentato l’aborto indotto, hanno fatto registrare punteggi significativamente maggiori nei 2-5 anni successivi all’intervento in merito a senso di annullamento, sentimenti di colpa e di vergogna, e punteggi significativamente più elevati di ansia, per l’intero periodo, rispetto alla popolazione generale.
Nel mese di gennaio 2006 viene pubblicato sul Journal of Child Psychology and Psychiatry un importante studio longitudinale[36] che ha preso in considerazione gli effetti dell’aborto sulla salute mentale delle giovani donne. La ricerca, realizzata dai ricercatori D.M. Fergusson, L.J. Horwood e E.M. Ridder, ha rilevato che, in Nuova Zelanda, le donne tra i 15 e i 25 anni che avevano avuto un aborto indotto, presentavano elevate probabilità di incorrere in successivi problemi di salute mentale tra cui depressione, ansia, comportamenti suicidi e disturbi da uso di sostanze (alcool e droghe). I ricercatori hanno, perciò, concluso: “I risultati mostrano che l’aborto nelle giovani donne può essere associato ad un aumento del rischio di problemi di salute mentale”. La pubblicazione dello studio ha scatenato un acceso dibattito[37], soprattutto perché in Nuova Zelanda il 98% degli aborti viene praticato con la motivazione di evitare ripercussioni psicologiche sulla salute della donna, mentre i dati stavano dimostrando che era proprio l’aborto procurato a causare gravi disagi psichici alle donne. I pro life neozelandesi hanno interpellato il Governo affinché rivedesse le leggi e le procedure di aborto. Nel dibattito è prontamente intervenuta l’American Psychological Association (APA), (l’Associazione americana degli psicologi e psichiatri), che tramite la sua portavoce, Nancy Felipe Russo, ha voluto precisare che, nel 1969, l’APA ha adottato la posizione secondo cui l’aborto dovrebbe essere un diritto civile, pertanto, “per i sostenitori pro-choice, gli effetti sulla salute mentale non sono rilevanti dal punto di vista giuridico, quale argomento per limitare l’accesso all’aborto”.
Lo psicologo ed epidemiologo Dottor Fergusson, responsabile dello studio e dichiaratamente “non credente” e “pro-choice”, ha risposto dalle colonne del Washington Times, denunciando: “È scandaloso che una delle più comuni procedure chirurgiche eseguite su donne giovani sia così poco indagata e valutata. Se si fosse trattato del Prozac o del Vioxx, segnalazioni di danno associato sarebbero state prese molto più seriamente, con procedure più accurate di ricerca e monitoraggio”. E ha aggiunto: “Avrei preferito non scoprire ciò che abbiamo scoperto, ma lo abbiamo scoperto e non si può essere intellettualmente onesti se si pubblicano solo i risultati che piacciono”. Qualche giorno prima, in un’intervista sul The Age, aveva dichiarato che i risultati facevano pendere la bilancia delle prove scientifiche verso la conclusione che l’aborto accresca il disagio psicologico piuttosto che alleviarlo[38]. Il New Zeland Herald ha reso noto[39] che quando Fergusson ha inviato lo studio ad un certo numero di Organizzazioni per il commento e le analisi, l’Abortion Supervisory Committe ha concluso che non sarebbe stato opportuno pubblicare i risultati, perché avrebbero potuto essere usati come battaglia politica. In una lettera alla Commissione del giugno 2004, Fergusson ha risposto di essere consapevole dell’imbarazzo che lo studio avrebbe provocato, ma che sarebbe stato “scientificamente irresponsabile” non pubblicare i risultati solo perché così critici. Lo psicologo ha anche denunciato le pressioni e le critiche ideologiche che gli sono piovute addosso, e la difficoltà incontrata nel pubblicare lo studio, che è stato rifiutato da un certo numero di giornali, probabilmente a causa della natura “controversa” dell’argomento: “Siamo andati da quattro giornali, questo è assai insolito per noi. Normalmente il lavoro viene accettato al primo tentativo”. Il professor Fergusson ha anche aggiunto che l’idea che sta dietro alla legge che ha legalizzato l’aborto, secondo la quale la salute mentale della donna sarebbe in pericolo se portasse avanti la gravidanza, è “basata su una congettura”: nessuno aveva esaminato i costi e i benefici effettivi. Ora, osserva Fergusson: “Se la legislazione è basata sui motivi di salute, è naturale pensare che ciò comporti il monitoraggio delle persone che hanno avuto aborti”, mentre in realtà, nota il professore, l’aspetto sanitario è stato considerato sempre secondario rispetto alla scelta personale.
Sempre nel 2006 esce sull’Internet Journal of Pediatrics and Neonatology, un’indagine[40] volta ad esplorare il rapporto tra aborto indotto e comportamento aggressivo nei confronti di figli nati in seguito. Lo studio ha preso in considerazione un campione di madri i cui bambini erano stati abusati o trascurati, dove le madri erano o coloro che avevano messo in atto il maltrattamento, o coloro che avevano permesso a qualcun altro di maltrattare i propri figli. Lo studio ha evidenziato che una storia di aborto era molto spesso associata ad atti di aggressione fisica nei confronti dei figli successivi, come “schiaffi, calci o morsi, botte, e uso di punizioni corporali in generale”. Scrivono i ricercatori nelle conclusioni: “Per anni l’aborto è stato interpretato come una procedura medica benigna avente pochi o nessun potenziale effetto negativo duraturo. Tuttavia… gli ultimi anni hanno portato ad una maggiore consapevolezza sul fatto che l’aborto per molte donne è un problema con profonde dimensioni fisiche, psicologiche, spirituali e di stile di vita intimamente legate a molti aspetti delle loro vite”.
Il Dottor David Reardon ha commentato i dati osservando che “precedenti ricerche hanno dimostrato che l’aborto è collegato ad un successivo aumento del rischio di alcolismo, uso di droghe, ansia, aggressività, rabbia, e ricovero psichiatrico. Ognuno di questi fattori, singolarmente o combinato, può aumentare in modo significativo le tensioni personali e familiari che possono portare a maltrattamenti o negligenza”[41]. Se si prendono tutti gli studi condotti finora sull’aborto – ha aggiunto Reardon – si vede che “gli effetti dell’aborto sulla salute mentale non si fanno sentire solo nelle donne, ma avranno un impatto anche sulle loro famiglie”.
A marzo 2008 esce un comunicato del Royal College of Psychiatrists (la principale organizzazione professionale di psichiatri del Regno Unito) – ripreso dal Sunday Times[42] – in cui si avverte che le donne possono essere a rischio di problemi di salute mentale se hanno aborti. Il quotidiano inglese osserva che questo capovolge la convinzione che permane da decenni, secondo la quale il rischio per la salute mentale nel portare avanti una gravidanza indesiderata superi i rischi di vivere con possibili rimpianti per aver scelto l’aborto; e ricorda che più del 90% dei 200mila aborti eseguiti ogni anno nel Regno Unito si ritiene siano effettuati perché i medici pensano che continuare la gravidanza potrebbe causare una maggiore tensione a livello mentale. Il Sunday Times fa presente che esistono parecchi studi, incluso quello del 2006 pubblicato sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, ad aver concluso che l’aborto può essere associato al rischio di problemi di salute mentale. Quindi cita la vicenda di Emma Beck, un’artista 30enne inglese, che all’inizio dell’anno si era impiccata in quanto sopraffatta dal dolore per aver abortito i suoi due gemelli. Prima di uccidersi aveva scritto in un biglietto: “Vivere è un inferno per me. Non avrei mai dovuto abortire. Ora vedo che avrei potuto essere una brava mamma. Voglio stare con i miei bambini; hanno bisogno di me, nessun altro può farlo”. Il Royal College of Psychiatrists – continua il quotidiano inglese – raccomanda di aggiornare gli opuscoli informativi dell’aborto, includendovi i dettagli dei rischi di depressione, perché “il consenso non può essere informato senza la fornitura di informazioni adeguate e appropriate”. L’articolo termina con l’affermazione del dottor Peter Saunders: “Come può adesso un medico giustificare un aborto (per motivi di salute mentale) se gli psichiatri riflettono sul fatto che non vi è alcuna prova evidente che il continuare la gravidanza porti a problemi di salute mentale”.
Altri tre studi, pubblicati sempre nel 2008, hanno confermato il rischio di insorgenza di problemi psicologici collegati all’aborto procurato. Uno[43], apparso sullo Scandinavian Journal of Public Health, è stato condotto in Norvegia su un campione rappresentativo di 768 donne di età compresa tra i 15 e i 27 anni. I ricercatori hanno concluso che “le giovani donne che si sottopongono all’aborto indotto possono aumentare il rischio di soffrire successivamente di depressione”. L’altro[44], – apparso sul Gynécologie obstétrique et fertilité, il mensile di informazione scientifica dei medici francesi – si è occupato dell’impatto emotivo e del dolore perinatale dopo un “aborto terapeutico”. I dati hanno messo in luce il trauma psicologico causato dall’aborto terapeutico, il forte disagio delle madri accentuato da onnipresenti sentimenti di colpa, e sintomi persistenti di depressione e ansia. Questo scenario – dicono i ricercatori – può portare a conflitti coniugali, e perciò sottolineano la necessità di un successivo sostegno psicologico sia individuale che di coppia. Il terzo studio[45], pubblicato a dicembre sul British Journal of Psychiatry, ha esaminato l’associazione tra aborto e successivi disordini psichiatrici e da uso di sostanze. I ricercatori hanno preso in esame un campione di 1.223 donne australiane nate tra il 1981 e il 1984, che avevano storie di gravidanza e che erano state ricoverate per disturbi psichiatrici e uso di sostanze illecite. I dati hanno mostrato che le giovani donne ad aver abortito avevano quasi il triplo delle probabilità di fare uso di stupefacenti, e che l’aborto era associato sia a disturbi da uso di alcool che alla depressione.
Nel 2009, Cuadernos de bioetica, la rivista ufficiale dell’Asociacion Espanola de Bioetica y Etica Medica, pubblica le osservazioni di due ricercatori del Dipartimento di Psichiatria e Psicologia Medica dell’Università di Granada (Spagna), i quali fanno notare[46] che “nessuno studio di ricerca ha scoperto che l’aborto indotto è associato con un migliore effetto di salute mentale”, mentre “molti studi evidenziano associazioni significative con dipendenza da alcool, tossicodipendenza, disturbi dell’umore (tra cui la depressione) e ansia”. I ricercatori perciò concludono che in nessun modo è possibile, su basi empiriche, invocare i motivi di salute mentale della donna per indurre un aborto, e consigliano di dedicare gli sforzi per la cura della salute mentale delle donne che hanno avuto un aborto procurato.
Un altro studio[47], pubblicato nel 2009 sulla Revista da Associação Médica Brasileira (RAMB), ha analizzato ansia e depressione in 50 donne che avevano subito un aborto spontaneo e 50 che avevano avuto un aborto volontario, somministrando loro un questionario semistrutturato un mese dopo l’evento. Lo studio ha rilevato nelle seconde valori più alti di ansia (11 contro 8,7) e depressione (8,3 contro 6,1) rispetto alle prime. Gli autori concludono: “Le donne che presentavano un aborto indotto erano più ansiose e depresse, come dimostrato da eventi di vita successivi, pieni di sentimenti problematici e bisogno di supporto psicologico”.
La dottoressa Maria Cristina Del Poggetto, specialista in Psichiatria e Psicoterapia sistemico-relazionale e membro della Società Medico-Scientifica ProMed Galileo, ha osservato in un’intervista[48] che in Italia, nel 1975, “la corte costituzionale dichiarò incostituzionale la proibizione dell’aborto perché essa avrebbe violato il diritto alla salute della donna. Ora, a distanza di quasi 40 anni da quella sentenza, abbiamo una mole di dati a dimostrazione che questo non è vero, almeno per quanto riguarda la quasi totalità dei casi di aborto che sono appunto giustificati come strumento per tutelare la salute psichica della donna. Possiamo cioè affermare con ampio margine di sicurezza che l’aborto sotto il profilo psichico non promuove la salute, non previene malattie, non fornisce assistenza terapeutica, non è cioè un atto medico così come esso è stato definito dall’European Union of Medical Specialists nel 2005. Questo è il dato medico-scientifico”.
Che l’aborto lasci profonde conseguenze sulla salute mentale delle donne non lo dicono solo coloro che si fanno carico del disagio psicologico delle donne che hanno abortito e la mole di studi empirici disponibili: sono le donne stesse a testimoniarlo, coloro che l’aborto volontario l’hanno vissuto sulla propria pelle e hanno scelto di raccontare la loro sofferenza. E possibile leggere alcune di queste testimonianze nel sito internet www.postaborto.it.
Qui Licia scrive:
“… non sono riuscita ad accettare mio figlio, Emanuele, e ho abortito, lui e me… Prima dell’aborto spesso dentro di me accusavo gli altri della mia infelicità e insoddisfazione… Ora mi guardo e mi accuso di questa disperazione che provo, dalla mia parte brutta non posso fuggire. Una cosa sconvolgente è stata scoprire il male dentro me, è stata scoprire di non essere la donna brava e buona che mostravo a tutti, bensì una grande superba… Ho permesso al male e alla morte di entrare nella mia vita e adesso mi terrorizzano dal profondo della mia anima. Mi fanno tanta Paura e io mi immagino piccola piccola correre spaventata a cercare protezione da mia mamma, ma lei non può proteggermi e non c’è nessuno in realtà che può aiutarmi… perché i miei mostri sono dentro di me, e mi mordono lo stomaco, e mi prendono la gola… Niente mi ha fatto sospettare che accollarsi lo struggimento per l’uccisione di un figlio, invece che la responsabilità della sua nascita, equivale a suicidarsi. Le poche persone con cui ho parlato (ginecologo, assistente sociale, infermiere) hanno fatto passare la cosa come un prendere in mano la propria vita e correggere una rotta sbagliata. E io cretina mi sono suicidata. Ora è tutto così ovvio, se lo avessi tenuto, con lui in braccio avrei sopportato tutto… La gente del paese mi avrebbe additata come ‘ragazza poco seria’. I parenti mi avrebbero criticata e commiserata perché avrei potuto scegliere una sorte migliore, ma mio figlio sarebbe stato lì con me a regalarmi ogni giorno sorrisi, e anche i miei genitori nonostante le critiche e il sentirsi amareggiati per il mio fallimento sentimentale sarebbero stati felici di abbracciare il nipotino che tanto aspettavano. E io avrei avuto sempre la speranza di un futuro migliore e pieno d’amore, con mio figlio vicino. Speranza che adesso non ho… I postumi dell’aborto, che molte donne purtroppo conoscono, mi sono piombati addosso poche settimane dopo l’intervento, però ho preso coscienza dopo un paio di mesi dell’orrore. Mi sono sentita assassina, la peggiore: ho sempre considerato l’aborto come il crimine più efferato. E ho abortito… Mio figlio l’ho preso per mano quando l’ho concepito, per un po’ abbiamo camminato insieme, poi quando è iniziata la salita gli ho lasciato la mano per camminare più leggera. Adesso che lo cerco disperata non lo trovo più, ed è difficile proseguire da sola, non so nemmeno dove vado… Forse sto impazzendo, ma ho la sensazione che la mia vita si svolga su piani temporali sfalsati… Nella vita ho ucciso mio figlio mesi fa, nel mio mondo mi rendo conto ora che uccidere un figlio è un abominio, ma è troppo tardi… È tutto sfalsato… Ciò che provo oggi è tristezza, pena, paura, orrore, senso di solitudine siderale, rabbia, rancore, impotenza, senso di colpa logorante e una disperazione incontrollabile, inconsolabile che non ti fa stare in piedi. Le crisi di pianto disperato, prima episodiche, si sono fatte sempre più frequenti, sono diventate ormai giornaliere, l’angoscia non mi lascia un attimo di sollievo, né di giorno né di notte, e mi rende difficile persino alzarmi dal letto, andare a lavorare, parlare, mangiare. Gli occhi e il viso sempre gonfi, l’aspetto trasandato, cammino zombie tra la gente sperando che nessuno mi veda, che si accorga che piango. Ecco, io l’ho visto, nell’ecografia, con la sua testolina tonda, cicciotella, e il cuoricino pulsante a 8 settimane. Eravamo al pronto soccorso, soli io e lui, per delle perdite di sangue. Ma stava bene. Quest’immagine ce l’ho davanti in continuazione, le parole non possono descrivere lo struggimento, la pena. Quella testolina l’avrei potuta toccare. Lui avrebbe avuto tutto. Ci penso e mi verrebbe voglia di farmi del male fisico pur di spostare l’attenzione da questo male dell’anima. Grido, mi dispero, mi viene voglia di chiedere la carità della morte, ma sarebbe troppo facile, io a questa vita devo prima restituire dignità. Vorrei finalmente riuscire ad aprire gli occhi, a reagire, liberarmi dalle catene delle mie gabbie mentali, trasformare questa sofferenza in qualcosa di positivo che mi permetta di dare un senso a quello che è accaduto. Questo dolore è grande e cresce di giorno in giorno, stento a portarlo, non sono più lucida. E mi chiedo, come si fa a sopportare senza impazzire?”.
Cinzia, invece, racconta:
“[dopo l’aborto] non riuscivo più a dormire, non riuscivo più a mangiare, non riuscivo più a trovare un senso nella mia vita e soprattutto non riuscivo più a guardarmi allo specchio senza vedere un mostro… Ogni volta che guardavo un bambino vedevo quel figlio che non sarebbe mai nato, tutto quello che prima era la ragione per cui era meglio abortire era svanito nel nulla, rimaneva solo un fatto, a quel bambino che viveva dentro di me era stata negata la vita ed ero stata io a farlo, sua madre. Ora come si riesca ad andare avanti serenamente avendo realizzato questo io non lo so proprio, almeno io non ci sono riuscita, (per anni) e mi ricordo periodi orrendi, nei quali evitavo persino di uscire da casa per non vedere gente e bambini in particolare, periodi nei quali mi sono circondata di uomini che non valessero nulla non sapendo neanche il perché, continuavo a farmi del male… Ma c’è ancora qualcuno che pensa siamo colpevolizzate? No no! Io non ho avuto alcun contesto colpevolizzante, anzi esattamente il contrario! Tutte le persone intorno a me, (e mi riferisco alle persone vicine a me fisicamente proprio quelle che con me avevano condiviso anni di ‘amicizia’) continuavano a giustificare il mio omicidio, anzi infanticidio, con frasi del tipo: Ma non è colpa tua tesoro non avevi altra scelta! Ma che volevi mettere al mondo un infelice? Non potevi fare un figlio con quell’uomo, tuo figlio meritava di più! Hai fatto una scelta ed è stata la migliore per te e per tuo figlio era tuo diritto poter scegliere! Avrai altri figli e non ci penserai più! Mi sarebbe piaciuto se tu avessi tenuto il bambino, ma visto che volevo il tuo bene non potevo ostacolare le tue scelte! Un bambino ha il diritto di crescere con un padre e una madre, non puoi negargli questo. Guardate potrei scrivere un almanacco con tutte queste frasi, ed era proprio questo quello che più mi faceva stare male, mi sentivo come un omicida che girava a piede libero senza pagare per quanto commesso!”.
Maria dice di sé:
“Sono una signora di una certa età che da giovane, credendomi emancipata e libera di scegliere il mio destino, è ricorsa all’ivg per ben due volte e se pensavo di continuare indenne il resto della mia vita mi sbagliavo alla grande… Nessuno mi ha costretta con la forza, né la prima né la seconda volta, ed ero sicura che tutto ritornasse come prima, ma niente è stato come prima ed è giusto così, poiché non è umano continuare la propria vita lasciando sul selciato i cadaveri dei propri figli perché quelli sono i miei figli e se qualcuno si azzarda a negargli questa sacrosanta dignità me lo potrei ‘mangiare’”. Poi denuncia: “Continuare ad urlare slogan da quattro soldi e difendere l’ivg non ha alcun senso… Difendere la vita cominciando con la propria e con quella che portiamo nel grembo questo è un valore inestimabile che mai ti farà abbassare lo sguardo o desiderare la morte per trovare la pace, che personalmente ho perso tradendo i miei figli… Mai sentita colpevolizzata, cavatevelo dalla testa! Ho agito dentro ad una legge e nessuno ha osato fiatare. Ma mica è una legge naturale quella che ti dà la possibilità di libero sfogo degli istinti e poi continua permettendoti di toglierti quel figlio di torno… Il sollievo immediato – è chiaro a tutti, l’ivg fa solo questo (e neanche sempre!), ma ognuna di noi dovrà fare i conti, prima o dopo, con la propria coscienza, ed è giusto così”.
Isa (nome di fantasia), rivela della sua interruzione di gravidanza a seguito di uno stupro, che invece di farla stare meglio non ha fatto altro che aggiungere
“dolore a dolore”: “Ho abortito, care signore dei diritti delle donne. Sono uno dei casi che vi piace di più portare in campo: lo stupro e il diritto all’aborto del ‘frutto dello stupro’. Ho abortito perché mi hanno violentata e al fatto che quello era il mio bambino non c’ho proprio pensato manco un istante. Mi sono detta meno male! Mi posso togliere dall’impiccio e cancellare questa brutta storia prima possibile. Che schifo di roba mi è successo! Mi ci manca pure tenermi addosso ancora la vergogna… A denunciare il colpevole non c’ho manco pensato – tanto quanto a tenere la gravidanza – perché mi avrebbe imbarazzata troppo parlarne pure alla polizia. Così ho evitato decisamente troppo di pensare perché ad oggi c’è un colpevole ancora in giro – che non ho pensato a denunciare – e c’è uno che non c’entrava niente che invece in giro non ci sta – perché non c’ho pensato a tenerlo con me. E sai che cosa invece è rimasto? Con mia profondissima meraviglia perché volevo togliere tutto dalla mia testa… è rimasto lo stupro!… Ho abortito per questo ma lo stupro non è andato via, è andato via un innocente! Ah, se c’avessi pensato! Se mi avessero aiutato a pensarci almeno un po’! Ma chi è che parla di colpevolizzazioni? Io ho tutte le giustificazioni del mondo! Tutti quelli che lo sanno o lo hanno saputo, per prima la mia terapeuta ha detto che era stato giusto così! Ma giusto per chi? Giusto per risolvere cosa! Lo stupro è rimasto non è andato via… non solo sono stata stuprata ma ho pure eliminato un innocente! E questo non me l’ha detto nessuno capito signore che leggete!? Non me l’ha inculcato nessuno! Difendete il mio diritto!? Il diritto di che! Il diritto di cosa!… L’aborto non leva niente non leva niente a nessuno, aggiunge dolore a dolore, inadeguatezza a inadeguatezza, frustrazione a frustrazione… ma quale diritto della donna… aggiunge stupro a stupro… per tutta la mia vita…”.
Antonietta scrive:
“Io non sono andata convinta ad abortire, ma ci sono andata, nessuno mi ci ha costretta, nessuno mi ha trascinata di peso, nessuno mi ha minacciata di morte con un coltello o una pistola… ci sono andata con le mie gambe… Dopo volevo morire anche io, perché per me non c’era cosa più orripilante di una madre che uccide il proprio bambino. Io ero orripilante, contro natura, un fallimento di donna e madre. Non dormivo, non mangiavo, facevo ore incontabili di danza classica e l’unica cosa che mettevo nello stomaco era lo xanax: si perché dopo certe dosi non pensi a nulla. Ed io facevo di tutto per non dormire se no avevo incubi; il corpo allo stremo e la mente non ci stava nemmeno più… E se qualcuno mi avesse detto che sarei stata così… ma neanche per l’anticamera del cervello l’avrei fatto! Perché solo io so cosa ho passato, i rimorsi, i rimpianti, le lacrime versate, il dolore autoinflitto… Mi sento presa in giro nella mia persona, nel mio intimo, nella mia emotività, nel mio dolore, come se tutto potesse essere svalutato e non è così. Non è un diritto uccidere un bambino – che è tale quello nato o non nato – non è diritto uccidere se stesse. Niente di tutto questo è un diritto”.
Federica riferisce della sua sofferenza, in particolare per l’indifferenza che si è trovata e ancora si trova intorno:
“… penso che in fondo al cuore nessuna donna sia fiera di aver abortito, nessuna si sia davvero sentita dentro di sé in pieno diritto di abortire il proprio figlio. Ne voglio conoscere una, se esiste, ma so che non c’è. Se non fosse chiaro lo ribadisco in parole povere: volevo abortire, ero convinta, ma non dormo da 5 mesi e niente è come prima, sto male, soffro, soffro, soffro! Soffro per l’indifferenza che mi ha circondato e che mi circonda tuttora e piango il lutto di mia figlia ogni volta che qualcuno viene a dirmi che era un mio diritto farla fuori, è l’indifferenza che fa soffrire. Magari qualcuno mi avesse solo chiesto: ma sei sicura? No, tutti hanno avuto paura di mettermi in difficoltà con certe domande, hanno tutti preferito la ‘discrezione’, lo scarico di responsabilità, avanzando come scusa questa storia che l’aborto è un diritto della donna. Vi svelo una cosa: l’aborto non è un diritto della donna, è semmai il diritto della società a lavarsi le mani di eventuali situazioni difficili della donna, di fatto è la condanna a morte della donna/madre, alla morte della sua anima materna, ecco cos’è; e per fortuna esistono i miracoli, l’amore, il perdono… e l’anima può tornare a vivere”.
Rosina racconta del suo dolore ancora vivo nonostante siano trascorsi ormai 15 anni dall’aborto:
“… Sono passati quasi 15 anni ed io sto ancora soffrendo e soffrirò ancora… perché è un dolore che non si rimargina ma che si trasforma se ti accorgi del grandissimo errore che hai fatto e cerchi di ricavare qualcosa di buono per gli altri e quindi per te stessa. Non c’è un fattore positivo nell’abortire… non esistono ragioni… non c’è età… né fattori economici che possano giustificare questo… niente e nessuno può essere più importante del tuo bambino che porti in grembo”.
Luisa rivela:
“Abortire è stata la scelta peggiore che potessi fare… abortendo mio figlio ho distrutto per sempre una parte di me e non c’è niente, e sottolineo niente, che possa cambiare questo stato di fatto”. E conclude: “Questa è la mia ‘testimonianza’ raccontata con dolore, con l’intento di svegliare le donne dall’illusione di voler governare la propria vita a qualunque costo. Beh sappiate per fare questo c’è un prezzo altissimo da pagare…”.
Parole colme di sofferenza anche nel racconto di Clorinda che, già mamma di una bimba di 5 anni, decide di interrompere la sua seconda gravidanza:
“Ero sola quel giorno, pensavo che con quel gesto avrei respirato di nuovo, che tutto sarebbe andato via poi con un po’ di lacrime e col passare del tempo, che sì non ero la prima né l’ultima e quindi ne sarei uscita, in fondo, mi dicevo, ho le spalle forti, passerà!… Quante bugie mi sono raccontata, e quante ne ho raccontato al di fuori di me… sono inevitabilmente cambiata, lentamente ogni giorno mi sono spenta, incupita; l’amarezza saliva e io la respingevo, il dolore saliva e io lottavo contro di lui… arrivavano le notti insonni e io prendevo calmanti, arrivavano le crisi di panico e io mi abbandonavo stremata… e mi ripetevo che non era per quello che avevo fatto, che era solo suggestione mia… che sarebbe passato tutto, che era solo un momento brutto… A causa dell’interruzione di gravidanza ho avuto problemi ginecologici che hanno richiesto un intervento a distanza esatta di un anno. Lì la difficile e dolorosa presa di coscienza di ciò che avevo fatto! Ritrovarmi sullo stesso lettino gelido, ha scatenato nel vero senso della parola, una crisi profonda dalla quale ancora non sono uscita… Lì ho capito che io e solo io avevo negato la vita a mio figlio… Sono sprofondata giorno dopo giorno, ora era ed è tutto più reale per me: io sono una mamma capace di togliere la vita a suo figlio, e questo mi fa orrore. Mi fa orrore perché oggi mi chiedo e ogni giorno, che donna sono e che mamma posso essere, se sono stata capace di tradire mio figlio con il gesto più feroce che ci possa essere. Sono arrabbiata con me stessa, sono cattiva con me stessa mi privo di qualsiasi cosa perché non ne sono degna. Sono infelice e nella mia infelicità trascino tutto e tutti, compresa la mia bimba che non lo merita davvero… Ho smesso di vivere e mi faccio del male perché non riesco ad aprirmi alla vita… perché per me la Vita era quel figlio che ho buttato via una mattina di giugno”.
Le conseguenze di un aborto sono tante ed evidenti, che anche note personalità italiane, non ascrivibili alla sfera dei pro life, ne ammettono l’esistenza. Tra questi vi è, ad esempio, il chirurgo Carlo Flamigni che, nel suo libro “La procreazione assistita” (Il Mulino, 2002, pp. 10 e 24), scrive: “Aborto e uso di anticoncezionali endouterini” sono fra le “cause possibili di sterilità meccanica”[49]. O la ginecologa abortista Alessandra Kustermann, che sulla rivista – di chiaro stampo anticattolico – Micromega n. 7 del 2005, riporta: l’aborto chirurgico presenta “un rischio del 4% di complicazioni più o meno gravi, che vanno dalla necessità di ripetere l’intervento, all’emorragia, alla perforazione dell’utero, all’infezione dell’utero, che si manifesta nei giorni seguenti con febbre alta e dolori intensi. Quindi […] permangono dei rischi che possono determinare anche conseguenze di lungo periodo per la donna: per esempio un’infezione grave o una perforazione uterina” che “può determinare una sterilità permanente”. Poi aggiunge: “Non c’è quasi nessun aborto che sia per sempre indolore”, anche per le donne che “riescono a superare l’evento indenni”, dal punto di vista psicologico “l’aborto può essere un fattore di rischio nel momento in cui intervengono depressioni legate al desiderio di maternità irrealizzato nel corso della vita”. E riguardo alla pillola abortiva, ammette: “Con la Ru486 c’è anche il dolore fisico, che almeno con l’aborto chirurgico non c’è”[50]. O il laico Severino Antinori, presidente dell’Associazione mondiale di medicina della riproduzione che, a proposito di aborto farmacologico, ha dichiarato in un’intervista[51]: “Basta con questa ipocrisia. Basta con le informazioni false. Smettiamola di dire che la pillola Ru486 aumenta la libertà della donna. Aumenta soltanto la sua libertà di farsi del male. […] Io ne avevo scritto già due anni fa, descrivendo gli effetti devastanti della Ru486, da indicibili nausee con vomito a pericolosissimi sanguinamenti, dal 30% di possibilità di dover poi ricorrere a interventi di completamento dell’aborto a un rischio di infertilità del 15%, da un’angoscia che dura cinque giorni al rischio di mortalità”. “Gli effetti della pillola sono devastanti per la donna e raccapriccianti per quel che succede al feto. Ha presente un nodo scorsoio? L’effetto è esattamente quello di un cappio che si stringe attorno al collo di un esserino che ha già mani, gambe e braccia. Ma ci mette cinque giorni, ad asfissiarlo”.
Per concludere, la donna che vuole evitare conseguenze sulla salute fisica e psichica di fronte ad una gravidanza indesiderata, non ha che un’opzione sicura: non sottoporsi all’aborto e far nascere il bambino. Non si sente pronta a diventare madre? Sente che non sarà una brava mamma? Non vuole assolutamente avere niente a che fare con il figlio? Vuole essere libera? Non è obbligata a tenerlo con sé e a crescerlo, visto che la legge italiana le permette di partorire in anonimato in ospedale[52]. Se un figlio non lo si vuole, ed esistono opzioni che permettono di escluderne il sacrificio, perché ucciderlo? Se, oltre ad uccidere il figlio, l’aborto causerà anche gravi conseguenze alla propria salute fisica e psichica, perché ricorrervi? Perché sottoporsi all’aborto, se la letteratura scientifica dimostra che è la gravidanza portata avanti – e non la sua interruzione volontaria – a tutelare la salute della donna? Perché scegliere la soluzione peggiore, dove tutti perdono?
Si tratta di sacrificarsi giusto nove mesi, il tempo necessario alla completa formazione del bambino. Un sacrificio che avrà, però, conseguenze benefiche enormi: la donna proteggerà la sua salute fisica e psichica, il bambino avrà la sua chance di vita e la possibilità di crescere in una famiglia capace di amarlo, e una coppia senza figli potrà coronare il suo desiderio di genitorialità. Nessuno perde, e il mondo intero ne guadagna in mitezza ed umanità.
Note:
[1] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/6541876. Citato in: Abort 97, “Abortion Risks”, abort97.org/?page_id=270.
[2] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2527465.
[3] Un elenco parziale di 221 donne uccise dall’aborto legale è visibile anche all’indirizzo: www.priestsforlife.org/brochures/maternaldeaths.html. Altri decessi si trovano a questo indirizzo: realchoice.0catch.com/library/deaths/blnafdeaths.htm.
[4] Riassunto da: A. Morresi, E. Roccella, La favola dell’aborto facile, FrancoAngeli, Milano 2006, pp. 20-23.
[5] Veronica Cursi, “Roma, abortisce e viene dimessa: espelle feto dieci giorni dopo”, Il Messaggero, 23 ottobre 2013.
[6] Assuntina Morresi, “La Ru486 torna a uccidere. Un’altra vittima in Inghilterra”, Avvenire, 17 ottobre 2013.
[7] Elena Molinari, “Vittime e infezioni: la Ru486 fa paura agli Usa”, Avvenire, 15 luglio 2011.
[8] P. Saunders, “Abortion and premature birth – new Finnish study raises serious questions for UK”, Pjsaunders.blogspot.it, 2 settembre 2012.
[9] Christine Hsu, “A single abortion raises the risk of premature birth in future pregnancies”, www.medicaldaily.com, 5 settembre 2012.
[10] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/7315904.
[11] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8515932.
[12] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/8066055.
[13] Nel 1997, sul Journal of Obstetrics & Gynaecology (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/9396896); nel 1999, sul Journal of Obstetrics and Gynaecology Research (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10379130); nel 2001, su Acta et Obstetricia Gynecologica Scandinavica (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/11846708); nel 2002, sull’East African Medical Journal (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12635759); nel gennaio 2003, sull’Obstetrical & Gynecological Survey (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12544786); nel dicembre 2003, sul Croatian Medical Journal (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/14652887); nel 2003 e nel 2007 sull’International Journal of Obstetrics & Ginaecology (www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12706277, www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/17316644).
Un riepilogo degli studi che dimostrano l’associazione tra aborto chirurgico e placenta previa è disponibile in: “L’aborto indotto aumenta il rischio di placenta previa”, www.uccronline.it.
[14] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/21692756.
[15] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22078190.
[16] Jnci.oxfordjournals.org/content/86/21/1584.short.
[17] Steven Ertelt, “Abortion has caused 300K breast cancer deaths since Roe”, www.lifenews.com, 17 gennaio 2011.
[18] Un riepilogo dei principali studi che dimostrano l’associazione tra aborto e cancro al seno è disponibile in: “Gli studi scientifici dimostrano legame tra aborto e cancro al seno”, www.uccronline.it.
[19] Steven Ertelt, “Breast cancer surgeon explains how abortion elevates cancer risk for women”, www.lifenews.com, 23 ottobre 2010.
[20] V. Baldini – G.M. Carbone, Pillole che uccidono. Quello che nessuno ti dice sulla contraccezione, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2006, p. 105.
[21] Riassunto da: “Manifestazioni dei postumi dell’aborto procurato”, www.progettorachele.org. Il Progetto Rachele è un apostolato cattolico nato nel 1994 negli Stati Uniti; è presente in ben 20 Paesi del mondo, tra i quali l’Italia; offre un percorso di recupero e guarigione dopo l’esperienza dolorosa dell’aborto volontario. Ad oggi, sono più di 100.000 le donne e gli uomini che hanno ricevuto sostegno e aiuto, ritrovando la speranza dopo la ferita dell’aborto (vedi anche: www.vignadirachele.org).
[22] Un riepilogo di alcuni importanti studi scientifici sull’esistenza della sindrome post aborto è disponibile in: “Studi scientifici dimostrano la sindrome post aborto (PAS)”, www.uccronline.it.
[23] Priscilla K. Coleman, “Abortion and mental health: quantitative synthesis and analysis of research published 1995-2009”, The British Journal of Psychiatry, 2011, 199: 180-186.
[24] Sara Martìn, “Un estudio cientìfico demuestra que 7 de cada 10 mujeres que abortan sufren secuelas psìquicas”, www.religionenlibertad.com, 30 agosto 2011.
[25] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/2682716; www.uccronline.it, ibid.
[26] Www.bmj.com/content/313/7070/1431.
[27] “Abortion four times deadlier than childbirth”, Elliot Institute, afteraborting.org, 3 giugno 2000.
[28] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12190217.
[29] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12501082.
[30] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12544786.
[31] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12709667.
[32] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/12743066.
[33] Www.ajog.org/article/S0002-9378(03)01136-0/abstract.
[34] Eurpub.oxfordjournals.org/content/early/2005/07/28/eurpub.cki042.
[35] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/16343341.
[36] David M. Fergusson, L. John Horwood, Elizabeth M. Ridder, “Abortion in young women and subsequent mental health”, Journal of Child Psychology and Psychiatry, 47:1 (2006), pp. 16-24.
[37] “Abortion and mental health”, www.washingtontimes.com, 20 gennaio 2006.
[38] Julie Robotham, “Abortion linked to mental risk”, www.theage.com.au, 3 gennaio 2006.
[39] Ruth Hill, “Abortion researcher confounded by study”, www.nzherald.co.nz, 5 gennaio 2006.
[40] P.K. Coleman, V.M. Rue, C.T. Coyle, C.D. Maxey, “Induced abortion and child-directed aggression among mothers of maltreated children”, Internet Journal of Pediatrics and Neonatology, 2006, Volume 6, n. 2, ispub.com/IJPN/6/2/9364.
[41] “Abortion linked to higher rates of child abuse, study finds”, www.lifesitenews.com, 13 marzo 2007.
[42] Sarah-Kate Templeton, “Royal college warns abortions can lead to mental illness”, The Sunday Times, 16 marzo 2008.
[43] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18539697.
[44] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18462977.
[45] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19043146.
[46] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19799479.
[47] Www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/19629354.
[48] “L’aborto rovina la donna: lo dicono gli studi (ma non Chiara Lalli)”, www.uccronline.it, 27 maggio 2013.
[49] Citato in Antonio Socci, Il genocidio censurato, Piemme, Casale Monferrato 2006, p. 108.
[50] A. Socci, op. cit., pp. 109, 110.
[51] Guido Mattioni, “Basta bugie, quel farmaco è una intollerabile tortura”, Il Giornale, 4 aprile 2010.
[52] Si veda, per esempio: Diego Degan, “Figli nati e abbandonati, sei in pochi mesi”, La Nuova Venezia, 17 dicembre 2013.
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