martedì 21 giugno 2011

Le campagne pubblicitarie per l’aborto e l’eutanasia, Come si vende la morte, di Carlo Bellieni, http://carlobellieni.com/

La comunicazione interviene sempre più pesantemente a influenzare il modo in cui percepiamo la nostra salute e giudichiamo complessi nodi bioetici quali l’aborto e l’eutanasia. Non solo si moltiplicano telefilm o dichiarazioni in tal senso da parte di star del cinema, ma si è addirittura arrivati agli spot pubblicitari a favore dell’eutanasia.

Un articolo sul mercato dei farmaci, pubblicato lo scorso marzo dall’«American Journal of Public Health», ha portato all’attenzione un fenomeno poco conosciuto ma gravissimo, il disease mongering. Questo «mercato delle malattie» è ben conosciuto in medicina: per vendere farmaci si inventano di sana pianta patologie o si trattano come tali normali caratteristiche umane, come per esempio la timidezza o la menopausa. A questo fine esiste una strategia ben codificata («Plos Medicine», 2002) in base alla quale si inizia con l’ingigantire i dati per poi creare un senso di panico. Si passa quindi ai testimonial, che sono di due tipi: prima i casi pietosi «miracolati» dal farmaco in questione, e poi gli esperti che giurano sulla bontà del farmaco stesso. È un fenomeno in auge soprattutto nei Paesi dove per comprare i farmaci non sempre è necessaria la ricetta medica, ed è inquietante perché genera un rapporto mercantilistico tra cittadino, malattia e medico.

Ma quasi con gli stessi criteri pubblicitari, accanto al mercato delle malattie, esiste il fenomeno parallelo del mercato dell’etica, che consiste nelle campagne mediatiche per introdurre nuovi criteri morali. Oggi le principali campagne sono quelle a favore dell’accettazione dei farmaci abortivi e della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito.

L’ingresso dei farmaci abortivi sul mercato gode di un battage martellante che li dipinge come essenziali e condanna quanti sono contrari come fautori della sofferenza delle donne. Ma vari studi mostrano che l’aborto indotto da farmaci quali il mefipristone è meno «gradito» alle donne («Health Technology Assessment», novembre 2009) e più doloroso del metodo chirurgico («British Journal of Obstetrics and Gynecology», novembre 2010). A esso, inoltre, sono stati associati vari casi di decesso, uno dei quali riguardò la figlia di Didier Sicard, allora presidente del comitato di bioetica francese, («New England Journal of Medicine», aprile 2006).

Anche la campagna pubblicitaria per la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito si avvale di testimonial famosi e di casi pietosi, e induce nella popolazione ansia per la possibilità di trovarsi un domani in coma, intubati, tenuti in vita contro il proprio interesse. In realtà viviamo in un’epoca di tagli alla sanità mondiale, e questo dovrebbe farci temere l’abbandono e non il contrario.

Le campagne a favore della pillola abortiva e dell’eutanasia vogliono in realtà vendere un’opzione culturale sulla morte. La prima punta a far sembrare la morte banale come bere un bicchiere d’acqua (che infatti nell’immaginario accompagna l’assunzione di ogni pillola); la seconda punta a «gestirla», nell’illusione di provocarla all’improvviso cancellandone così la visione. Ma entrambe nascondono l’errore di non guardare la morte in faccia e di chiamarla con un altro nome, in un’operazione psicologicamente rischiosissima di rimozione mentale.

Chi gestisce queste campagne gioca sull’ansia e la alimenta. L’ansia è un tratto fondante la società postmoderna, dove si succedono incalzanti annunci di improbabili catastrofi apocalittiche e dove la paura, l’ansia di controllo per non andare incontro a imprevisti hanno la meglio sulla voglia di progettare il futuro. Tanto è vero che questa è la prima generazione che viene descritta come caratterizzata dalla perdita di ideali, e nella quale, come cantava Bob Dylan in Masters of War, si produce «la peggiore paura, quella di mettere figli al mondo».

In questo l’ansia è favorita dagli allarmismi sulla sovrappopolazione o da innovazioni tecniche inquietanti, come il test, reso noto dall’«Independent» del 16 maggio, per sapere, attraverso l’analisi del dna, quanto ci resta da vivere. Anche le trasmissioni televisive che diffondono le immagini di persone morenti vogliono forse esorcizzare la paura della morte, ma finiscono inevitabilmente per alimentarla.

Il mercato delle malattie è riprovevole, e non vi è nulla di romantico nel mercato dell’etica, cioè nelle campagne a favore di morti o aborti definiti «dolci»: termini in apparenza suadenti, ma che, esaltando l’opzione per la morte, finiscono con il farci dimenticare che depressione, solitudine e difficoltà possono essere superate e spesso vinte. E ci fanno assimilare bisogni e comportamenti indotti, ben distanti dalle necessità reali e dalle risposte che la gente si attenderebbe. E distanti soprattutto dai bisogni dei più deboli: nel ricco occidente discutiamo su malattie immaginarie, mentre i popoli poveri soffrono per tubercolosi e malaria; rifiutiamo di avere un figlio o di essere tenuti in vita, mentre là, dove si combattono battaglie vere e drammatiche, si lotta invece per avere un figlio e per non morire. I nostri bisogni diventano così distanti dalla realtà tanto da non essere più comprensibili nemmeno a noi stessi.

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