“Una forma particolare di testimonianza della carità”. Un Dossier della
rivista “Liberté Politique” sul trapianto d’organi. - 03-11-2011 - di Chiara
Mantovani, http://vanthuanobservatory.org
Il numero 53, del giugno 2011,
della rivista La Liberté politique offre una interessante e articolata disamina
sui problemi etici sollevati dai trapianti d’organo. Recentemente anche in
Italia la materia ha visto aprirsi una serie di obiezioni alla sospetta
facilità con cui sarebbero ormai accettati procedimenti medici certamente
affascinanti per la possibilità di offrire una soluzione a gravi patologie, ma
nei confronti dei quali non è mai scomparsa del tutto la diffidenza.
Il problema etico nei trapianti
d’organo è argomento ben indagato dalle discipline bioetiche, praticamente un
classico. Il Dossier della rivista francese ha il grande merito di essere
accurato, di riassumere esaurientemente i fondamentali razionali e scientifici
e di introdurre riflessioni non banali sollevate da procedure di espianto che
vanno imponendosi nella pratica medica.
Diciamo subito che l’Italia ha
una legislazione in merito molto garantista dell’eticità, molto più corretta di
altri Paesi europei. Ma la deriva eutanasica – Benedetto XVI nella enciclica
Caritas in veritate, al numero 75, parla
di una mens eutanasica - e il
riduzionismo biologico che serpeggiano anche a casa nostra non lasciano
tranquilli e le domande poste dal Dossier “La donazione d’organi. Promesse e
minacce” meritano grande attenzione.
Pur facendo riferimento anche a
pronunciamenti e documenti del Magistero cattolico, tutto lo svolgimento del
tema è mantenuto rigorosamente nell’ambito di analisi dei dati scientifici e
legislativi, evidenziando quanto esso sia di interesse civile, rilevante nella
costruzione sociale: e questo mostra una volta di più quali importanti ricadute
nella concretezza della vita quotidiana siano legate alle problematiche
bioetiche.
Gli interrogativi da cui parte il
dossier
Il prof. Pierre-Olivier Arduin,
direttore della commissione Bioetica e Vita Umana della diocesi Fréjus-Toulon,
autore dell’articolo “Espianti d’organo: una nuova sfida bioetica”, descrive
subito gli interrogativi dell’approfondimento: dal momento che in Francia il
95% dei prelievi destinati al trapianto di organi si effettuano su donatori in
stato di morte encefalica, il recepimento del consenso del defunto e le
modalità di constatazione di morte costituiscono l’oggetto del problema,
aggiungendo che “la domanda sulla eticità raddoppia con la recente
autorizzazione dei poteri pubblici al prelievo da persone in stato di arresto
cardiaco”. Lo scopo del trapianto d’organo non è solo quello di migliorare la
vita di un ammalato, ma perfino di scongiurarne la morte, ineluttabile a breve
termine senza il trapianto: certamente dunque, tutta la materia assume il
carattere di un atto non solo lecito in sé, ma certamente encomiabile,
riconosciuto tale anche dalla dottrina cattolica, che ha sempre seguito con
apprezzamento ed interesse gli sviluppi della disciplina. Anche Benedetto XVI
ha ribadito che “i trapianti di organi e tessuti rappresentano una grande
conquista della scienza medica e sono certamente un segno di speranza per
numerose persone la cui situazione clinica è diventata grave e talvolta
estrema”, ribadendo il concetto espresso da Giovanni Paolo II che “le tecniche
di trapianto si sono rivelate essere un metodo via via più efficace per
ottenere l’obbiettivo fondamentale della medicina: servire la vita umana”. Come
ribadito nella Evangelium vitae, “la donazione d’organo, compiuta secondo una
forma eticamente accettabile” è un modo di promuovere una autentica cultura
della vita. Ovviamente sempre tenendo presente che il criterio di giudizio
etico in materia è “la difesa del bene
integrale della persona umana in armonia con la dignità unica che è propria in
virtù della nostra umanità” e che, dunque, nonostante ogni speranza di salute e
di vita che offrono, “inducono alcune gravi domande che è necessario esaminare
alla luce di una attenta riflessione antropologica ed etica”.
Il significato etico della
donazione di organi
La legislazione francese, non
diversamente da quella italiana, riconosce un rispetto dovuto al corpo della
persona deceduta, “una sorta di continuazione” dopo la morte del rispetto
doveroso verso ogni essere umano “quale valore essenziale della nostra società
al di là delle differenze religiose, filosofiche o morali”, principio di cui si
danno numerose manifestazioni nella vita sociale attraverso i riti funebri e la
protezione giuridica assicurata anche dopo il decesso. In poche parole, non si
può trattare un cadavere come una semplice somma di pezzi staccabili e affinché
l’atto di espianto rivesta un valore etico è necessario che “riposi sulla
decisione di offrire senza alcun compenso una parte del proprio corpo per la
salute e il benessere di un’altra persona: in ciò precisamente risiede la
nobiltà del gesto”. Un dono disinteressato, dunque, che diventa – secondo una
espressione ancora di GPII ripresa da BXVI – “una forma particolare di
testimonianza della carità [...]: fare della propria vita un dono per gli
altri”.
È perciò “la nozione di dono che
giustifica il fatto che sia posta attenzione al rispetto dovuto al corpo umano
e permette di fondare eticamente questa nuova disciplina medica. Questa scelta
del dono e della solidarietà si fonda in primo luogo sulla necessità di raccogliere
il consenso di colui che ormai sarà chiamato “donatore”. In Francia la legge
Caillavet del 1976 è stata la prima a dotarsi di un provvedimento, poi diffuso
anche in Italia, detto “silenzio-assenso”, ovvero del consenso presunto – se
non vi siano esplicite disposizioni contrarie – al prelievo di organi. Restano
immutate le caratteristiche obbligatorie di gratuità e di anonimato (sia del
donatore che del ricevente che di coloro che, per necessità mediche, ne fossero
a conoscenza) e l’esistenza di un interesse terapeutico dimostrato.
Nuovi problemi emergenti
Ma alcuni fattori che stanno
emergendo nella pratica clinica meritano di essere sottolineati. Primo fra
tutti, la scarsità di organi disponibili a fronte di una richiesta sempre
maggiore. L’aumento del gap è dovuto, da un lato, al miglioramento delle
tecniche di rianimazione, che oggettivamente riducono il numero di persone che
muoiono e che perciò riducono i potenziali donatori; dall’altro, al progresso
delle tecniche di trapianto che aumentano le circostanze cliniche che
potrebbero ricavare beneficio dai trapianti.
“È utile, soprattutto nel
contesto odierno, ritornare a riflettere su questa conquista della scienza,
perché non avvenga che il moltiplicarsi delle richieste di trapianto abbia a
sovvertire i principi etici che ne stanno alla base”, ricordava Benedetto XVI
nel 2008 ai congressisti riuniti dalla Pontificia Accademia per la Vita per
parlare di trapianti d’organo: e questa esortazione, che poteva sembrare solo
un fervorino dovuto da parte di un Pontefice, si sta rivelando di giorno in
giorno più stringente e necessaria.
Affinché il prelievo abbia la
caratteristica del dono (e non della “predazione”, come talvolta viene definito
da chi è contrario ai trapianti), è ovviamente fondamentale il recepimento di
un consenso serio, non solo formale,
evitando quello rivolto esclusivamente a mettere gli operatori sanitari al
riparo da citazioni giudiziarie, quello che ha causato l’insorgere della
“medicina difensiva”, quel “consenso informato” fondato su una modulistica
inattaccabile legalmente ma disinteressato ad assicurare una reale comprensione
da parte del paziente dei termini medici e delle situazioni cliniche. Il
traguardo doveroso di un rapporto medico-paziente che sia adeguato alla natura
dei soggetti coinvolti non è perseguibile senza un “patto”, una “alleanza” che
sia fino in fondo assunzione di responsabilità personale, competenza
scientifica e fiducia nella volontà di agire per il “bene”.
Sottolinea Arduin: “Come recepire
questo consenso quando la persona è deceduta? Gli Stati che hanno legiferato in
materia di prelievo d’organi si dividono in due categorie: quelli che hanno
scelto il consenso presunto e quelli che hanno optato per il consenso
esplicito”; e nel primo caso si può anche distinguere un consenso presunto
“forte” e uno “debole”, a seconda se i familiari abbiano, o no, comunque
l’ultima parola sulla autorizzazione all’espianto. Per non concedere l’espianto
dei propri organi è necessario un esplicito diniego formalizzato in vita; diversamente,
in assenza di dichiarazione registrata, là dove viga un “consenso forte”
nessuno potrà opporsi al prelievo. Il rispetto del parere dei familiari è
conforme alla riflessione cattolica che, già con Pio XII, aveva chiesto il
riconoscimento “dei diritti e dei sentimenti di terze persone cui spetta la
cura del cadavere, in primo luogo dei familiari”; anche GPII aveva sottolineato
che “L’assenso dei parenti possiede un
valore etico in assenza di decisione da parte del donatore”, e BXVI ha
confermato che ”Spesso la tecnica del prelievo degli organi si realizza con un
gesto di totale gratuità da parte dei familiari di pazienti il cui decesso sia
accertato”. Per questo, sia il Consiglio d’Europa che il Santo Padre
incoraggiano ad una informazione dei familiari che sia delicata, rispettosa del
momento drammatico che stanno vivendo e al tempo stesso scientificamente
corretta e adeguata alle capacità di comprensione, capace di sensibilizzare le
coscienze verso una problematica che concerne direttamente la vita di tante
persone.
I “prodotti del corpo”
Questo punto, che sembrerebbe
tanto logico, sta correndo il rischio di presentare criticità etiche
importanti. Il medico e geriatra Jean-Yves Nau ha dato notizia all’inizio del
2010 della volontà del Governo finlandese di autorizzare il prelievo di organi
senza legarlo all’accordo della famiglia, per far fronte alla penuria di
donazioni. “Di fatto, la volontà di una collettività nazionale che, con il
pretesto di salvare vite umane, si appropria in modo coercitivo degli elementi
costitutivi dei corpi dei propri cittadini è un pericolo da non sottovalutare.
La logica utilitarista potrebbe presumere il consenso di una persona
all’utilizzo a qualunque prezzo dei “prodotti” del suo corpo”.
In Francia, dal 1998, sono stati
istituiti dei gruppi di cittadini (“jury citoyen”), convocati periodicamente
per esprimere opinioni su temi di interesse comune: dalla gestione delle acque
ai trattamenti dei rifiuti, dai piani sanitari ai temi bioetici in agenda degli
Stati Generali per la revisione della Legge sulla bioetica. Oltre al Consiglio
di Stato, anche il Rapporto degli Stati Generali della bioetica, con
l’unanimità delle Giurie di cittadini, hanno raccomandato il rispetto delle
volontà dei familiari, il dialogo con loro prima della morte del donatore, una
accurata informazione ed educazione del grande pubblico e dei giovani.
C’è inoltre da sottolineare che
una mentalità di accaparramento degli elementi dei corpi umani senza paletti
etici concorre a rendere inavvertito il grave atto della distruzione dei corpi
embrionali, tutta quella deriva che non coglie l’ingiustizia di servirsi degli
embrioni come materiale biologico di nessuna rilevanza e preziosità umana,
aggravata dalla dizione di uso “terapeutico” del loro utilizzo, come se il fine
- una ipotetica valenza curativa –
giustificasse il mezzo. Ribadire che “la semplice idea di considerare
l’embrione come materiale terapeutico contraddice le basi culturali, civili ed
etiche su cui poggia la dignità della persona” è dunque un doveroso atto di
difesa di una vita sociale davvero civile.
La questione della “morte certa
del donatore”
Il secondo grande e decisivo
argomento da esaminare è l’altra caratteristica necessaria per giudicare
eticamente lecito il prelievo di organi: la morte certa del donatore. Bisogna
qui innanzitutto fare una distinzione precisa tra la morte della persona
clinicamente definita a partire da criteri medici diagnostici ben determinati e
la cosiddetta “morte biologica” degli organi e tessuti. Esiste in effetti uno
scarto tra la morte dell’organismo e i meccanismi di necrosi degli organi,
scarto sul quale si fonda il concetto stesso di medicina dei trapianti.
Quando si può considerare con
certezza che una persona è morta? GPII ha fornito una risposta interessante a
questa domanda, in termini antropologici che servono da linee-guida per un
approccio medico che deve trovare nella propria competenza le coordinate per un
atto valido tanto scientificamente quanto eticamente. Vale la pena leggere le
sue parole: “La morte di una persona è un avvenimento unico che consiste nella
disintegrazione totale di questo insieme unitario e integrato che è la persona
umana. Essa risulta la separazione del principio vitale (o anima) dalla realtà
corporale della persona. La morte della persona, secondo questo fondamentale
significato, è un avvenimento che nessuna tecnica scientifica o empirica può
direttamente verificare”. Ma allora la scienza medica sarebbe impossibilitata a
risolvere la questione? Non del tutto, afferma lo stesso GPII, poiché
“l’esperienza umana mostra che quando sopraggiunge la morte, alcuni segni
biologici seguono inevitabilmente, segni che la medicina ha imparato a
riconoscere via via sempre con maggiore precisione. In questo senso, i
“criteri” che permettono di constatare
la morte e che sono utilizzati dalla medicina oggi non dovranno essere intesi
come la determinazione esatta della morte della persona, ma come un mezzo
scientifico solido di identificare i segni biologici che mostrano che la
persona è effettivamente morta”.
Non è un gioco di parole, è la
realistica constatazione che se ci sfugge il momento esatto della morte, pur
tuttavia è possibile conoscere quando questa sia già sopraggiunta. È questo un
guadagno teoretico di importanza capitale nell’approfondimento che stiamo
svolgendo.
Evoluzione del concetto clinico
di morte
La definizione medica di morte
per lungo tempo ha riposato unicamente sulla fine della attività
cardiocircolatoria. L’assenza di circolazione sanguigna porta ad una mancanza
di ossigeno che produce nei vari organi l’inizio della loro distruzione
biologica e il primo tessuto che va in necrosi è quello cerebrale, cui
seguiranno via via tutti gli altri. Il criterio dell’arresto cardiocircolatorio
è stato per lungo tempo l’unico criterio che rendeva ragione della morte
avvenuta, il segno biologico riconoscibile dalla medicina di qualcosa (la
morte) che si constatava come dato di fatto. Non era stabilito l’istante, ma
dopo un po’ di assenza di circolazione si era certi che era avvenuta.
Nel 1959, i professori Maurice
Goulon e Pierre Mollaret descrivono alla
XXIII Riunione Internazionale di neurologia la possibilità che ad alcune
persone, che non presentano più alcuna attività neurologica dopo arresto della
funzione cardiocircolatoria, si possa
applicare una funzione cardiaca meccanica che consente ancora una perfusione di
sangue ossigenato negli organi: deceduti, ma con un cuore che batte artificialmente.
Si inizia a parlare di criterio neurologico di morte, paradigma che verrà
adottato a partire dalla pubblicazione il 5 agosto 1968 nel Journal of American
Medical Association del Rapporto di Harvad che riconosce la morte encefalica
come il sintomo più accurato che manifesta la morte avvenuta, poiché la
funzione cardiocircolatoria può essere simulata da una perfusione artificiale
(il cuore può essere stimolato a battere e spingere il sangue in periferia
grazie ad una macchina), mentre l’avvenuta distruzione e irrimediabile
alterazione del sistema nervoso nel suo insieme è inequivocabile. Scrive il
prof Arduin, comprensibilmente orgoglioso della scoperta dei due illustri
connazionali, “Il contesto [in cui avviene l’osservazione] è esclusivamente quello
delle cure rianimatorie intensive, ben prima di ogni considerazione sui
trapianti d’organo. Il nuovo criterio di constatazione di morte non è dunque in
nessun modo una invenzione di persone poco scrupolose pronte a tutto pur di
prelevare anzitempo gli organi”.
Fino a ieri, anche il Codice di
sanità francese stabiliva la definizione di morte “neurologica” (è preferibile
la dizione “encefalica” presente nella nostra legislazione), atta a soddisfare
i criteri per il prelievo degli organi, come la contemporanea presenza di tre
segni: 1) Assenza totale di coscienza e di attività motoria spontanea; 2)
Abolizione di tutti i riflessi del tronco cerebrale; 3) Assenza totale di
respirazione spontanea. La constatazione di morte deve essere firmata da due
medici. Questa procedura è stata riconosciuta anche eticamente accettabile dal
Magistero pontificio. È importantissimo ricordare che solo la distruzione
totale e irreversibile di tutto l’encefalo nel suo insieme – e non solamente
quella della corteccia cerebrale superiore – autorizza a certificare che la
persona è certamente morta. L’importanza si mostra in tutta la sua valenza
etica quando si esamini la situazione, ad esempio, dei bimbi nati con
anencefalia, ovvero con la mancanza già in utero delle strutture cerebrali
superiori (la cosiddetta corteccia, appunto), che non possono vivere a lungo
dopo la nascita ma che non possono essere considerati “serbatoi di organi” e
dunque espiantati con leggerezza. Anche a loro va riconosciuto il diritto di
attendere la morte, quando e solo dopo che anche il tronco encefalico abbia
smesso di avere attività.
Forse ora sarà più facile anche
per i non specialisti, intuire che il criterio di morte encefalica “corrisponde
ad una situazione fisiopatologica più avanzata di quella corrispondente al
criterio cardiocircolatorio, poiché il danno encefalico è posteriore
all’arresto cardiaco” come ben sintetizzato dal prof. Requena Meana, riportato
nel dossier di libérté politique. Che riassume così lo stato dell’arte: “La
posizione della comunità scientifica e medica, in accordo con quella del
Magistero cattolico, è dunque molto ferma: accettare i criteri neurologici di
morte encefalica non significa ridurre la persona al funzionamento dei suoi
emisferi cerebrali superiori, bisogna provare con certezza che l’integrità
dell’encefalo è distrutta in modo irreversibile”.
Il gap tra donatori e pazienti
bisognosi di trapianto
Chiarito questo punto
fondamentale, si affaccia una sfida ulteriore. Si è già accennato all’inizio
che il miglioramento delle tecniche di rianimazione e di trapianto ha causato
in questi anni un aumento dei potenziali soggetti sottoponibili a trapianto e
una diminuzione dei donatori, nonché all’innalzarsi dell’età media di
quest’ultimi. Tradotto in termini commerciali: un aumento della richiesta a
fronte di un calo dell’offerta. La tentazione di ricorrere perciò a logiche
propriamente utilitaristiche e di oltrepassare le difficoltà con soluzioni a
dire il meno “disinvolte” sta insinuandosi non solo nelle dichiarazioni
teoretiche, ma anche nei protocolli clinici e nelle legislazioni. “Per
reclutare nuovi potenziali donatori, la strategia progressivamente adottata
dalle autorità sanitarie è consistita nello sviluppo dei prelievi
cosiddetti a cuore fermo. Abbandonato in
Francia il criterio cardiocircolatorio dopo il 1970 […], il decreto del 2
agosto 2005 ha autorizzato la ripresa degli espianti da donatori deceduti per
arresto cardiaco”.
In Francia dunque, nuovi articoli
del Codice di Salute pubblica stabiliscono che “i prelievi di organo […]
possono essere praticati su persone decedute che presentino un arresto
cardiocircolatorio persistente”, realizzando il fatto che esistano due
definizioni di morte connesse al prelievo di organi, con il rischio di
sollevare dubbi nella mente del pubblico e dei curanti”.
Continua il prof. Arduin nel
dossier: “Quale procedura è ritenuta dall’Agenzia di biomedicina da tenersi per
autorizzare l’espianto in questo tipo di donatori? Se, malgrado una
rianimazione intensiva ben condotta per una durata di trenta minuti alla fine
della quale non si noti alcuna ripresa dell’attività cardiorespiratoria
spontanea, né alcuna reattività pupillare alla luce (1° tappa), è previsto che
tutte le manovre siano interrotte per cinque minuti (2° tappa). Al termine di
questo periodo di osservazione, si considera possibile dichiarare la persona
effettivamente morta. Comincia allora la 3° tappa in cui l’équipe deve
effettuare delle operazioni simili a quelle di una rianimazione classica con
massaggio cardiaco esterno e ventilazione artificiale dopo intubazione, ma non
allo scopo di assicurare una ripresa della vita, ma per mantenere
l’irrigazione, e dunque l’ossigenazione degli organi prima di un eventuale
prelievo.” L’ultima tappa serve a perfondere il cadavere con liquido refrigerante
per garantire la conservazione degli organi addominali.
La brevità del tempo di
osservazione nel caso di espianto dopo arresto cardiocircolatorio opera un
cambiamento radicale in rapporto alla situazione delle persone in morte
encefalica: mentre in questo ultimo caso la morte è avvenuta malgrado
l’applicazione dei mezzi di supplenza dell’attività cardiocircolatoria e la
constatazione della morte avviene grazie ai segni neurologici, nel primo caso
il certificato di morte può essere firmato una volta constatata l’assenza di
attività cardiaca al termine di soli cinque minuti di osservazione. A quel
punto le manovre rianimatorie non sono riprese con la finalità del bene del
paziente, ma solo per preservare gli organi; la pratica medica ne esce profondamente
cambiata e non siamo sicuri che questo non causi ripercussioni psicologiche sul
personale sanitario.
Inoltre l’autore francese solleva
la questione della mancanza di dibattito pubblico sul tema, che è stato
praticamente ignorato anche dalla recente revisione della Legge sulla Bioetica, assenza che
qualcuno ha definito un “deficit democratico”. La commissione di etica della
Società di Rianimazione denuncia una “rottura etica” tra la modalità di
prelievo per i donatori in morte encefalica e quelli a”cuore fermo”, fino a
ipotizzare una opposizione dissociata nei confronti delle due modalità di
prelievo degli organi. Ci si chiede se continui a venire rispettata la libertà
necessaria per il dono, il che, in altre parole significa: non è che poiché
accetto di donare i miei organi in caso di morte encefalica, sono anche
disposto a farlo nel contesto di un arresto cardiaco imprevisto. E altre
domande si affacciano: l’abbandono troppo precoce delle tecniche finalizzate
alla rianimazione non costituisce una sorta di eutanasia per omissione, che fa
passare arbitrariamente un paziente dallo stato di paziente da salvare a quello
di potenziale donatore d’organi? E non è pericoloso investire troppo presto la
persona a cuore fermo della qualificazione di donatore, come per compensare
psicologicamente lo smacco dei trattamenti inizialmente messi in atto?
Aspetti giuridici che preoccupano
Ci sono anche fatti giuridici che
allarmano, un susseguirsi di segnali di spinta verso la reificazione umana.
Poiché alcuni autori ipotizzano che le pratiche di irrorazione forzata in
pazienti con la sola constatazione di “morte cardiaca” possano, per così dire,
giungere a “causare” una certa irrorazione del cervello che potrebbe mantenere
una funzione cerebrale residua, si arriva alla paradossale Raccomandazione
nazionale del Canada per il dono dopo la morte per criteri cardiocircolatori:
“non possono essere realizzati interventi che possano ristabilire una
perfusione e ossigenazione cerebrale”. Come fare, allora? Mettendo un ostacolo,
un palloncino per esempio, che blocchi la circolazione nella parte
intratoracica del corpo.
Aggiunge perplessità al quadro
già così ben descritto dal Dossier della rivista Liberté politique, la notizia
diramata dalle agenzie il 20 settembre 2011: “(Adnkronos/Adnkronos Salute) -
Niente più attese prima di procedere al prelievo d’organo negli Stati Uniti. I
chirurghi, in futuro, potranno prelevare cuore, reni e fegato subito dopo lo
stop del cuore del donatore, senza aspettare almeno due minuti per essere certi
che il muscolo cardiaco non ricominci spontaneamente a battere. Questa la
novità al centro delle nuove regole prese in esame in questi mesi negli Stati
Uniti, spinte da gruppi che coordinano l’assegnazione degli organi. Un progetto
di revisione che si è già attirato numerose critiche. Secondo gli oppositori,
infatti, i potenziali donatori finirebbero per essere trattati più come banche
di tessuti che come malati che devono poter aver ogni chance di sopravvivere o
morire in pace, si legge sul ’Washington Post’. A spingere per un cambiamento
delle regole è lo United Network for Organ Sharing (Unos), organizzazione non
profit che coordina la donazione d’organo, in base a un contratto con il
governo federale. Non la pensano così alcuni bioeticisti, fra cui Michael
Grodin della Boston University: si vuole fare di tutto per aumentare le
donazioni d’organo, spiegano. Il timore è quello di non rispettare i diritti
dei donatori, finendo per avere un approccio invasivo che trasformi i pazienti
in fin di vita in una fonte di ’pezzi di ricambio’. Circa 6.000 americani
l’anno muoiono in attesa di un organo. Il problema è che, con la speranza di
salvare più vite, alcuni ospedali avrebbero iniziato a tagliare i tempi
dell’attesa prima di autorizzare il prelievo degli organi: è il caso del
Children’s Hospital Colorado di Denver, che puntava ad aspettare solo 75
secondi prima di prelevare il cuore dai neonati con danno cerebrale e
impiantarlo in bimbi che altrimenti sarebbero morti. Dopo le polemiche
suscitate dalla notizia, i medici sono tornati ai due minuti di attesa. La
revisione delle regole sui trapianti punta, infine, all’utilizzo di una nuova
definizione: "Donazione dopo la morte circolatoria", che indica come
il cuore potrebbe non essere necessariamente morto prima che venga dichiarato
il decesso del paziente.”
La conclusione del lungo e
articolato dossier francese merita attenzione e seria riflessione: tali
prospettive “unicamente finalizzate ad aumentare la disponibilità di organi non
possono che modificare profondamente il contesto della morte in Francia [e non
solo, viene spontaneo aggiungere], con il rischio di arrivare ad una
disapprovazione sociale verso il principio stesso dell’etica dei trapianti”.
Non sono certamente i decreti legislativi che permetteranno di risolvere
serenamente le obiezioni argomentate nell’articolo, bisognerà che davvero i
pubblici poteri facciano loro i consigli pieni di saggezza di BXVI: “In un
contesto siffatto non si può avere la minima supposizione di arbitrarietà e il principio di precauzione deve prevalere
là dove non si sia giunti ad alcuna certezza. Perciò è utile sviluppare la
ricerca e la riflessione interdisciplinare in modo che la stessa opinione pubblica sia posta davanti
alla verità più trasparente sulle implicazioni antropologiche, sociali, etiche
e giuridiche dei trapianti d’organo”.
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