lunedì 7 novembre 2011


“Una forma particolare di testimonianza della carità”. Un Dossier della rivista “Liberté Politique” sul trapianto d’organi. - 03-11-2011 - di Chiara Mantovani, http://vanthuanobservatory.org


Il numero 53, del giugno 2011, della rivista La Liberté politique offre una interessante e articolata disamina sui problemi etici sollevati dai trapianti d’organo. Recentemente anche in Italia la materia ha visto aprirsi una serie di obiezioni alla sospetta facilità con cui sarebbero ormai accettati procedimenti medici certamente affascinanti per la possibilità di offrire una soluzione a gravi patologie, ma nei confronti dei quali non è mai scomparsa del tutto la diffidenza.
Il problema etico nei trapianti d’organo è argomento ben indagato dalle discipline bioetiche, praticamente un classico. Il Dossier della rivista francese ha il grande merito di essere accurato, di riassumere esaurientemente i fondamentali razionali e scientifici e di introdurre riflessioni non banali sollevate da procedure di espianto che vanno imponendosi nella pratica medica.
Diciamo subito che l’Italia ha una legislazione in merito molto garantista dell’eticità, molto più corretta di altri Paesi europei. Ma la deriva eutanasica – Benedetto XVI nella enciclica Caritas in veritate, al numero  75, parla di una mens eutanasica -  e il riduzionismo biologico che serpeggiano anche a casa nostra non lasciano tranquilli e le domande poste dal Dossier “La donazione d’organi. Promesse e minacce” meritano grande attenzione.
Pur facendo riferimento anche a pronunciamenti e documenti del Magistero cattolico, tutto lo svolgimento del tema è mantenuto rigorosamente nell’ambito di analisi dei dati scientifici e legislativi, evidenziando quanto esso sia di interesse civile, rilevante nella costruzione sociale: e questo mostra una volta di più quali importanti ricadute nella concretezza della vita quotidiana siano legate alle problematiche bioetiche.
Gli interrogativi da cui parte il dossier
Il prof. Pierre-Olivier Arduin, direttore della commissione Bioetica e Vita Umana della diocesi Fréjus-Toulon, autore dell’articolo “Espianti d’organo: una nuova sfida bioetica”, descrive subito gli interrogativi dell’approfondimento: dal momento che in Francia il 95% dei prelievi destinati al trapianto di organi si effettuano su donatori in stato di morte encefalica, il recepimento del consenso del defunto e le modalità di constatazione di morte costituiscono l’oggetto del problema, aggiungendo che “la domanda sulla eticità raddoppia con la recente autorizzazione dei poteri pubblici al prelievo da persone in stato di arresto cardiaco”. Lo scopo del trapianto d’organo non è solo quello di migliorare la vita di un ammalato, ma perfino di scongiurarne la morte, ineluttabile a breve termine senza il trapianto: certamente dunque, tutta la materia assume il carattere di un atto non solo lecito in sé, ma certamente encomiabile, riconosciuto tale anche dalla dottrina cattolica, che ha sempre seguito con apprezzamento ed interesse gli sviluppi della disciplina. Anche Benedetto XVI ha ribadito che “i trapianti di organi e tessuti rappresentano una grande conquista della scienza medica e sono certamente un segno di speranza per numerose persone la cui situazione clinica è diventata grave e talvolta estrema”, ribadendo il concetto espresso da Giovanni Paolo II che “le tecniche di trapianto si sono rivelate essere un metodo via via più efficace per ottenere l’obbiettivo fondamentale della medicina: servire la vita umana”. Come ribadito nella Evangelium vitae, “la donazione d’organo, compiuta secondo una forma eticamente accettabile” è un modo di promuovere una autentica cultura della vita. Ovviamente sempre tenendo presente che il criterio di giudizio etico in materia è “la  difesa del bene integrale della persona umana in armonia con la dignità unica che è propria in virtù della nostra umanità” e che, dunque, nonostante ogni speranza di salute e di vita che offrono, “inducono alcune gravi domande che è necessario esaminare alla luce di una attenta riflessione antropologica ed etica”.
Il significato etico della donazione di organi
La legislazione francese, non diversamente da quella italiana, riconosce un rispetto dovuto al corpo della persona deceduta, “una sorta di continuazione” dopo la morte del rispetto doveroso verso ogni essere umano “quale valore essenziale della nostra società al di là delle differenze religiose, filosofiche o morali”, principio di cui si danno numerose manifestazioni nella vita sociale attraverso i riti funebri e la protezione giuridica assicurata anche dopo il decesso. In poche parole, non si può trattare un cadavere come una semplice somma di pezzi staccabili e affinché l’atto di espianto rivesta un valore etico è necessario che “riposi sulla decisione di offrire senza alcun compenso una parte del proprio corpo per la salute e il benessere di un’altra persona: in ciò precisamente risiede la nobiltà del gesto”. Un dono disinteressato, dunque, che diventa – secondo una espressione ancora di GPII ripresa da BXVI – “una forma particolare di testimonianza della carità [...]: fare della propria vita un dono per gli altri”.
È perciò “la nozione di dono che giustifica il fatto che sia posta attenzione al rispetto dovuto al corpo umano e permette di fondare eticamente questa nuova disciplina medica. Questa scelta del dono e della solidarietà si fonda in primo luogo sulla necessità di raccogliere il consenso di colui che ormai sarà chiamato “donatore”. In Francia la legge Caillavet del 1976 è stata la prima a dotarsi di un provvedimento, poi diffuso anche in Italia, detto “silenzio-assenso”, ovvero del consenso presunto – se non vi siano esplicite disposizioni contrarie – al prelievo di organi. Restano immutate le caratteristiche obbligatorie di gratuità e di anonimato (sia del donatore che del ricevente che di coloro che, per necessità mediche, ne fossero a conoscenza) e l’esistenza di un interesse terapeutico dimostrato.
Nuovi problemi emergenti
Ma alcuni fattori che stanno emergendo nella pratica clinica meritano di essere sottolineati. Primo fra tutti, la scarsità di organi disponibili a fronte di una richiesta sempre maggiore. L’aumento del gap è dovuto, da un lato, al miglioramento delle tecniche di rianimazione, che oggettivamente riducono il numero di persone che muoiono e che perciò riducono i potenziali donatori; dall’altro, al progresso delle tecniche di trapianto che aumentano le circostanze cliniche che potrebbero ricavare beneficio dai trapianti.
“È utile, soprattutto nel contesto odierno, ritornare a riflettere su questa conquista della scienza, perché non avvenga che il moltiplicarsi delle richieste di trapianto abbia a sovvertire i principi etici che ne stanno alla base”, ricordava Benedetto XVI nel 2008 ai congressisti riuniti dalla Pontificia Accademia per la Vita per parlare di trapianti d’organo: e questa esortazione, che poteva sembrare solo un fervorino dovuto da parte di un Pontefice, si sta rivelando di giorno in giorno più stringente e necessaria.
Affinché il prelievo abbia la caratteristica del dono (e non della “predazione”, come talvolta viene definito da chi è contrario ai trapianti), è ovviamente fondamentale il recepimento di un consenso serio, non solo  formale, evitando quello rivolto esclusivamente a mettere gli operatori sanitari al riparo da citazioni giudiziarie, quello che ha causato l’insorgere della “medicina difensiva”, quel “consenso informato” fondato su una modulistica inattaccabile legalmente ma disinteressato ad assicurare una reale comprensione da parte del paziente dei termini medici e delle situazioni cliniche. Il traguardo doveroso di un rapporto medico-paziente che sia adeguato alla natura dei soggetti coinvolti non è perseguibile senza un “patto”, una “alleanza” che sia fino in fondo assunzione di responsabilità personale, competenza scientifica e fiducia nella volontà di agire per il “bene”.
Sottolinea Arduin: “Come recepire questo consenso quando la persona è deceduta? Gli Stati che hanno legiferato in materia di prelievo d’organi si dividono in due categorie: quelli che hanno scelto il consenso presunto e quelli che hanno optato per il consenso esplicito”; e nel primo caso si può anche distinguere un consenso presunto “forte” e uno “debole”, a seconda se i familiari abbiano, o no, comunque l’ultima parola sulla autorizzazione all’espianto. Per non concedere l’espianto dei propri organi è necessario un esplicito diniego formalizzato in vita; diversamente, in assenza di dichiarazione registrata, là dove viga un “consenso forte” nessuno potrà opporsi al prelievo. Il rispetto del parere dei familiari è conforme alla riflessione cattolica che, già con Pio XII, aveva chiesto il riconoscimento “dei diritti e dei sentimenti di terze persone cui spetta la cura del cadavere, in primo luogo dei familiari”; anche GPII aveva sottolineato che “L’assenso dei parenti  possiede un valore etico in assenza di decisione da parte del donatore”, e BXVI ha confermato che ”Spesso la tecnica del prelievo degli organi si realizza con un gesto di totale gratuità da parte dei familiari di pazienti il cui decesso sia accertato”. Per questo, sia il Consiglio d’Europa che il Santo Padre incoraggiano ad una informazione dei familiari che sia delicata, rispettosa del momento drammatico che stanno vivendo e al tempo stesso scientificamente corretta e adeguata alle capacità di comprensione, capace di sensibilizzare le coscienze verso una problematica che concerne direttamente la vita di tante persone.
I “prodotti del corpo”
Questo punto, che sembrerebbe tanto logico, sta correndo il rischio di presentare criticità etiche importanti. Il medico e geriatra Jean-Yves Nau ha dato notizia all’inizio del 2010 della volontà del Governo finlandese di autorizzare il prelievo di organi senza legarlo all’accordo della famiglia, per far fronte alla penuria di donazioni. “Di fatto, la volontà di una collettività nazionale che, con il pretesto di salvare vite umane, si appropria in modo coercitivo degli elementi costitutivi dei corpi dei propri cittadini è un pericolo da non sottovalutare. La logica utilitarista potrebbe presumere il consenso di una persona all’utilizzo a qualunque prezzo dei “prodotti” del suo corpo”.
In Francia, dal 1998, sono stati istituiti dei gruppi di cittadini (“jury citoyen”), convocati periodicamente per esprimere opinioni su temi di interesse comune: dalla gestione delle acque ai trattamenti dei rifiuti, dai piani sanitari ai temi bioetici in agenda degli Stati Generali per la revisione della Legge sulla bioetica. Oltre al Consiglio di Stato, anche il Rapporto degli Stati Generali della bioetica, con l’unanimità delle Giurie di cittadini, hanno raccomandato il rispetto delle volontà dei familiari, il dialogo con loro prima della morte del donatore, una accurata informazione ed educazione del grande pubblico e dei giovani.
C’è inoltre da sottolineare che una mentalità di accaparramento degli elementi dei corpi umani senza paletti etici concorre a rendere inavvertito il grave atto della distruzione dei corpi embrionali, tutta quella deriva che non coglie l’ingiustizia di servirsi degli embrioni come materiale biologico di nessuna rilevanza e preziosità umana, aggravata dalla dizione di uso “terapeutico” del loro utilizzo, come se il fine -  una ipotetica valenza curativa – giustificasse il mezzo. Ribadire che “la semplice idea di considerare l’embrione come materiale terapeutico contraddice le basi culturali, civili ed etiche su cui poggia la dignità della persona” è dunque un doveroso atto di difesa di una vita sociale davvero civile.
La questione della “morte certa del donatore”
Il secondo grande e decisivo argomento da esaminare è l’altra caratteristica necessaria per giudicare eticamente lecito il prelievo di organi: la morte certa del donatore. Bisogna qui innanzitutto fare una distinzione precisa tra la morte della persona clinicamente definita a partire da criteri medici diagnostici ben determinati e la cosiddetta “morte biologica” degli organi e tessuti. Esiste in effetti uno scarto tra la morte dell’organismo e i meccanismi di necrosi degli organi, scarto sul quale si fonda il concetto stesso di medicina dei trapianti.
Quando si può considerare con certezza che una persona è morta? GPII ha fornito una risposta interessante a questa domanda, in termini antropologici che servono da linee-guida per un approccio medico che deve trovare nella propria competenza le coordinate per un atto valido tanto scientificamente quanto eticamente. Vale la pena leggere le sue parole: “La morte di una persona è un avvenimento unico che consiste nella disintegrazione totale di questo insieme unitario e integrato che è la persona umana. Essa risulta la separazione del principio vitale (o anima) dalla realtà corporale della persona. La morte della persona, secondo questo fondamentale significato, è un avvenimento che nessuna tecnica scientifica o empirica può direttamente verificare”. Ma allora la scienza medica sarebbe impossibilitata a risolvere la questione? Non del tutto, afferma lo stesso GPII, poiché “l’esperienza umana mostra che quando sopraggiunge la morte, alcuni segni biologici seguono inevitabilmente, segni che la medicina ha imparato a riconoscere via via sempre con maggiore precisione. In questo senso, i “criteri”  che permettono di constatare la morte e che sono utilizzati dalla medicina oggi non dovranno essere intesi come la determinazione esatta della morte della persona, ma come un mezzo scientifico solido di identificare i segni biologici che mostrano che la persona è effettivamente morta”.
Non è un gioco di parole, è la realistica constatazione che se ci sfugge il momento esatto della morte, pur tuttavia è possibile conoscere quando questa sia già sopraggiunta. È questo un guadagno teoretico di importanza capitale nell’approfondimento che stiamo svolgendo.
Evoluzione del concetto clinico di morte
La definizione medica di morte per lungo tempo ha riposato unicamente sulla fine della attività cardiocircolatoria. L’assenza di circolazione sanguigna porta ad una mancanza di ossigeno che produce nei vari organi l’inizio della loro distruzione biologica e il primo tessuto che va in necrosi è quello cerebrale, cui seguiranno via via tutti gli altri. Il criterio dell’arresto cardiocircolatorio è stato per lungo tempo l’unico criterio che rendeva ragione della morte avvenuta, il segno biologico riconoscibile dalla medicina di qualcosa (la morte) che si constatava come dato di fatto. Non era stabilito l’istante, ma dopo un po’ di assenza di circolazione si era certi che era avvenuta.
Nel 1959, i professori Maurice Goulon e Pierre Mollaret descrivono  alla XXIII Riunione Internazionale di neurologia la possibilità che ad alcune persone, che non presentano più alcuna attività neurologica dopo arresto della funzione cardiocircolatoria,  si possa applicare una funzione cardiaca meccanica che consente ancora una perfusione di sangue ossigenato negli organi: deceduti, ma con un cuore che batte artificialmente. Si inizia a parlare di criterio neurologico di morte, paradigma che verrà adottato a partire dalla pubblicazione il 5 agosto 1968 nel Journal of American Medical Association del Rapporto di Harvad che riconosce la morte encefalica come il sintomo più accurato che manifesta la morte avvenuta, poiché la funzione cardiocircolatoria può essere simulata da una perfusione artificiale (il cuore può essere stimolato a battere e spingere il sangue in periferia grazie ad una macchina), mentre l’avvenuta distruzione e irrimediabile alterazione del sistema nervoso nel suo insieme è inequivocabile. Scrive il prof Arduin, comprensibilmente orgoglioso della scoperta dei due illustri connazionali, “Il contesto [in cui avviene l’osservazione] è esclusivamente quello delle cure rianimatorie intensive, ben prima di ogni considerazione sui trapianti d’organo. Il nuovo criterio di constatazione di morte non è dunque in nessun modo una invenzione di persone poco scrupolose pronte a tutto pur di prelevare anzitempo gli organi”.
Fino a ieri, anche il Codice di sanità francese stabiliva la definizione di morte “neurologica” (è preferibile la dizione “encefalica” presente nella nostra legislazione), atta a soddisfare i criteri per il prelievo degli organi, come la contemporanea presenza di tre segni: 1) Assenza totale di coscienza e di attività motoria spontanea; 2) Abolizione di tutti i riflessi del tronco cerebrale; 3) Assenza totale di respirazione spontanea. La constatazione di morte deve essere firmata da due medici. Questa procedura è stata riconosciuta anche eticamente accettabile dal Magistero pontificio. È importantissimo ricordare che solo la distruzione totale e irreversibile di tutto l’encefalo nel suo insieme – e non solamente quella della corteccia cerebrale superiore – autorizza a certificare che la persona è certamente morta. L’importanza si mostra in tutta la sua valenza etica quando si esamini la situazione, ad esempio, dei bimbi nati con anencefalia, ovvero con la mancanza già in utero delle strutture cerebrali superiori (la cosiddetta corteccia, appunto), che non possono vivere a lungo dopo la nascita ma che non possono essere considerati “serbatoi di organi” e dunque espiantati con leggerezza. Anche a loro va riconosciuto il diritto di attendere la morte, quando e solo dopo che anche il tronco encefalico abbia smesso di avere attività.
Forse ora sarà più facile anche per i non specialisti, intuire che il criterio di morte encefalica “corrisponde ad una situazione fisiopatologica più avanzata di quella corrispondente al criterio cardiocircolatorio, poiché il danno encefalico è posteriore all’arresto cardiaco” come ben sintetizzato dal prof. Requena Meana, riportato nel dossier di libérté politique. Che riassume così lo stato dell’arte: “La posizione della comunità scientifica e medica, in accordo con quella del Magistero cattolico, è dunque molto ferma: accettare i criteri neurologici di morte encefalica non significa ridurre la persona al funzionamento dei suoi emisferi cerebrali superiori, bisogna provare con certezza che l’integrità dell’encefalo è distrutta in modo irreversibile”.
Il gap tra donatori e pazienti bisognosi di trapianto
Chiarito questo punto fondamentale, si affaccia una sfida ulteriore. Si è già accennato all’inizio che il miglioramento delle tecniche di rianimazione e di trapianto ha causato in questi anni un aumento dei potenziali soggetti sottoponibili a trapianto e una diminuzione dei donatori, nonché all’innalzarsi dell’età media di quest’ultimi. Tradotto in termini commerciali: un aumento della richiesta a fronte di un calo dell’offerta. La tentazione di ricorrere perciò a logiche propriamente utilitaristiche e di oltrepassare le difficoltà con soluzioni a dire il meno “disinvolte” sta insinuandosi non solo nelle dichiarazioni teoretiche, ma anche nei protocolli clinici e nelle legislazioni. “Per reclutare nuovi potenziali donatori, la strategia progressivamente adottata dalle autorità sanitarie è consistita nello sviluppo dei prelievi cosiddetti  a cuore fermo. Abbandonato in Francia il criterio cardiocircolatorio dopo il 1970 […], il decreto del 2 agosto 2005 ha autorizzato la ripresa degli espianti da donatori deceduti per arresto cardiaco”.
In Francia dunque, nuovi articoli del Codice di Salute pubblica stabiliscono che “i prelievi di organo […] possono essere praticati su persone decedute che presentino un arresto cardiocircolatorio persistente”, realizzando il fatto che esistano due definizioni di morte connesse al prelievo di organi, con il rischio di sollevare dubbi nella mente del pubblico e dei curanti”.
Continua il prof. Arduin nel dossier: “Quale procedura è ritenuta dall’Agenzia di biomedicina da tenersi per autorizzare l’espianto in questo tipo di donatori? Se, malgrado una rianimazione intensiva ben condotta per una durata di trenta minuti alla fine della quale non si noti alcuna ripresa dell’attività cardiorespiratoria spontanea, né alcuna reattività pupillare alla luce (1° tappa), è previsto che tutte le manovre siano interrotte per cinque minuti (2° tappa). Al termine di questo periodo di osservazione, si considera possibile dichiarare la persona effettivamente morta. Comincia allora la 3° tappa in cui l’équipe deve effettuare delle operazioni simili a quelle di una rianimazione classica con massaggio cardiaco esterno e ventilazione artificiale dopo intubazione, ma non allo scopo di assicurare una ripresa della vita, ma per mantenere l’irrigazione, e dunque l’ossigenazione degli organi prima di un eventuale prelievo.” L’ultima tappa serve a perfondere il cadavere con liquido refrigerante per garantire la conservazione degli organi addominali.
La brevità del tempo di osservazione nel caso di espianto dopo arresto cardiocircolatorio opera un cambiamento radicale in rapporto alla situazione delle persone in morte encefalica: mentre in questo ultimo caso la morte è avvenuta malgrado l’applicazione dei mezzi di supplenza dell’attività cardiocircolatoria e la constatazione della morte avviene grazie ai segni neurologici, nel primo caso il certificato di morte può essere firmato una volta constatata l’assenza di attività cardiaca al termine di soli cinque minuti di osservazione. A quel punto le manovre rianimatorie non sono riprese con la finalità del bene del paziente, ma solo per preservare gli organi; la pratica medica ne esce profondamente cambiata e non siamo sicuri che questo non causi ripercussioni psicologiche sul personale sanitario.
Inoltre l’autore francese solleva la questione della mancanza di dibattito pubblico sul tema, che è stato praticamente ignorato anche dalla recente revisione  della Legge sulla Bioetica, assenza che qualcuno ha definito un “deficit democratico”. La commissione di etica della Società di Rianimazione denuncia una “rottura etica” tra la modalità di prelievo per i donatori in morte encefalica e quelli a”cuore fermo”, fino a ipotizzare una opposizione dissociata nei confronti delle due modalità di prelievo degli organi. Ci si chiede se continui a venire rispettata la libertà necessaria per il dono, il che, in altre parole significa: non è che poiché accetto di donare i miei organi in caso di morte encefalica, sono anche disposto a farlo nel contesto di un arresto cardiaco imprevisto. E altre domande si affacciano: l’abbandono troppo precoce delle tecniche finalizzate alla rianimazione non costituisce una sorta di eutanasia per omissione, che fa passare arbitrariamente un paziente dallo stato di paziente da salvare a quello di potenziale donatore d’organi? E non è pericoloso investire troppo presto la persona a cuore fermo della qualificazione di donatore, come per compensare psicologicamente lo smacco dei trattamenti inizialmente messi in atto?
Aspetti giuridici che preoccupano
Ci sono anche fatti giuridici che allarmano, un susseguirsi di segnali di spinta verso la reificazione umana. Poiché alcuni autori ipotizzano che le pratiche di irrorazione forzata in pazienti con la sola constatazione di “morte cardiaca” possano, per così dire, giungere a “causare” una certa irrorazione del cervello che potrebbe mantenere una funzione cerebrale residua, si arriva alla paradossale Raccomandazione nazionale del Canada per il dono dopo la morte per criteri cardiocircolatori: “non possono essere realizzati interventi che possano ristabilire una perfusione e ossigenazione cerebrale”. Come fare, allora? Mettendo un ostacolo, un palloncino per esempio, che blocchi la circolazione nella parte intratoracica del corpo.
Aggiunge perplessità al quadro già così ben descritto dal Dossier della rivista Liberté politique, la notizia diramata dalle agenzie il 20 settembre 2011: “(Adnkronos/Adnkronos Salute) - Niente più attese prima di procedere al prelievo d’organo negli Stati Uniti. I chirurghi, in futuro, potranno prelevare cuore, reni e fegato subito dopo lo stop del cuore del donatore, senza aspettare almeno due minuti per essere certi che il muscolo cardiaco non ricominci spontaneamente a battere. Questa la novità al centro delle nuove regole prese in esame in questi mesi negli Stati Uniti, spinte da gruppi che coordinano l’assegnazione degli organi. Un progetto di revisione che si è già attirato numerose critiche. Secondo gli oppositori, infatti, i potenziali donatori finirebbero per essere trattati più come banche di tessuti che come malati che devono poter aver ogni chance di sopravvivere o morire in pace, si legge sul ’Washington Post’. A spingere per un cambiamento delle regole è lo United Network for Organ Sharing (Unos), organizzazione non profit che coordina la donazione d’organo, in base a un contratto con il governo federale. Non la pensano così alcuni bioeticisti, fra cui Michael Grodin della Boston University: si vuole fare di tutto per aumentare le donazioni d’organo, spiegano. Il timore è quello di non rispettare i diritti dei donatori, finendo per avere un approccio invasivo che trasformi i pazienti in fin di vita in una fonte di ’pezzi di ricambio’. Circa 6.000 americani l’anno muoiono in attesa di un organo. Il problema è che, con la speranza di salvare più vite, alcuni ospedali avrebbero iniziato a tagliare i tempi dell’attesa prima di autorizzare il prelievo degli organi: è il caso del Children’s Hospital Colorado di Denver, che puntava ad aspettare solo 75 secondi prima di prelevare il cuore dai neonati con danno cerebrale e impiantarlo in bimbi che altrimenti sarebbero morti. Dopo le polemiche suscitate dalla notizia, i medici sono tornati ai due minuti di attesa. La revisione delle regole sui trapianti punta, infine, all’utilizzo di una nuova definizione: "Donazione dopo la morte circolatoria", che indica come il cuore potrebbe non essere necessariamente morto prima che venga dichiarato il decesso del paziente.”

La conclusione del lungo e articolato dossier francese merita attenzione e seria riflessione: tali prospettive “unicamente finalizzate ad aumentare la disponibilità di organi non possono che modificare profondamente il contesto della morte in Francia [e non solo, viene spontaneo aggiungere], con il rischio di arrivare ad una disapprovazione sociale verso il principio stesso dell’etica dei trapianti”. Non sono certamente i decreti legislativi che permetteranno di risolvere serenamente le obiezioni argomentate nell’articolo, bisognerà che davvero i pubblici poteri facciano loro i consigli pieni di saggezza di BXVI: “In un contesto siffatto non si può avere la minima supposizione di arbitrarietà  e il principio di precauzione deve prevalere là dove non si sia giunti ad alcuna certezza. Perciò è utile sviluppare la ricerca e la riflessione interdisciplinare in modo che la  stessa opinione pubblica sia posta davanti alla verità più trasparente sulle implicazioni antropologiche, sociali, etiche e giuridiche dei trapianti d’organo”.

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