giovedì 22 dicembre 2011


LECTIO MAGISTRALIS su “SCIENZA E CURA DELLA  VITA: EDUCAZIONE ALLA DEMOCRAZIA”  di Angelo Bagnasco* , http://www.scienzaevita.org/  Newsletter di Scienza & Vita n°52, del 21 Dicembre 2011

Saluto i partecipanti al Convegno  sul tema “Scienza  e cura della vita: educazione alla democrazia”, e  ringrazio l’Associazione “Scienza & Vita” per questa  iniziativa che affronta una questione quanto mai  delicata e ineludibile non solo per ogni singola persona,  ma anche per la società, sapendo che dalla   responsabilità e dai modi di affronto della vita nei suoi  vari momenti si ha una prima e decisiva misura del  livello umano della convivenza. Siamo tutti consapevoli  della delicatezza dell’ argomento in gioco,  così come   delle visioni diverse che spesso si confrontano, tanto da   essere considerata – la vita umana – uno di quegli  argomenti “divisivi” di cui è meglio non parlare, come se  l’ordine sociale, basato sulla giustizia,  potesse reggersi    sull’ ingiustizia che deriva  dal non affrontare ciò che  fondamentale:  “ come Chiesa e come credenti –  abbiamo scritto nel Documento conclusivo della XLVI  Settimana Sociale – siamo chiamati al grande compito  di servire il bene comune della civitas italiana in un  momento di grave crisi e allo stesso di memoria dei  centocinquant’anni di storia politicamente unitaria”  (Documento conclusivo, Reggio Calabria ottobre 2010,  n.2). E’ questo lo spirito e l’intendimento dei cattolici  consapevoli che, storicamente, “se non abbiamo fatto  abbastanza nel mondo, non è perché siamo cristiani, ma  perché non lo siamo abbastanza” (CEI,  La Chiesa  Italiana e le prospettive del Paese, 1981, n.13).   Tutti ci rendiamo conto che  siamo dentro ad una crisi  internazionale che non risparmia nessuno, e che  nessuno, nel mondo, può atteggiarsi da supponente  maestro degli altri. I grandi problemi dell’economia e  della finanza, del lavoro e della solidarietà, della pace e  dell’uso sostenibile della natura, attanagliano  pesantemente persone, famiglie e collettività,  specialmente i giovani. Su questi versanti, che declinano  la cosiddetta “etica sociale”, la sensibilità e la presenza  della Chiesa sono da sempre sotto gli occhi di tutti.  Fanno parte del messaggio cristiano come  inderogabile  conseguenza: “Chi non ama il proprio fratello che vede,  non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).  L’incalcolabile rete di vicinanza e di solidarietà che  abbraccia l’intero territorio  nazionale grazie ai nostri  sacerdoti, consacrati, innumerevoli volontari,  associazioni, rappresenta una mano tesa trasparente,  universalmente nota: è quotidianamente frequentata da  un crescente stuolo di fratelli e sorelle in difficoltà che   ricevono ascolto, aiuto, attenzione. Ed è sempre più  anche luogo di incontro e di concreta integrazione tra  popoli, religioni e culture. Una rete che si avvale di  risorse provvidenziali e di quell’amore gratuito che  nessuna legge può garantire poiché l’amore viene dal  cuore e dall’Alto.
1.       E’ possibile conoscere?
Ma oggi dobbiamo puntare la nostra attenzione  sulla vita umana nella sua nudità: è evidente che gli  aspetti citati fanno parte dell’esistenza concreta di ogni  persona, ma essi non devono oscurare la vita nei  momenti della sua maggiore  fragilità e quindi di più  pericolosa esposizione. Per questo credo sia inevitabile  allargare, seppur brevemente, l’orizzonte per poter  meglio affrontare il tema  della vita umana nella sua  assoluta indisponibilità o, se si vuole, sacralità. Per poter  parlare  di qualcosa, infatti, bisogna innanzitutto  chiederci se esiste qualcosa fuori di noi. E, se esiste,  possiamo conoscerla? Oppure siamo dentro ad una  realtà unicamente costruita dal soggetto pensante,  siamo alle prese solo con le nostre opinioni individuali,  senza una presa diretta sulla realtà oggettiva? E’ il  problema antico ma non scontato della conoscenza.  Come rispondere? Dando fiducia al mondo e all’uomo!  La conoscenza, infatti, parte da un atto positivo, di  fiducia: fa appello al senso comune, all’esperienza  universale. E’ più naturale, logico, istintivo, porre questo  atto di fiducia oppure sfiduciare l’universo? E’ dunque  un atto  di sintonia, di comunione preriflessa con il  mondo il punto di partenza del nostro rapportarci con il  mondo, non il rinchiuderci nel sospetto e nel dubbio  metodico e universale che – forse con aria di profonda  intelligenza – accusa di fanatismo chi affermi che la  verità esiste ed è conoscibile. La storia umana della  conoscenza – nonostante grovigli a volte sofferti – corre  sostanzialmente su questo filo e testimonia che, ogni  qualvolta lo scetticismo si è imposto, gli esiti personali e  sociali non sono stati più felici.   Il figlio di questo atteggiamento è lo scetticismo che  genera inevitabilmente quel nulla di significato e di  valore, quello svuotamento della vita e del mondo che  già Nietzsche aveva annunciato. In realtà egli lo fa  derivare dalla dichiarata “morte di Dio”, ma quando la  ragione viene cancellata dall’ orizzonte, anche la fede si  indebolisce: “Cerco Dio! Cerco Dio! (…) Dove se n’è  andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi  ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!   Ma come abbiamo fatto? Come potemmo vuotare il  mare bevendolo fino all’ultima goccia? Che mai  facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo  sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo  noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno  precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i  lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse  vagando come attraverso un infinito nulla?” (Nietzsche,  La gaia scienza, Mondadori 1971, pagg. 125-126). Il  nichilismo di senso e di valori nasce da una visione  materialista dell’uomo e del mondo, e si alimenta allo  spettro ridente del consumismo che porta a concepire  l’esistenza come una spasmodica spremitura di  soddisfazioni e godimenti fino all’estremo. Ma ben  presto – lo vediamo nella cronaca – ne deriva una  immane svalutazione della vita. Essa non è più custodita  dal sigillo della sacralità, e così quando non è più gradita  o risulta faticosa, la si  vorrebbe eliminare. “Si va  costituendo – dice Benedetto XVI - una dittatura del  relativismo che non riconosce nulla come definitivo e  che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue  voglie. Questa ideologia è divenuta un modo di vivere,  una prassi, che troviamo presente in molti ambiti e che  ha diversi volti” (J. Ratzinger, Omelia della Messa Pro  eligendo Pontifice, 18.4.2005).
  2.       Cos’è la verità?
“Cos’è la verità?” chiedeva Pilato a Gesù  prigioniero davanti a lui. E’ una domanda sempre  attuale che richiede una risposta seria e motivata. Per  aiutarci con un esempio, possiamo dire che la verità  della cappella Sistina consiste nella sua corrispondenza  con l’idea di Michelangelo: in questo caso, la Sistina  dipende dal pensiero di chi l’ha ideata. Ma la verità della  mia idea dell’aula  in cui siamo consiste nella  corrispondenza della mia idea con ciò che è  oggettivamente davanti a me: in altre parole è il mio  pensiero che dipende dall’oggetto conosciuto. La  tradizione culturale parla di verità ontologica nel primo  caso, e di verità logica nel  secondo. E’ vero che nella  conoscenza logica il soggetto  entra  in  gioco  con  la  sua  soggettività, ma mai a tal punto da falsare la realtà  stessa; infatti ognuno di noi  si ribella quando si sente  conosciuto da un altro in modo distorto.   Ora, se dal piano teoretico passiamo al piano pratico  dell’agire, ci chiediamo: nella conoscenza dei valori  morali  in quale campo siamo? Ontologico, per cui  siamo noi, come Michelangelo, a creare qualcosa?  oppure in quello logico per cui noi dobbiamo piegarci  alla realtà di qualcosa che ci precede e che non ammette  distorsioni? Oggi si tende a pensare che, sul piano  dell’etica, ognuno è costruttore di ciò che per lui,  soggettivamente, ha importanza e significato;  che il  nostro compito è quello di  comporre i diversi, a volte  opposti,  valori;    che  l’importante  –  quando  va  bene  -  è  disturbare gli altri il meno possibile. Ma non esiste  qualcosa a cui l’uomo possa rifarsi nella sua conoscenza  e quindi adeguarsi raggiungendo così la verità? E’ fuori  dubbio che non pochi di quelli che chiamiamo valori  appartengono alla sfera della soggettività individuale e   sociale, basta pensare al modo di vestire, di nutrirsi, a  tante convenzioni che hanno un peso nella convivenza,  hanno una importanza, ma sono destinati nel tempo a  mutare. Ma è tutto solo così? Non esiste nulla di  oggettivo in grado di essere metro della verità morale?  Che possa regolare, normare i miei comportamenti?  Qualcosa che sia talmente fondamentale per l’uomo da  essere universale, cioè per tutti? Di solito,  fino ad un  certo punto di questo ragionare  tutti si è concordi, ma  quando entra in gioco la questione del “valido per tutti”,  allora si accende una spia e sorge in noi una trincea  difensiva quasi si sentisse in pericolo la propria libertà  individuale, che si esprime nell’ autodeterminazione.
 3.      La libertà e l’autodeterminazione
 Entra sulla scena, dunque, la libertà nervo sensibile  dell’anima moderna. Mi pare interessante ricordare  quanto affermava Hegel nella sua Enciclopedia delle  scienze filosofiche: “La libertà è l’essenza propria dello  spirito e cioè la sua stessa realtà. Intere parti del mondo,  l’Africa e l’Oriente, non hanno mai avuto questa idea (…)  i Greci e i Romani, Platone e Aristotele (…) non l’hanno  avuta: essi sapevano che l’uomo è realmente libero in  forza della  nascita (come cittadino ateniese, spartano,  ecc.); o della forza del carattere o della cultura, in forza  della filosofia. Quest’idea è venuta nel mondo per opera  del cristianesimo, ed essendo oggetto e scopo dell’amore  di Dio, l’uomo è destinato ad avere relazione assoluta  con Dio come spirito, e far sì che questo spirito dimori in  lui. cioè l’uomo è destinato  in sé alla somma libertà”  (Hegel,  Enciclopedia delle scienze filosofiche,  Tr. It.,  Laterza, Bari 1951, pp. 442-443). Del resto è noto che,  prima del Cristianesimo, si concepiva come superiori  all’uomo le grandi potenze del Fato, della Natura, della  Storia; ed egli doveva obbedire a queste forze.   Ora, se l’uomo è libero per dono di Dio, ed egli si realizza  attraverso l’esercizio della propria libertà (in actu  exercito), bisogna chiederci se qualunque forma di  esercizio realizza la persona oppure no. A ben vedere,  come qualunque  agire non si qualifica da sé ma è  qualificato da ciò verso cui tende - camminare per fare  una passeggiata non è lo  stesso che camminare per  andare a fare una rapina – così la libertà, se per un verso   è valore in se stesso in quanto è  condizione di  responsabilità, per altro verso non è la sorgente della  bontà morale. La libertà è qualificata dal contenuto che  scelgo liberamente, e sta ad esso come il contenitore sta  al suo contenuto.  Il fatto che un atto sia una mia scelta  non  qualifica l’agire come buono, vero, giusto. Inoltre,  non bisogna dimenticare che  la bontà e il male morale  non sono astrazioni lontane  alle quali sacrificare gli  uomini nei loro desideri individuali; il bene è tale perché   mi fa crescere come persona  mentre il male mi  diminuisce nella mia umanità. E se le persone crescono  nel loro essere persone, la società intera cresce dato per  acquisito che tra l’individuo e la collettività vi è un  rapporto reciproco.  Oggi la tendenza diffusa è rendere  la libertà individuale un valore assoluto, sciolto non solo  da vincoli e norme ma anche indipendente  dalla verità  di ciò che sceglie; in tale modo però essa  si rivolta  6 contro l’uomo e perde se stessa, diventa prigioniera di se  stessa come ogni personalità narcisista. Ecco perché il  Signore Gesù ricorda che la verità libera la libertà e   rende libero l’uomo. Oggi vi è una certa allergia per ciò  che si presenta come assoluto, cioè oggettivo, universale  e definitivo: sembra di sentirsi come in una gabbia  insopportabile. Ma, dobbiamo chiederci, qual’ è la vera  prigione: l’assolutismo di  una libertà individualista o  l’assolutezza della verità?
  4.          Partecipazione dei cattolici alla civitas
Ma torniamo alla domanda: esiste qualcosa con  la quale la nostra libertà deve rapportarsi come ciò che  la precede nel valore e la qualifica morente?  Qualcosa che, conosciuto dalla nostra ragione, permetta  di superare l’angusto cerchio dell’opinione e di  camminare liberi nella verità oggettiva per tutti e per  sempre? Verità che dia senso al vivere e alla storia, alla  persona e alla società? Risuonano sempre attuali le  parole di Schopenauer quando parlava della “naturale  disposizione metafisica  dell’uomo”, quella disposizione  universale che spinge ciascuno a suo modo a cercare una  risposta alla più tremenda e fondamentale delle  domande: “Per quale motivo esiste qualcosa piuttosto  che il nulla se nulla ha necessità di esistere?”. Una  verità, dicevo, che crei appartenenza e generi una  comunità di vita e di destino? Oppure non esiste altro  che vari, piccoli e brevi significati, relativi alla riuscita  nella vita, al piacere, alle  voglie, alle emozioni, alla  fortuna? Ogni anno in Europa muoiono circa 50.000  persone per suicidio,  e  in una quindicina di Paesi  europei la più alta percentuale di morte dei giovani è  costituita dal suicidio! Se tutto è relativo, merita ancora  vivere quando la vita mostra le sue durezze?   La Chiesa, inviata dal suo Signore come sale della terra e  luce del mondo, svolge la sua missione evangelizzatrice  in molti modi, con la Parola, i Sacramenti e il servizio  della carità. Fa parte del suo servire il mondo l’essere  con umiltà e amore coscienza critica e sistematica della  storia: non è arroganza, ingerenza o intransigenza, ma  fedeltà a Dio e agli uomini. E’ portare il suo contributo  alla costruzione della civitas terrena. Per questo non c’è  da temere per la laicità dello Stato, infatti il principio di  laicità inteso come “autonomia della sfera civile e  politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da  quella morale – è un valore acquisito e riconosciuto  dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è  stato raggiunto (…). La laicità, infatti, indica in primo  luogo l’atteggiamento di chi rispetta le verità che  scaturiscono dalla conoscenza naturale dell’uomo che  vive in società, anche se tali verità sono nello stesso  tempo insegnate da una religione specifica, poiché la  verità è una” (Congregazione per la Dottrina della Fede,  Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti  l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita  politica, 24.11.2002, n. 6).   E’ dunque giusto riconoscere la rilevanza pubblica delle  fedi religiose: però se il semplice riconoscimento  è già  un valore auspicabile e dovuto, dall’altro è fortemente   insufficiente in ordine alla costruzione del bene comune  e  allo  stesso  concetto  di  vera  laicità.  Potremmo  dire  che  è come una cornice di apprezzabile valore ma che deve  essere riempita di contenuti. Fuori dall’immagine, la  laicità positiva non può ridursi a rispetto e a procedure  corrette, ma deve misurarsi con l’uomo, per ciò che è in  se stesso universalmente, cioè con la sua natura. E’  questa -  la sua conoscenza integrale e il suo rispetto  plenario - che invera le diverse culture e ne misura la  bontà o, se si vuole  il livello intrinseco di umanesimo. A  questo livello primario si colloca il doveroso apporto dei  cristiani come cittadini,  consapevoli  che le principali  virtù di chiunque si dedichi al servizio della città è la  competenza e il merito: questo è l'insieme di onestà,  spirito di sacrificio e stile sobrio. Essi offrono il loro  contributo senza per questo dover mettere tra parentesi  la propria coscienza formata dalla Dottrina Sociale della  Chiesa, dal Magistero autentico e da una solida vita  spirituale nella comunità ecclesiale, ricordando che la  coscienza è l’eco della voce di Dio – come affermava il  beato Newman – ed deve essere sempre attenta perché  le opinioni, le ideologie, gli interessi o le abitudini, non  oscurino quella suprema voce che indica la via della  verità e del bene. Il ministero di Pietro, che è servizio di  verità e di carità, è posto  da Cristo Gesù perché la  coscienza non si smarrisca tra gli innumerevoli rumori  del mondo.      
5.     Umanesimo e umanesimi
Se, come ha affermato il Santo Padre Benedetto  XVI, “la questione sociale  è diventata radicalmente  questione antropologica” (Benedetto XVI,  Caritas in  veritate, 75), allora i cattolici non possono tacere circa la  concezione dell’uomo che fonda l’umanesimo integrale.  Non tutti gli umanesimi, infatti, sono equivalenti sotto il  profilo morale; da umanesimi differenti discendono  conseguenze opposte per la  convivenza civile. Se si  concepisce l’uomo in modo individualistico, come oggi si  tende, come si potrà costruire una società aperta e  solidale dove si chiede il dono e il sacrificio di sé? E se lo  si concepisce in modo materialistico, chiuso alla  trascendenza e centrato su se stesso, un “sasso” che  rotola  nello spazio, come riconoscerlo non come  “qualcosa” tra altre cose, ma come “qualcuno” che è  qualitativamente diverso dal resto della natura? L’uomo  si autotrascende nel senso che è sempre più di se stesso,  tende ad andare oltre di sé per essere sé, già e non  ancora, finito e desiderio di infinità, tempo ma con la  scintilla di eterno: è la creatura di confine fra cielo e  terra, umano ma chiamato all’intimità  con Dio.  Individuo ma non individualista, unico ma non chiuso,  soggetto aperto al mondo e agli altri in virtù dell’istinto  di comunione nella verità e nell’amore. “ Il mondo  moderno – scriveva J.  Maritain – confonde  semplicemente due cose che la sapienza antica aveva  distinte: confonde l’individualità e la personalità” ( J.  Maritain, Tre riformatori, Brescia 1964, 26).   Purtroppo, segnali inquietanti di questa tragica  confusione non mancano.  7 Su che cosa, allora, si potrà poggiare la sua dignità  inviolabile, e quale il fondamento oggettivo e perenne  dell’ordine morale? Era questa la domanda che il Santo  Padre Benedetto XVI poneva nel viaggio apostolico nel  Regno Unito e anche a in Germania. E sta proprio qui il  punto di incontro e d’intesa di ogni dialogo civile e  politico, sta qui il  giudizio di verità su ogni società,  cultura e religione: “La Chiesa cattolica è convinta di  conoscere, attraverso la sua fede, la verità sull’uomo e  quindi di avere il dovere di intervenire in favore che  sono validi per l’uomo in quanto tale  indipendentemente dalle varie culture. Essa distingue  fra la specificità della sua fede e le verità della ragione, a  cui la fede apre gli occhi e alle quali l’uomo in quanto  uomo può accedere anche a prescindere da questa fede.  (…). La Chiesa, al di là dell’ambito della sua fede,  considera suo dovere difendere, nella totalità della  nostra  società,  le  verità  e  i valori, nei quali è in gioco la  dignità dell’uomo in quanto tale. Quindi, per citare un  punto particolarmente importante, non abbiamo diritto  di giudicare se un individuo  sia ‘già persona’, oppure   ‘ancora persona’, e ancor meno ci spetta manipolare  l’uomo e voler, per così  dire, farlo. Una società è  veramente umana soltanto  quando protegge senza  riserve e rispetta la dignità di ogni persona dal  concepimento fino al momento della sua morte  naturale” (Benedetto XVI,  Discorso al nuovo  Ambasciatore tedesco, Roma 7,11,2011). Non si tratta  quindi di voler imporre la fede e i valori che ne  scaturiscono direttamente, ma solo di difendere i valori  costitutivi dell’umano e che per tutti sono intelligibili  come verità dell’esistenza. Poiché appartengono al DNA  della persona non possono essere conculcati, né  parcellizzati o negoziati attraverso mediazioni che, pur  con buona intenzione, li negano. E’ questo il ceppo vivo  e solido che costituisce l’etica della vita, ed è su questo  ceppo che germogliano tutti gli altri necessari valori che  vengono riassunto con etica sociale. Tra questi, la vita  umana, dal suo concepimento  alla sua fine naturale, è  certamente il primo. La coscienza universale ha  acquisito - e sancito almeno nelle carte - una elevata  sensibilità verso i più poveri e deboli della famiglia  umana. Ma ci dobbiamo chiedere: chi è più debole e  fragile, più povero, di coloro che neppure hanno voce  per affermare il proprio diritto, e che spesso nemmeno  possono opporre il proprio volto? …Vittime invisibili ma  reali! E chi più indifeso di chi non ha voce perché non  l’ha  ancora  o,  forse,  non  l’ha  più?  La  presa  in  carica  dei  più poveri e indifesi esprime il grado più vero di civiltà  di un corpo sociale e del suo ordinamento. E modella,  educa, l forma di pensare e di agire – il costume- di un  popolo e di una Nazione, il  suo modo di rapportarsi al  suo interno, di sostenere le diverse situazioni della vita  adulta sia con codici strutturali adeguati, sia nel segno  dell’attenzione e della gratuità personale.  A volte si evidenzia che un conto è la presa in carica, il  prendersi cura della vita fragile di chi questo vuole e  comunque ne ha diritto, e un altro sarebbe la volontà  diversa di chi  determina  un diverso comportamento.  Torniamo ad un punto cruciale: se la libertà individuale   abbia o non abbia qualcosa di più alto a cui riferirsi e a  cui obbedire. Abbiamo visto  che l’autodeterminazione  non crea il bene e il male, ma ciò che è scelto. Ora la  libertà è tenuta a fare i conti con la natura umana, con il  suo bene oggettivo poiché per questo Dio ce l’ha donata,  perché costruissimo noi stessi e non per andare contro  noi stessi. Ma anche fuori da un’ottica religiosa, penso si  possa giungere alla medesima conclusione. A questo  punto credo che le questioni siano due. Innanzitutto,  come anche recita la nostra Costituzione, il bene della  salute e quindi della vita, ma dovremmo dire ogni uomo,  è un bene non solo per sé ma anche per gli altri; e questi  altri non sono solamente i familiari e gli amici – che  purtroppo a volte possono non esserci  – ma sono la  società nel suo insieme. Qui  sta una nota dolente a cui  bisogna sempre più reagire: se l’uomo sta scivolando  dalla realtà di persona a quella di individuo assoluto e  geloso della propria assoluta indipendenza e autonomia,  allora la società si concepirà come una massa di monadi  dove ciascuno si arrangia a portare la vita, nutrendo dei  diritti verso il corpo sociale  come la casa, il lavoro, la  sicurezza… ma lasciando gli altri fuori per tutto il resto.  Il punto non è far entrare la società nel privato, ma si  tratta di ricuperare la natura relazionale della persona  sicché la società possa e debba concepirsi e strutturarsi  non solo come erogatrice di servizi, ma come comunione  di destino. Cambia totalmente la prospettiva. Nessuno  deve sentirsi solo e abbandonato nella società- comunione, né nei momenti di gioia né negli  appuntamenti del dolore, della malattia e della morte. E  se dietro al rispetto di ogni volontà ci fosse il desiderio  di non prendersi in carica,  poiché il prendersi cura  richiede  intelligenza e cuore, tempo e sacrificio, risorse  umane e economiche? Una cultura siffatta sarebbe più  rispettosa o più egoista, umana o violenta? E poi, mi  sembra esiste un secondo nodo: dobbiamo recuperare il  senso del dolore che è sistematicamente emarginato,  nascosto nella sua naturalità, oppure è esorcizzato  somministrandone dosi massicce e continuative nel  tentativo di anestetizzare la sensibilità della gente e  renderla quindi impermeabile. Due modalità diverse ma  lo scopo è identico: far morire la morte. La cultura  contemporanea deve riconciliarsi con il dolore e la  morte se vuole riconciliarsi con la vita, poiché i primi  fanno parte della seconda. E quindi dobbiamo  recuperare la capacità di portarlo insieme. La persona  sofferente ha paura di essere sola, abbandonata: tutti  abbiamo sperimentato quanto una persona malata  cerchi il contatto fisico della mano dell’altro, e questo  piccolo, umanissimo gesto ha il potere di tranquillizzare  e rasserenare. E’ la presenza, la compagnia d’amore che  dobbiamo riscoprire non solo come singoli e famiglie,  ma come società. Ma per questo dobbiamo rimettere al  centro la relazione, sull’esempio di Dio che in Cristo ci  ha incontrato nel nostro dolore, nelle molte fragilità  della vita e nelle stesse gioie, facendo sentire che  nessuno è solo, e che assolutamente nessuno sarà da Lui  abbandonato. Grazie.
* Arcivescovo di Genova,  Presidente della Conferenza Episcopale Italiana   

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