giovedì 31 maggio 2012
Così gli oversize cambiano il mondo di Elena Dusi, La Repubblica, 31
Maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it/
La bilancia dell´umanità punta
sempre più in alto. Il sovrappeso colpisce in tutto un miliardo e mezzo tra
adulti e bambini Colpa di cattiva alimentazione e vita sedentaria. Dagli
autobus agli stadi, dai letti di ospedale ai sedili degli aerei: l´America si
adatta alle nuove maxi taglie E l´Italia ne segue l´esempio Gli standard dei
mezzi pubblici risalgono agli Anni ´60, ma verranno adeguatiLe aziende private
sono state più veloci delle agenzie federali a ristrutturarsi
Se gli uomini non riescono a
dimagrire, sarà il mondo ad allargarsi per loro. Sedili di autobus, aerei e
stadi. Gabinetti, sedie a rotelle e letti d´ospedale. Perfino le porte degli
scuolabus, perché l´epidemia di obesità coinvolge anche i bambini. Tutto
diventa più largo e robusto per inseguire un rigonfiamento del ventre e dei
glutei che niente e nessuno sembrano in grado di frenare. E se gli Stati Uniti
sono il paese che si sta riorganizzando più in fretta, anche l´Italia ha
cominciato ad adattare i suoi mezzi di trasporto e ospedali alla presenza di 6
milioni di obesi, 700mila dei quali gravi. A New York, sui treni per i
pendolari, le nuove carrozze saranno dotate di sedili capaci di reggere 180
chili. I vagoni appena ordinati dall´agenzia di trasporti New Jersey Transit
hanno comodi posti da 50 centimetri (5,6 in più dei precedenti). I due nuovi
stadi delle squadre locali di baseball - gli Yankee e i New York Mets - hanno
seggiolini più ampi di 2 centimetri e mezzo. E i tradizionali scuolabus della
Blue Bird hanno dovuto allargare le porte di accesso perché i bimbi più rotondi
(il tasso di obesità sotto ai 17 anni negli Usa è del 17 per cento) faticavano
a passarci e venivano presi in giro dai compagni. Due notizie, di recente,
hanno convinto l´America che era davvero arrivato il momento di fare qualcosa.
La prima è l´incidente subito l´anno scorso da un piccolo aereo privato il cui
pilota era talmente voluminoso da impedire all´airbag di gonfiarsi. Le autorità
federali per l´aviazione civile hanno iniziato a interrogarsi se anche i grandi
velivoli di linea, pensati negli anni ´60 per un passeggero tipo di 77 chili,
fossero ancora adatti a un americano medio di oggi, che di chili ne raggiunge
88. La seconda è stato l´ultimo rapporto dei Centers for Disease Control, che
agli inizi di maggio ha gettato nello sconforto tutti coloro che si occupano di
lotta alla cattiva alimentazione. Nonostante le strategie che gli Usa stanno
adottando per ridurre un´epidemia le cui conseguenze sulla salute ormai costano
più del fumo (150 miliardi all´anno), il girovita non cessa di allargarsi, e
continuerà a espandersi almeno per i prossimi quindici anni. Il tasso di
persone obese negli States è triplicato dal 1960 a oggi, arrivando a toccare il
34 per cento. Le persone con obesità grave (un indice di massa corporea
superiore a 40) sono cresciute di 6 volte e oggi raggiungono il 6 per cento. E
nel 2030 la diffusione del problema raggiungerà il 42 per cento. Tutto questo
nonostante le campagne di informazione, le iniziative salutiste in scuole e
ristoranti, le tabelle con i valori nutritivi stampati su tutti i prodotti, la
diffusione della chirurgia per ridurre le dimensioni dello stomaco e perfino
l´arrivo, previsto prossimamente, delle prime pillole per combattere il grasso
attraverso la chimica.
Non c´è nulla da fare. La
bilancia dell´umanità continua a puntare sempre più in alto. Secondo i dati
dell´Organizzazione mondiale della Sanità ormai si muore più di troppo mangiare
che non di fame. Gli individui in sovrappeso sono 1 miliardo e mezzo in tutto
il globo: il doppio rispetto al 1980. Le donne sono il 50% in più degli uomini.
I bambini con meno di 5 anni ma già in sovrappeso sono 40 milioni. Alla fine
dell´anno scorso un articolo sul New England Journal of Medicine spiegava che
quando si rispetta una dieta e si perde peso, nel nostro organismo si innesca
un complicato gioco di ormoni che porta l´appetito ad aumentare di nuovo per
recuperare il nutrimento perduto. Milioni di anni di evoluzione hanno portato
la specie umana ad adattarsi alla mancanza di cibo, non alla sua
sovrabbondanza. Tutti i nostri meccanismi cellulari si sono affinati per
conservare energia anziché dissiparla.
Il risultato, secondo i calcoli
di Sheldon Jacobson, ingegnere dell´università dell´Illinois, è che ogni anno
le auto private americane consumano 4,3 miliardi di litri di carburante in più
a causa dell´aumento di peso di conducenti e passeggeri fra 1960 e oggi. La
massa in eccesso si fa sentire anche su freni e volante. Il 14 marzo del 2011
la Federal Transit Authority, un´agenzia del Dipartimento dei Trasporti
americano, ha proposto di riadattare gli standard di sicurezza degli autobus
pubblici da 68 a 79 chili per passeggero medio e di ricalcolare il numero
massimo di persone a bordo alla luce della maggiore superficie occupata (0,16 metri
quadri invece di 0,13). Ancora una volta, gli standard risalivano agli anni
´60. I nuovi automezzi dovranno essere costruiti tenendo conto dei nuovi
livelli di stress per freni e sterzo.
Una procedura simile è in corso
anche presso la Federal Aviation Authority, l´agenzia che sovrintende
all´aviazione civile. Sedili e cinture di sicurezza sono infatti costruiti da
60 anni per sopportare il peso di un passeggero tipo da 77 chili. Ma oggi la
media degli utenti dei voli americani è di 74 chili per gli uomini e 88 per le
donne. E quando le compagnie aeree hanno scelto di far pagare il doppio
biglietto ai clienti oversize si sono puntualmente ritrovate in un labirinto di
ricorsi legali. «La forza è il prodotto di massa per accelerazione - ha
spiegato al New York Times Dietrich Jehle, che insegna Medicina dell´emergenza
all´università di Buffalo. «Se un passeggero è più pesante e non indossa la
cintura di sicurezza, la forza dell´impatto sarà necessariamente maggiore».
In Italia sui sedili dei mezzi
pubblici si è intervenuti con posti a sedere extralarge. «A richiesta, sui
nostri autobus possiamo sostituire alcuni sedili tradizionali con quelli Jumbo»
spiega Emanuela De Vita di Irisbus-Iveco, che rifornisce di mezzi pubblici
molti comuni italiani. Nelle città più importanti questi posti larghi 63
centimetri (circa una volta e mezzo rispetto al normale) sono già diffusi da
diversi anni (Roma dal 2004, poi anche Bologna, Torino, Milano, Padova,
Mantova). Nella capitale sono montati oggi su 700 bus urbani dell´Atac. Ma più
svelte ad adattarsi delle aziende pubbliche erano state le ditte private. Pochi
anni fa trovare una bilancia che superasse i 130 chili era quasi impossibile.
Oggi la Siltec Ws1000 raggiunge i 450 chili e può essere acquistata via
Internet. La ditta americana "Big John" è specializzata invece in
gabinetti extra-large, con piedistalli di rinforzo, cerniere in acciaio e
"ammortizzatori" di gomma tra il sedile e la ceramica. Il modello
estremo raggiunge i 50 centimetri di larghezza e può reggere il peso record di
544 chili.
Riadattare una nazione
all´epidemia di obesità può sembrare una dichiarazione di resa. «In realtà di
iniziative simili ne servirebbero di più, soprattutto in Italia» sostiene
Marcello Lucchese, presidente dell´Associazione italiana obesità e direttore
della Chirurgia bariatrica al policlinico di Careggi a Firenze. «Le persone
obese hanno bisogno di vivere in strutture riadattate ai loro bisogni. Perfino
fare una doccia è difficile, con le dimensioni delle cabine normali». La
struttura di Chirurgia bariatrica di Firenze è una delle poche in Italia a
essersi attrezzata per l´assistenza di pazienti di dimensioni fuori dal comune.
«Un letto normale d´ospedale - spiega Lucchese - sostiene 130 chili. Nel nostro
reparto abbiamo letti rinforzati da 170 chili, ma spesso non bastano e siamo
costretti ad affittarne alcuni da 227. I tavoli operatori invece arrivano a 350
chili». Le normali poltrone con i braccioli - inutilizzabili - sono state
sostituite l´anno scorso a Careggi con divani più comodi. Un sollevatore (un
arco di metallo cui viene agganciata un´imbracatura) serve a far alzare i
pazienti quando le braccia degli infermieri non bastano.
Delle vere e proprie gru in
miniatura accanto ai letti di degenza sono state installate anche in quella che
forse è la struttura modello nel mondo per le persone oversize: l´ospedale
dell´università dell´Alabama a Birmingham, il quarto più grande degli Stati
Uniti. Qui l´intero edificio è stato revisionato per fare posto alle persone di
taglia extra. Porte allargate, gabinetti fissati sul pavimento capaci di
sopportare 120 chili, sedie a rotelle più larghe e rinforzate. Il tutto,
concentrato fra quattro mura, offre uno scorcio del mondo extralarge che verrà.
La critica dell´extralarge condanna l´uomo moderno di Marino Niola, La
Repubblica, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it
Oggi il peso eccessivo è una
colpa. Ma nella storia era il segno tangibile di potere e prestigio Sedili più
larghi, toilette supercomode, letti oversize. Tutto si fa spazio. Perché gli
obesi sono in aumento. E reclamano comfort
Nella società della leggerezza il
peso è un handicap. E l´obesità una colpa. È un vero stigma quello che oggi
marchia gli over-size, additandoli alla pubblica condanna. Le accuse? Voracità
bulimica, mancanza di autocontrollo, improduttività lavorativa, analfabetismo
alimentare, sublimazione libidica. I drop out della taglia estrema devono fare
i conti con una diffusa presunzione di colpevolezza che ne fa i nuovi paria del
villaggio globale. Umiliati e obesi. E pure puniti. Tant´è vero che guadagnano
in media il 18 per cento in meno dei normopeso. Lo rivela, cifre alla mano, una
recentissima ricerca svedese. Non c´è bisogno di scomodare le veneri di Tiziano
e Rubens per rendersi conto di come maniglie dell´amore e cuscinetti adiposi
servissero ad aumentare l´appeal femminile. Mentre gote rubizze, ventri
prominenti e maestosi doppi menti erano il contrassegno del potere e del
prestigio maschili. Peso sociale tradotto in massa corporea. Fustacci e
maggiorate, uomini di panza e matrone come la Saraghina di Fellini erano i
simboli estetici ed erotici di un´umanità che sognava l´abbondanza. Del resto è
ancora così in tutte quelle parti del mondo dove l´emergenza alimentare non è
ancora finita. È il caso dei lavoratori indiani che emigrano dalle regioni più
povere del subcontinente e fanno fortuna a Dubai. Nuovi ricchi che hanno
l´obesità come mission. Perché i clienti misurano il loro successo e la loro
solvibilità sulla stazza più che sui report delle agenzie di rating. Per la
stessa ragione i capi polinesiani e i re africani dovevano avere fisici
debordanti che facessero da contrappeso simbolico ai loro privilegi. Non a caso
venivano chiamati big men. E gli abitanti delle isole Salomone dicevano che un
vero leader deve colare lardo.
Ma perfino dove grasso è bello
esiste una soglia che non si deve superare. Si può dire infatti che la condanna
dell´eccessiva pinguedine sia antica quanto l´uomo. A fare la differenza però
sono i pesi e le misure che in tempi e luoghi diversi fissano la soglia della
normalità. È vero insomma che tutte le società disapprovano la dismisura. Ma è
altrettanto vero che la dismisura non ha una taglia fissa. Anche dove la
grassezza è segno di importanza e di forza, superato quel limite cambia di
segno. E diventa sintomo di intemperanza, di gola, di avidità. Un vizio
capitale che porta dritto dritto all´inferno. Come nell´Europa medievale. È
proprio allora che nasce lo stereotipo dell´ebreo obeso, figlio primogenito del
ricco Epulone evangelico. Un pregiudizio che viene rispolverato
dall´antisemitismo otto-novecentesco, soprattutto dal nazismo, che lo trasforma
nella metafora politica del giudeo parassita, che ingrassa a spese della
società. Le tragiche conseguenze di questa ideologia devono mettere in guardia
da facili semplificazioni o da giudizi sommari. Perché spesso dal salutismo al
razzismo il passo è breve. Ora come allora.
Anche se anticamente ad essere
condannata non è tanto la stazza in se stessa quanto gli appetiti smodati di
cui essa è prova evidente. Ragioni etiche più che estetiche. Ideologiche più
che fisiologiche. Ad essere davvero in questione, infatti, non è il corpo ma
l´anima, non è la salute ma la salvezza. È la nostra modernità a cambiare le
carte in tavola facendo del sovrappeso un problema individuale, la spia di un
disagio interiore. È così che l´obesità smette di essere un peccato per
diventare una malattia. Definita da parametri scientifici sempre più esatti.
Oggi ci sembra scontato sapere quanti chili siamo, ma fino ai primi del
Novecento quasi nessuno montava sulla bilancia. Insomma in poco più di un
secolo l´obesità è passata dal mondo del pressappoco all´universo della
precisione. Fino a inventare un parametro come l´Imc, ovvero l´indice di massa
corporea. Che prende le misure alla nostra vita, oltre che al girovita. E ci
restituisce l´immagine inquietante di un pianeta sempre più smisurato. Stando
alle previsioni dell´Ocse in Paesi come Usa e Regno Unito fra dieci anni quasi
il 70 per cento dei cittadini sarà in sovrappeso e l´obesità raggiungerà
livelli da capogiro. E così le carni tremule degli over size diventano
l´ologramma di un mondo schizofrenicamente diviso tra chi non ha abbastanza e
chi ha troppo. Tra quelli che hanno un bisogno disperato di mangiare e quelli
che hanno un bisogno disperato di non mangiare.
E se nelle pagelle scolastiche
statunitensi il peso corporeo determina il voto di condotta, il costo delle
polizze assicurative oscilla con l´ago della bilancia. Insomma se il corpo è
l´indicatore del rapporto tra individuo e società, peso e misura ne sono
l´algoritmo. Sempre variabile nel tempo. Fino agli Anni Sessanta, infatti, con
la fame della guerra ancora impressa nella mente, il grasso era una manna dal
cielo. Essere pasciuti, ancor meglio se panciuti, era il segno tangibile
dell´opulenza. E dunque del benessere e della bellezza.
Quando le giovani coppie sognano il terzo figlio di Federica Canadini,
Corriere della Sera, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it
Il 75% dei ragazzi pensa a
famiglie numerose
Il sogno: tre o più figli. La
mediazione: averne almeno due. La realtà: la media italiana è ferma a 1,42
figli per donna. Le intenzioni però, sarebbero ben altre. Il nido che i ragazzi
immaginano è piuttosto animato, nonostante la crisi e le legittime preoccupazioni,
se ci fossero le condizioni molte giovani coppie vorrebbero mettere al mondo
tre o più creature (e più realisticamente pensano di averne almeno due). È
questo il desiderio di tre giovani su quattro. Lo rivela un'indagine
dell'Istituto Toniolo su crisi, famiglia e giovani, un nuovo osservatorio su
novemila persone fra i diciotto e i 29 anni che monitorerà il gruppo per i
prossimi cinque anni, così sapremo anche come è andata a finire, ricostruiremo
come si sognano tre figli ma se ne fanno meno della metà: 1,42 dice l'Istat, e
a questo risultato siamo arrivate grazie al contributo delle madri straniere
perché da sole saremmo ferme all'1,33, la loro media è di 2,07 così abbiamo
migliorato la performance complessiva.
Ormai assuefatti ai piccoli numeri
della natalità, con un calo demografico ormai cronico — anche se siamo in lieve
ripresa dopo il record negativo del '95 — il risultato dell'indagine dovrebbe
rincuorarci: questa la valutazione di Alessandro Rosina, docente di demografia
e statistica sociale in Cattolica e curatore della ricerca. «Se questi giovani
fossero aiutati a realizzare il loro desiderio il Paese potrebbe superare la
denatalità e fermare l'invecchiamento — spiega Rosina — . Questa progettualità
è un patrimonio di base da valorizzare. In altri Paesi europei, come Austria e
Germania, la situazione è diversa: c'è una bassa fecondità come da noi, ma lì
c'è anche un riadattamento al ribasso delle intenzioni».
La nostra invece sarebbe «una
progettualità al rialzo». Preziosa, da difendere. Qui il desiderio c'è. Anche
se il sogno poi non si avvera. «Paesi del Nord Europa, Francia, Inghilterra e
Stati Uniti fanno più figli di noi. Non soltanto l'Italia è a bassa fecondità
ma la crisi è persistente, i livelli sono bassi da tempo e fanno fatica a
riemergere. Sono sempre più numerose le coppie che si fermano al figlio unico».
La famiglia resiste, ma in
formato ridotto. Eppure ci sarebbero le migliori intenzioni per il 40 per cento
degli intervistati, secondo l'indagine realizzata con Fondazione Cariplo e
Università Cattolica (dati Ipsos raccolti su un «sottocampione» di 2.400
interviste). «Per fortuna almeno a livello di progettualità c'è questo
desiderio — dice Francesca Zajczyk, sociologa all'Università degli studi di
Milano Bicocca —. È un dato molto importante, considerate le difficoltà
oggettive, il lavoro precario, i tanti trentenni con stipendi da mille euro al
mese, i servizi insufficienti. Ma attenzione anche alla frustrazione di questi
giovani che vorrebbero più di un figlio e non possono realizzare questo
desiderio di famiglia, né quello del lavoro». C'è il tema urgente delle
politiche per la famiglia, di tempi flessibili, congedi parentali, asili nido e
scuola dell'infanzia. Nel rapporto del Global Gender Gap sulla partecipazione
femminile al mercato del lavoro siamo scesi al gradino 74 su 134. E il rapporto
Ocse denuncia le difficoltà delle donne italiane sulla conciliazione. «La
mancanza dei servizi viene pagata da loro, troppo spesso ancora costrette a
scegliere fra lavoro e figli», sottolinea Zajczyk. «Questo desiderio di
famiglia, anche numerosa, oggi più che mai andrebbe sostenuto».
Nella ricerca del Toniolo ci
sarebbe un altro dato positivo. È la fiducia che i giovani dicono di avere nei
confronti della vita nonostante le difficoltà e la congiuntura economica
negativa: «L'82% degli intervistati afferma di aver ottenuto dalla famiglia la
capacità di guardare con tranquillità al futuro. La famiglia è supporto emotivo
ed economico per otto ragazzi su dieci. Ma è anche "rifugio dal mondo"
per la maggior parte dei giovani. Il rischio allora è che sia iperprotettiva e
diventi una gabbia dorata», dice Rosina. «Sappiamo che i ragazzi sognano
famiglie numerose, anche se sono costretti a rinunciare, perché iniziano tardi
a fare figli, perché non ci sono le condizioni. Ma non è una scelta. È una
conseguenza, di ostacoli che vanno rimossi».
"Una panacea per la terza età" la nuova frontiera della
marijuana di Federico Rampini, La Repubblica, 31 maggio 2012, http://www.dirittiglobali.it
Platshorn, 69 anni, ha fondato il
Silver Tour: visita ospizi e luoghi di culto per promuovere la legalizzazione
della cannabis Negli Usa 17 Stati consentono l´uso terapeutico dell´erba. E
presto si voterà in Florida dove si conta sull´elettorato anziano Un giudice
della Corte Suprema affetto da cancro: "È una cura. Non criminalizziamola"
Il proselitismo tra gli over 65 è strategico: hanno il minor tasso di
astensionismo
NEW YORK - «Al diavolo coi
pregiudizi, dovevo provarla almeno una volta prima di morire». Selma Yeshon, 83
anni, trascorre gli anni della sua pensione al sole della Florida. Una
vecchiaia serena, non fosse turbata da un cronico mal di schiena. Ma la Yeshon
ha trovato la cura. Si è convertita alla marijuana. Con l´entusiasmo della
neofita, è diventata una sorta di "testimonial" per un nuovo fenomeno
di massa: il successo della marijuana nella terza età. La Yeshon si è fatta
intervistare dal Wall Street Journal per lanciare il suo messaggio urbi et
orbi: fumare un po´ di erba è quel che ci vuole, quando gli acciacchi si fanno
sentire alle giunture, o l´insonnia turba le tue notti.
Lei è stata convertita in
sinagoga, a Lake Worth, da un´organizzazione per la legalizzazione della
marijuana che si chiama Silver Tour. Cioè il Giro d´Argento, un riferimento
ovviamente al colore dei capelli degli anziani. Ad animare il Silver Tour è un
curioso personaggio, Robert Platshorn, 69 anni di cui 30 trascorsi in un
carcere federale: era stato condannato come capo di uno dei più grandi
"cartelli" di spaccio di marijuana negli anni Settanta. Uscito di
prigione nel 2008, Platshorn non aveva certo voglia di passare per un recidivo.
Però a furia di incontrare suoi coetanei afflitti da acciacchi che potrebbero
essere alleviati dalla marijuana, si è deciso a scendere in campo nella
battaglia per la sua legalizzazione.
Sono già 17 gli Stati Usa che
consentono l´uso dell´erba per «scopi terapeutici». Anche se a livello federale
il divieto rimane in vigore, già nel 1999 uno studio commissionato dalla Casa
Bianca all´Institute of Medicine giunse alla conclusione che la canapa indiana
o cannabis «offre dei benefici nell´alleviare il dolore e la nausea». La
Florida è una delle prossime frontiere nella battaglia per la legalizzazione.
La promuove un deputato democratico eletto nel collegio di Lake Worth, Jeff
Clemens, che spesso partecipa ai dibattiti nelle comunità di anziani. Il Silver
Tour è il suo alleato più efficace: setaccia sistematicamente i residence della
terza età, convince i luoghi di culto a ospitare i dibattiti.
Il rabbino capo della sinagoga di
Lake Worth, Barry Silver, non ha avuto esitazione a spalancargli le sue porte.
Ci ha perfino scherzato sopra, con un gioco di parole intraducibile ha
ricordato che le festività più importanti della religione ebraica (l´anno nuovo
e lo Yom Kippur) si chiamano High Holy Days o feste "alte": in
inglese high è sinonimo di "fatto", in preda all´euforìa da
marijuana. Il proselitismo tra gli anziani ha un´importanza strategica per i
fautori della liberalizzazione. «Per una ragione semplice - dice Platshorn - e
cioè che gli anziani vanno a votare. Sono la componente dell´elettorato con il
minor tasso di astensionismo alle urne». Finora, proprio loro sono stati
decisivi nello sconfiggere alcuni referendum per la legalizzazione, come quello
della California nel 2010: in quel caso gli over-65 hanno dato un "voto
d´ordine" e più dei due terzi si sono espressi contro.
Ma le opinioni su questo terreno
si evolvono rapidamente. Il 17 maggio il New York Times ha pubblicato la
sconvolgente testimonianza di un giudice della Corte suprema statale, Gustin
Reichbach: affetto da cancro al pancreas, sottoposto a chemioterapia intensiva,
ha trovato nella marijuana un sollievo e un palliativo contro il dolore e la
nausea. «Dopo una vita dedicata ad applicare la legge - ha scritto il giudice -
mi trovo a dover usare la marijuana» (che nello Stato di New York non è
legalizzata). L´appello del giudice è a «non criminalizzare un medicinale
efficace» e si conclude affermando che «le cure anti-dolore sono un diritto
umano, non una questione di ordine pubblico».
Per far evolvere l´elettorato
anziano, una spinta potente viene dalla demografia stessa: stanno arrivando
all´età della pensione le avanguardie delle generazioni del baby-boom, che
sperimentarono l´erba negli anni Sessanta e Settanta. Un ostacolo, spiega
Platshorn, viene dalla cultura anti-tabagismo: messe al bando le sigarette, c´è
una naturale resistenza verso un´altra erba che si fuma. «Ma questo non deve
essere un problema - dice il leader del Silver Tour - perché la cannabis si può
consumare in tante forme alternative: vaporizzatori, biscotti, lecca-lecca,
pillole, bevande, non c´è limite alla varietà di opzioni».
FAMIGLIA/ Perché l'Italia non impara da Francia e Germania? Di Luca
Pesenti, giovedì 31 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
La recente pubblicazione del
Rapporto annuale Istat ha certificato - come abbiamo già scritto su Il queste
pagine - la perdurante condizione di indebolimento sociale ed economico delle
famiglie italiane. Cresce la povertà assoluta, si inverte il trend relativamente
alle tipologie famigliari (stanno meglio di prima gli anziani, stanno sempre
peggio le famiglie numerose e quelle con un solo genitore), si blocca
l’ascensore sociale, si complicano le condizioni di sviluppo per i più giovani.
È possibile ovviamente aggiungere
altri tasselli al quadro già di per sé non entusiasmante. Presentando il volume
“Familiarmente. Le qualità dei legami familiari” (ed. Vita e Pensiero), nato da
un pool di studiosi dell’Università Cattolica sotto l’egida del Centro di Ateneo
Studi e Ricerche sulla famiglia, l’economista Luigi Campiglio ha rincarato la
dose, mostrando una serie di dati freschi di calcolo. Il reddito lordo
disponibile delle famiglie italiane è precipitato nell’arco di un decennio,
perdendo per strada circa 6.000 euro. Contestualmente è crollata anche la
capacità di risparmiare: se nel 1995 le famiglie riuscivano a mettere da parte
il 20% di quello che guadagnavano, oggi non riescono ad andare oltre il 9%.
Nello stesso periodo, le famiglie francesi e tedesche hanno continuato a
risparmiare in modo costante tra il 15% e il 17% del loro reddito. Ed è
ovviamente cresciuta la quota di famiglie che devono intaccare i loro risparmi,
se è vero che dal 1998 a oggi è cresciuta dal 14% al 16% la quota di famiglie
che non hanno un reddito sufficiente a pagarsi lo stretto indispensabile.
Il confronto con i cugini
francesi e tedeschi ci pare particolarmente significativo e per certi versi
impietoso, documentando in modo inesorabile le ricadute ultime sulla vita
comune di tendenze macroeconomiche piuttosto chiare. Se fino al 2007 l’Italia
ha tenuto il passo, la crisi ha determinato un drammatico peggioramento delle
condizioni generali, certificate dall’impressionante divario del Pil: se si
osserva l’andamento dal 2001 al 2010, il Pil italiano è cresciuto di appena lo
0,6%, quello tedesco dell’8,6% e quello francese addirittura dell’11,1%.
In virtù di uno sviluppo
economico che non si è mai interrotto, Francia e Germania hanno potuto
proseguire sulla strada di una tradizione di politiche famigliari molto
generose, ed è evidentemente anche questo che spiega la maggior stabilità
economica delle famiglie di quei paesi. Oltre a poter far conto su un sistema
fiscale basato sullo strumento del quoziente famigliare, il modello francese può
vantare uno schema di intervento per famiglie a basso reddito (il Revenu de
solidarité active), finalizzato a favorire il reinserimento lavorativo e
sociale. In modo analogo, la Germania può vantare un sistema fiscale fortemente
orientato alla famiglia (comprensivo di una franchigia molto ampia calcolata in
ragione della numerosità del nucleo) cui si affiancano una serie di misure di
sostegno al reddito per le persone in difficoltà economica o lavorativa.
Il risultato finale di questi
interventi è sintetizzato nel dato della riduzione del rischio di povertà dopo
l’intervento della mano pubblica: se in Francia e Germania questo rischio si
dimezza grazie alla redistribuzione statale (abbassandosi rispettivamente di 12
e 10 punti percentuali), in Italia diminuisce soltanto di 5 punti, certificando
in questo modo la peggiore efficienza redistributiva tra tutti i paesi europei.
Cosa serve dunque all’Italia per
cambiare passo e per aiutare le famiglie a tirarsi fuori dai guai? I dati
appena descritti ci dicono che non esiste una ricetta univoca e soprattutto
facile a realizzarsi. Non sarà infatti sufficiente neppure un significativo
aumento del Pil (cosa che non appare imminente) per poter garantire una svolta
nelle politiche di welfare famigliare del nostro Paese. Occorrerebbero infatti
contestualmente tre elementi di novità: un abbassamento significativo della
pressione fiscale; una almeno parziale ricalibratura della tassazione
spostandola dagli individui alle famiglie; un riaggiustamento della spesa
pubblica, che liberi risorse da altre voci di spesa per convogliarle su schemi
di reddito minimo a misura di famiglia.
Tre obiettivi di grande portata
che purtroppo non sembrano essere nell’agenda della politica del nostro Paese.
© Riproduzione riservata.
Cosa siamo senza famiglia? Luca Doninelli, giovedì 31 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Anche se non ci pensiamo quasi
mai, la famiglia è la più grande tra le opere dell’umanità, senza paragone con
nient’altro. La famiglia è un bene totalmente umano. Tra gli animali i figli
dopo un po’ smettono di essere figli, il padre non è un vero padre, non sa
realizzare la sua paternità, e la madre ha come unico scopo lo svezzamento dei
piccoli. Poi si spalancano le porte del vasto mondo, e tutti diventano uguali.
Un padre e una madre umani, viceversa, lo sono per sempre, nel senso che la
paternità e la maternità sono ferite che sanguinano fino alla morte, dentro la
morte e probabilmente anche dopo la morte. Perfino gli dèi antichi erano in
difficoltà quando dovevano assumere un tale onere, anche loro preferivano
scappare via, come gnu, come coccodrilli, come gabbiani.
Ma Jahvè no, Lui è come una donna
che solleva il suo bambino alla guancia, e il Suo intimo freme di tenerezza e
di compassione. E poi decide di nascere, povero e fragile, dal seno di una
donna che lo amerà come ogni madre ama il suo bambino, e che piangerà la Sua
morte con lo stesso strazio di tutte le madri cui sia stato restituito il corpo
del figlio giovane ucciso da uno dei tanti accidenti della storia: guerra,
malattia, quando non un’infida casualità. E il Cristianesimo c’insegna che la tenerezza
e lo struggimento di un Padre, la premura e il pianto di una Madre sono
l’origine della salvezza del mondo. Nient’altro che questo. Dio ci ha salvati
nella Sua umanità, e in questo stesso modo continua a salvarci.
Ma Dio nacque povero. Povertà e famiglia
si uniscono in un legame indissolubile. Nella famiglia, infatti, l’uomo accetta
in modo molto concreto la propria dipendenza: il self-made man non è adatto a
fare famiglia. I legami ci piegano le ginocchia, ci domandano umiltà: i difetti
del marito e della moglie, il fatto che i figli non sono quasi mai come noi
vogliamo, e poi l’educazione da seguire passo passo, i dolori imprevisti, le
preoccupazioni che limitano spesso il nostro slancio orgoglioso…
Pensate a un intellettuale,
poniamo uno scrittore, o un filosofo oppresso dal pensiero di un figlio drogato
o ubriacone o malato: come diventa più difficile essere sempre brillante, in
forma, avere la parola giusta al momento giusto. Questo intendo con la parola
“povertà”: qualcosa che ti limita, ti rallenta, a volte ti confonde e ti rende
meno piacevole, forse meno bravo. Ma più vero. Enormemente. Moglie (o marito) e
figli sono la prima regola monastica della famiglia, la prima forma di
obbedienza. La famiglia non è l’esito di un mettere-insieme, una composizione
di qualcosa che sta prima: è una vita nuova, un essere nuovo, così come l’acqua
non è solo la somma di ossigeno più idrogeno.
S. Francesco d’Assisi comprese in
profondità questa cosa quando legò indissolubilmente la dedizione totale a Dio
e la mendicanza. Se ti vuoi consacrare a Lui, rinunciando a una famiglia tua,
devi essere al tempo stesso l’ultimo degli ultimi, vivendo della carità dei
ricchi e perfino dei poveri. Noi percepiamo queste cose, oggi, con un filo di
moralismo che Francesco, viceversa, non conosceva. Lui sapeva bene che senza i
legami che (provvidenzialmente) lo piegano a terra, l’uomo tende a insuperbire,
e che il sacrificio della carne può accendere ancor più la brama di ricchezza e
di potere.
Francesco sapeva di quanta
miseria ha bisogno l’uomo per scoprire quello che è realmente, il proprio
bisogno, il proprio stato di strutturale necessità. E trovò nella mendicanza lo
specchio più esaustivo della condizione familiare. A questo, infatti, serve la
famiglia: a farci scoprire (indipendentemente dal conto in banca) quello che
siamo alla radice, cioè mendicanti.
Pensate, cari lettori, cosa
succederebbe se la famiglia fosse cancellata: quanta superbia, quanta
presunzione, quanto artificio, quanta astrazione e, infine, quanto sterminio dilagherebbero
per il mondo.
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Ci vuole una tribù per potersi gustare una cosa indifendibile come la
famiglia, maggio 31, 2012, Davide
Rondoni, http://www.tempi.it
In occasione del Family 2012,
dopo l’intervista al cardinale di Milano Angelo Scola, pubblichiamo
l’editoriale del numero di Tempi in edicola da oggi a firma di Davide Rondoni.
L’uomo è fatto per la tribù, più
che per la famiglia. Anche la donna, naturalmente. Quando lo affermo mi
guardano strano. Ma in fondo sanno tutti che è così. Dicono: ah, la famiglia.
Dicono così, e hanno ragione. Dedicano convegni, ritrovi, leggi. Ma devono
stare attenti, i predicatori del “viva la famiglia”. Perché l’idea che oggi è
in voga di famiglia è indifendibile. E fatalmente destinata a tramontare. La
famiglia è importante. Lo si vede anche dai guai che provoca, o dalle fatiche
che genera. Se non fosse importante, chissenefrega. Invece, si torna sempre lì,
nel bene, nel male. Lo sapeva pure Marx che indicava nella famiglia l’icona
della Sacra Famiglia da abbattere per costruire la sua società degli eguali –
con quali risultati, s’è visto.
Siamo fatti per la tribù. Nessuna
famiglia può davvero essere viva e luogo di vita se non sta dentro una tribù.
Chiamate la tribù come vi pare – clan parentale, comunità, fraternità eccetera.
Invece l’hanno ridotta a una monade, a una specie di organismo a se stante, che
dovrebbe reggere gli urti della vita e del tempo restando sospesa al millesimo
piano di un condominio di estranei, o sperduta in un reticolo di strade, in una
composizione che ormai è cristallizzata: lui, lei, un figlio (se va bene), un
cane, le fette biscottate del Mulino Bianco. Un organismo mostruoso. Una specie
di liofilizzato “Buddenbrock” (la famiglia borghese del romanzo di Thomas
Mann). È naturale che prima o poi lui morda lei o il cane morda lui o il figlio
o la figlia si sfoghino sulle fette biscottate. In crisi c’è questo modello
mostruoso di famiglia. La famiglia borghese, autosufficiente, monade,
autofondata, e isolata. Preda di ogni moda e di ogni “riflesso pavloviano”
indotto dai media e dal potere dominante. Quale ragazzo o ragazza sana di mente
e di corpo potrebbe avere come ideale di andare a infilarsi in questo cubicolo
asfittico? E infatti lo evitano come la peste. Magari a parole lo amano, se ne
hanno avuto qualche resto di esperienza positiva. Ma via, alla larga. Vogliono
aria, preferiscono la famiglia “allargata” a cui la tv di Stato continua a
dedicare fiction carucce e astute. Allargata “male” con seconde mogli,
figliastri eccetera ma pur sempre ombra e simulacro di quella che era la
famiglia tribù, un organismo vasto dove stavano non solo zii rincoglioniti e
nonni a traino, ma anche parenti vari, consanguinei di vario grado. E dove
l’amicizia di una tribù collaborava a dare sostegno, ad alleviare, stemperare,
consolare, accudire.
Non che manchino esperienze di
questo genere. Credo che le famiglie che reggono lo debbono tutte a una sorta
di appartenenza a una tribù. Se si richiama il valore della famiglia ma non si
richiama il necessario legame con una tribù, si fa del danno. Ovviamente non
sto mettendo in discussione il fondamento teologico della famiglia. Non sono né
teologo né sposo e padre perfetto. Anzi. Ma ho gli occhi e il cuore. Vedo che
le molte asfissie che schiantano molte famiglie dipendono dalla loro solitudine
– e intendo la solitudine dei singoli, che non appartengono più a nulla se non
a quel microorganismo il quale se non vive dell’aria e delle tempeste del mare,
non può che essiccarsi. Ci sono naturalmente delle eccezioni – il mondo è bello
per le sue continue eccezioni, no? Capita di vedere famiglie che paiono così
concentrate su se stesse da escludere quasi il mondo. Ma il più delle volte si
tratta di persone che hanno per così dire a tal punto interiorizzato una
dimensione di tribù che grazie ad essa “sopportano” e anzi si gustano la vita
familiare. Capita ad esempio nel caso di imprenditori molto dediti alla tribù
delle loro aziende, o a professionisti molto esposti nel servire con il loro
lavoro una comunità reale. Viva la famiglia, dunque. Se c’è la tribù.
mercoledì 30 maggio 2012
Gran Bretagna: più contraccezione significa più aborti, 30 maggio, 2012,
http://www.uccronline.it
Nel 2009 il prestigioso “British
Medical Journal” ha pubblicato uno studio in cui i ricercatori hanno verificato
che le ragazze inglesi a cui era stato fornito un programma contenente
informazioni sulla contraccezione mostravano un tasso di gravidanze tre volte e
mezzo superiore rispetto alle coetanee che non avevano frequentato quelle
lezioni.
In questi giorni sono stati
pubblicati dati del Servizio sanitario nazionale relativi al 2010, dai quali si
apprende che diminuiscono le interruzioni di gravidanza fra le minorenni ma
aumentano in generale – il 5% in più rispetto all’anno precedente – le
adolescenti che abortiscono più volte. Assuntina Morresi, docente di Chimica
fisica all’Università di Perugia e membro del Comitato nazionale di bioetica ha
commentato così questi dati: «mostrano che la diffusione massiccia dei
contraccettivi, anche con l’educazione sessuale nelle prime classi scolastiche,
è una politica fallita: chi ripete l’aborto, specie se giovane, vi ricorre come
a un contraccettivo, anche quando altri mezzi sono facilmente accessibili». In
Italia, ad esempio, la diffusione della pillola anticoncezionale è
fortunatamente fra le più basse in Europa (intorno al 16%), e gli aborti -come ha confermato l’ultima Relazione del
ministero della Salute- sono in costante diminuzione, e lo erano anche prima
dell’avvento della “contraccezione di emergenza”.
Cosa produce questa differenza?
«È la solidità della famiglia a fare la differenza, è questa nostra
straordinaria risorsa, ancora vitale anche se indebolita, la più efficace
prevenzione dell’aborto: se i legami familiari sono stabili, se c’è il calore
degli affetti solidi dei genitori, di quelli su cui sai di poter sempre
contare, un figlio inaspettato non diventa un ostacolo da eliminare», ha
spiegato la Morresi. Effettivamente un recente studio pubblicato su The Journal
of Law Economics and Organization ha dimostrato che il coinvolgimento dei
genitori e l’obbligo del consenso di uno o di entrambi i genitori prima di
avere un aborto, porta ad una riduzione dei comportamenti sessuali a rischio
tra gli adolescenti.
Al contrario, mettere a
disposizione dei giovani metodi per non avere figli, in una cultura
pansessualista come la nostra, non fa altro che incoraggiarli ad avere un
maggioro numero di rapporti, deresponsabilizzando l’atto sessuale. Il fenomeno
vale non solo per l’aborto ma anche per la diffusione dell’AIDS, come ha
spiegato in termini tecnici Edward C. Green, direttore dell’AIDS Prevention
Research Project al centro Harvard per gli Studi su Popolazione Sviluppo: «C’è
un’associazione costante, dimostrata dai nostrl migliori studi, inclusi i
“Demographic Health Surveys”, finanziati dagli Stati Uniti, fra una maggior
disponibilità e uso dei condoms e tassi di infezioni HIV più alti, non più
bassi. Questo può essere dovuto in parte a un fenomeno conosciuto come
“compensazione di rischio”, che significa che quando uno usa una ‘tecnologia’ a
riduzione di rischio come i condoms, spesso perde il beneficio (riduzione di
rischio) “compensando” o prendendo chances maggiori di quelle che uno
prenderebbe senza la tecnologia di riduzione del rischio». Vale ovviamente per
il condom quanto per la contraccezione.
Pochi mesi fa, anche la rivista
medica Contraception si è espressa, pubblicando i risultati di uno dal quale si
evince chiaramente che la diffusione della cosiddetta pillola del giorno (che
secondo l’American Journal of Obstetrics and Gynaecology” aumenta il rischio di
morte per coaguli di sangue del 500%) , dopo è stata acclamata dai pro-choice
(o pro-death) come un metodo per ridurre gli aborti, ha semplicemente aumentato
i casi di interruzione di gravidanza. Recentemente il dottor David Paton,
chairman di Economia Industriale presso la Nottingham University Business
School, ha proprio spiegato che: «Si vuole sostenere che garantire agli
adolescenti un accesso riservato ai servizi di pianificazione familiare e
aborto avrebbe avuto un impatto positivo sulla gravidanza adolescenziale e i
tassi di aborto. Tuttavia, invece, si può dimostrare che la conseguente
riduzione della percezione del rischio porta a un incremento dei comportamenti
a rischio, e combinati con il fallimento contraccettivo, non fanno altro che
aumentare il tasso di gravidanze adolescenziali».
30-05-2012 - Shopping-mania, per guarire ora "basta" una
pillola, di Maria Lombardi, http://www.ilmessaggero.it
ROMA - Volete risparmiare?
Prendete una pillola. Dopo quella del desiderio e della felicità adesso c’è
anche la compressa della parsimonia. Non bastassero già spread e crisi a far
passare la voglia di spendere, dalla medicina ecco un aiuto per gli ostinati
consumatori, insensibili ai prezzi come al saldo del conto in banca. Arriva in
un momento di fuga dai negozi, con gli economisti e i commercianti che pregano
venga scoperta la cura opposta, quella che possa riaccendere il sopito (e
frustrato) bisogno di comprare: l’antidepressivo dello shopping.
Ma per adesso c’è solo la terapia
per i compulsivi dell’acquisto, i tanti che costi quel che costi devono
assecondare l’ultimo irrinunciabile capriccio, sapendo bene che presto ce ne
sarà uno nuovo altrettanto prepotente. Si chiama «memantina» questo farmaco che
promette di guarire o quasi gli schiavi di carte di credito e vetrine, quelli
che nell’atto di comprare hanno trovato un modo per contenere l’ansia. Giusto
il tempo che dura l’effetto sedativo delle scontrino, sempre più breve come in
tutte le dipendenze.
Dopo otto settimane di cura, ha
osservato il team di psichiatri della University of Minnesota, gli uomini e le
donne ossessionati dagli acquisti hanno «visto diminuire il tempo da loro
dedicato allo shopping e la quantità del denaro speso». Questo farmaco, usato
per i malati di Alzheimer, si è rivelato efficace per i malati delle compere,
tanto da dimezzare i sintomi. Il disturbo riguarda l’8,5 per cento degli
adulti, spiegano gli specialisti statunitensi, quasi tutte (80 per cento)
donne. La maggior parte dei loro guadagni finisce in vestiti.
Ne sa qualcosa Becky,
protagonista del libro di Sophie Kinsella «I love shopping», giornalista della
rivista economica Far fortuna Risparmiando che per comprare una sciarpa verde
arriva a chiedere soldi per strada. Tempi duri per Rebecca Bloomwood - questo il
suo nome - e per tutte le ossessionate dagli acquisti come lei. Le banche sono
meno tolleranti con i conti in rosso, guarire è forse più facile che ottenere
un prestito. Gli spendaccioni non patologici, per colpa della crisi, si sono da
tempo convertiti alimentando la sempre più numerosa schiera dei
neo-parsimoniosi.
Basta fare un giro in centro a
Roma per rendersi conto di quanto sia diffuso lo stile sobrio in fatto di
compere. Nei negozi d’alta moda solo stranieri, i clienti italiani sono quasi
una rarità anche ai saldi. Folla alle casse delle catene low-cost, dove la
qualità è così cosi ma il prezzo è ok. Al supermercato niente più carrelli
stracolmi, adesso basta un cestino per comprare il necessario: si dimezzano le
quantità e si cercano le marche ignorate dalla pubblicità, sovvertendo ogni
regola del marketing. E anche gli allergici ai bollini adesso collezionano
punti.
Nei primi quattro mesi del 2012,
spiega la Confcommercio di Roma, i consumi delle famiglie sono stati quanto mai
oculati. «A risentirne soprattutto il settore dell’abbigliamento che rispetto
all’ultimo trimestre del 2011 ha segnato un calo del dieci per cento», dice il
presidente Giuseppe Roscioli. Ci si è messa di mezzo anche la pioggia a
scoraggiare l’acquisto di vestiti e scarpe: ormai per recuperare bisognerà
aspettare i saldi che a Roma cominciano il 7 luglio. Nessun ulteriore risparmio
invece sulle tavole dei romani. «Il settore alimentare, nei primi tre mesi
dell’anno, è rimasto sostanzialmente stabile». In attesa di una cura per
rivitalizzare i consumi, più facile rinunciare alla maglietta che al
prosciutto. Sperando che la pillola del risparmio - ulteriore - non diventi per
tutti una necessità.
FAMIGLIA/ L'uomo, la donna e quel Papa innamorato del
"Principio" Massimo Serretti, mercoledì 30 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Quando alle 17.19 del 13 maggio
1981, a quattro giorni dal referendum sulla legge 194 che aveva legalizzato
l’aborto nel nostro Paese, papa Giovanni Paolo II fu raggiunto in piazza san
Pietro da un colpo di pistola, da due anni stava proponendo una catechesi su
“uomo e donna”, sulla teologia del corpo e sulla famiglia e in quel giorno
avrebbe dato l’annuncio pubblico della fondazione di un istituto internazionale
di studi sul matrimonio e sulla famiglia. Solo nel novembre (mercoledì 11) di
quello stesso anno egli potrà riprendere quella catechesi che porterà a termine
nel febbraio del 1983, regalando così alla Chiesa uno scrigno prezioso di
riflessioni e di meditazioni sulle realtà più ordinarie e quindi più rilevanti
dell’essere e dell’esistere umano nelle sue qualità di “uomo e donna”.
Karol Wojtyla, prima come
sacerdote e poi come vescovo, si era dedicato ad accompagnare i giovani verso
la costituzione di una famiglia e le famiglie stesse con le loro problematiche
e con le loro ricchezze di esperienza e di amore. Da questa lunga
frequentazione, che non cessò del tutto neppure con la sua elezione a
Successore di Pietro, egli trasse un sostegno ed un conforto per la sua stessa
formazione umana, come egli stesso ha attestato in diverse occasioni. I due
stati vocazionali si richiamano a vicenda e non è quindi strano che dal loro
incontro si producano frutti saporiti e nutrienti.
Da questa esperienza presero
forma alcuni lavori poetici letterari: La bottega dell’orefice, Raggi di
paternità, ma anche saggi importanti quali: Amore e responsabilità, La famiglia
quale comunione di persone. Tuttavia il frutto più maturo, che si colloca al
culmine di una riflessione sorta al di dentro di un’esperienza di incontro e di
accompagnamento pluridecennale di fidanzati e famiglie è dato proprio da quella
summula che raccoglie le sue catechesi dei primi quattro anni di pontificato
sotto il titolo Uomo e donna lo creò (Città Nuova Editrice – Libreria Editrice
Vaticana). Proviamo a darci uno sguardo.
Il punto di partenza è decisivo.
Sorprendentemente Giovanni Paolo II non prende avvio né dalla realtà del
Sacramento del Matrimonio, né dal dato esperienziale diretto emotivo, psichico,
fenomenico e neppure dalle tematiche classiche di teologia morale coniugale o
sessuale in genere. Egli assume un’espressione usata da Gesù nel dibattito con
i farisei (Mt 19), che rimanda al “principio”, come chiave di interpretazione
metodologicamente centrale per intendere il dato antropologico fondamentale
sulla base del quale si innesta l’essere uomo e donna e quindi l’unità dei due.
Ma come può un simile punto di partenza aiutare a gettare luce su una realtà
concreta e determinata com’è appunto quella della natura sessuata del corpo
umano? Oppure sulle infinite sfumature esperienziali che caratterizzano
l’incontro e l’unione dell’uomo e della donna?
Il rinvio di Cristo al
“principio” è un rinvio alla creazione e quindi ad un’opera di Dio, ad un atto
che Dio compie. La tesi di fondo di tutta la catechesi su uomo e donna, sulla
teologia del corpo e sulla realtà della famiglia è che tutto quel che l’uomo
esperimenta nel suo essere e nel suo esistere è legato in maniera diretta con
il “principio”, cioè con l’azione creatrice di Dio. L’uomo può essere
considerato a partire dalla sua storia, intesa sia come storia del singolo, sia
come storia dell’umanità intera, ma l’uomo è più antico della sua storia e, in
realtà, tutto quel che si può constatare nella storia e nell’esperienza
dell’uomo è legato a quella che Giovanni Paolo II chiama “la protostoria teologica
dell’uomo”. Essa, lungi dall’essere qualcosa di tanto remoto, da risultare
ininfluente sul presente di ciascun essere umano, è invece ciò a partire da cui
si può comprendere in maniera adeguata il mistero dell’uomo nella concretezza
del suo essere e del suo vivere.
La conseguenza che Giovanni Paolo
II ne trae è che l’uomo e la donna, se vorranno intendere se stessi e l’unità
specifica che è stata ad essi assegnata, dovranno rifarsi proprio a quello che
il Creatore ha fatto quando li ha creati in quel determinato modo, secondo quel
determinato disegno e in vista di quella precisa finalità. Il segreto e la
verità di sé è racchiusa nel “principio” che ha costituito l’umanità dell’uomo.
Con questa impostazione
“dall’alto” Giovanni Paolo II entra in maniera decisiva nel cuore della
controversia infuocata sull’origine. Il misconoscimento della verità e del
realismo della Creazione e la sua sostituzione idolatrica, cioè, di mera
parvenza, con ipotesi più fantastiche che mentali, ha ormai pervaso l’intero
occidente.
Giovanni Paolo II afferma che la
realtà di Dio è al principio di tutto quel che è, e in modo specialissimo
dell’uomo, quale uomo e donna. Non solo, ma che questo “principio” determina
per intero la realtà e l’esperienza dell’essere uomo nel suo “qui e ora” e che
quindi esso costituisce il cardine esplicativo della realtà umana nel suo
insieme e nei suoi dettagli.
Ciò significa che la verità
dell’identità dell’essere “uomo e donna” e quindi della relazione tra i due è
posta dal Creatore “in principio” ed è rivelata da Dio nella sua implicazione
storica con l’uomo. Quando quel “principio” viene riconosciuto e osservato
tutto si ordina in riferimento ad esso, qualora venga occultato o censurato,
tutto si deforma e si disordina in frammenti irricomponibili e quindi privi di
senso. L’accrescersi dell’umano nell’uomo o la sua sfigurazione dipendono
essenzialmente dall’ammissione e dal riconoscimento del “principio” rivelato.
La Rivelazione conferisce senso all’esperienza e, una volta accolta
l’intelligenza della Rivelazione, anche l’esperienza diviene fonte di
esplicazione e di esplicitazione dell’umano nell’uomo.
L’attacco massiccio, programmato
e finanziato che su questo fronte è in corso, vedi la “guerra del gender” (D.
O’Leary), essendo rivolto al punto in cui il Creatore ha posto il vertice di
tutta l’opera creazionale, tende a svellere non un punto qualsiasi, seppur
rilevante, ma il “principio” stesso, il punto archimedico della intera
creazione. Non si dovrebbe neppur parlare di disordine, ma di un sovvertimento
tentativamente completo dell’intera opera divina della creazione. È lo stesso
Giovanni Paolo II che parla di “sfida a Dio Creatore” (25 marzo 1984) da parte
di una potente corrente ideologica contemporanea istrionicamente mascherata di
umanesimo.
“Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a
nostra immagine, secondo la nostra somiglianza’ (...) E Dio creò l’uomo a sua
immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò” (Gn 1, 26s.).
L’insegnamento che il Beato Giovanni Paolo II ci ha lasciato in eredità su
questo dato antropologicamente basilare, ricostruisce al dritto quelle che
nella Rivelazione anticotestamentaria sono chiamate “le fondamenta del mondo”
(Sal 81, 5, Is 40, 21; 15; Gb 38, 4). Nell’ordine della creazione il rapporto
uomo-donna ha consistenza di fondamento primordiale. La manipolazione
dell’unità tra l’uomo e la donna stabilita dal Creatore è la peggiore delle
manipolazioni possibili, perfino di quelle genetiche sulle quali si esercita la
bioingegneria.
Se questo è il punto di avvio
delle catechesi su “uomo e donna”, lo sviluppo disegna un affresco di grandi
dimensioni. Il Papa si sofferma a lungo sul “linguaggio del corpo” e sulla
“teologia del corpo” e quindi sulla sessualità, sulla dignità personale
dell’uomo e sulla “comunione di persone” che è la famiglia, sulla realtà della
famiglia, sul Sacramento del Matrimonio, sulla verginità e, da ultimo, sulle
questioni capitali di etica coniugale impostate dalla Enciclica di Paolo VI
Humanae vitae. Tutto il disegno si dipana tra la logica del “principio” e il
termine della “altissima vocazione dell’uomo”, tra la protostoria e
l’escatologia, tra la Creazione e la Risurrezione (“redenzione del corpo”) cui
l’uomo è chiamato “in Cristo”.
Con questo insegnamento Giovanni
Paolo II ha detto “all’uomo tutta la verità sull’uomo” a partire dal mistero di
Dio e ha ridato alla Chiesa intera, dopo una pausa plurisecolare,
un’antropologia che fornisce “sempre più chiaramente le ragioni per cui la
norma insegnata è vera ed è praticabile da tutti” (Carlo Caffarra), offrendo da
un lato le premesse per evitare la china moralista, dall’altro ragioni che
legittimano la morale.
Se il suo capolavoro filosofico
era centrato sul mistero e sulla dignità dell’essere personale dell’uomo, ora
egli perviene al realismo della “comunione delle persone” (GS 12) integrando la
dottrina tradizionale dell’essere ad immagine e somiglianza con l’aspetto della
natura originariamente comunionale dell’uomo. L’uomo, afferma Giovanni Paolo
II, non è a immagine di Dio, che è Comunione di Persone, solo per il fatto di
avere una facoltà di ragione, di volontà, di libertà, ma anche per il fatto di
essere istituito nella comunione e chiamato alla comunione (cf. DV 34). Tale
apporto si affaccia alla sua meditazione e al suo pensiero proprio attraverso
la considerazione della unità dell’uomo e della donna nella famiglia.
Siamo al cuore della “verità sull’uomo”.
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IL CASO/ La Scozia vuol uccidere i papà: l'ultima follia del nichilismo
di Paolo Gulisano, mercoledì 30 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Anche nella vecchia Scozia la
dittatura del Politically Correct comincia a farsi sentire, e questo proprio
mentre la nazione che da secoli rivendica con passione il proprio diritto
all’autodeterminazione nei confronti del potente vicino inglese è sempre più
vicina alla libertà. Ma quale libertà? Da mesi è attiva una durissima campagna
di stampa contro il Primate scozzese, il cardinale O’Brien, Arcivescovo di
St.Andrews ed Edimburgo, “colpevole”, agli occhi di alcuni potenti mezzi di
stampa, di non accettare l’equiparazione della famiglia naturale formata da un
uomo e una donna, alle coppie omosessuali. Per aver semplicemente ricordato che
la seconda forma di convivenza non è una famiglia, il cardinale è stato
pesantemente attaccato, e addirittura c’è chi ne ha chiesto l’arresto e il
processo. Un esempio di intolleranza in nome della tolleranza. Ma non è un
paradosso isolato. Negli ultimi giorni è uscita l’ultima versione aggiornata di
un manuale, prodotto dal Sistema Sanitario Nazionale, e dove per “nazionale” si intende proprio
della Scozia, e non della Gran Bretagna o del Regno Unito, che si intitola
Ready Steady Baby, un simpatico gioco di parole che in italiano suonerebbe
grossomodo come “pronti…partenza…bambino!” da anni diffuso tra le coppie in
dolce attesa. Tutto quello che c’è da sapere sulla gravidanza, il parto,
l’allattamento, i primi mesi di vita del bimbo. Qualcosa di simile a quanto
viene diffuso anche da noi da consultori o reparti di maternità o ASL. Il fatto
è che in questa ultima versione è scomparsa la parola “padre”. L’unico termine
ammesso è “Parent”, ovvero “genitore”: debitamente neutrale e “trasversale” ai
sessi, o ai “generi”, come va di moda dire. La bella lingua inglese è ormai da
anni oggetto di una severa opera di riscrittura all’insegna del conformismo
ideologico: termini che offrono una definizione sessuale precisa come“Man” e
“Woman” stanno estinguendosi dal vocabolario, rimpiazzati dal neutro “person”.
A volte con esiti anche ridicoli. La parola “papà”, così bella nella sua forma
austera father come in quella più dolce e affettuosa Dad o Daddy è stata
censurata per il timore di offendere le coppie gay, a seguito della protesta di
chi sosteneva che il termine padre «non
era una parola che rispetta chi ha relazioni con persone dello stesso sesso
coppie dove evidentemente questa paternità non può realizzarsi, e non certo per
colpa di nessuno, tanto meno della lingua inglese o dei vescovi che richiamano
alle verità elementari, ma perché così è scritto nelle leggi della natura,
ovvero della biologia.
E’ davvero un peccato, dicevamo,
che tutto ciò abbia avuto luogo in un paese che lotta per la propria libertà
dai tempi di William Wallace, il “Cuore impavido” della Scozia. Certo non è
stato molto impavido Michael Matheson, il Ministro della Salute scozzese.
Ministro di un Parlamento “regionale” che di fatto ha prerogative, in diversi
campi (tra cui la sanità) di tipo nazionale. Un Parlamento che legifera per la
Scozia attendendo la possibilità, entro pochi anni, di dichiarare la propria indipendenza
ed ammainare definitivamente l’Union Jack da Glasgow fino alle Highlands. Il partito indipendentista, che ha la
maggioranza relativa, governa per ora in coalizione. Matheson è membro proprio
di questo partito, l’SNP. Un partito che non può non suscitare simpatie: si
tratta di una formazione politica caratterizzata da un autonomismo di tipo
libertario, non intollerante, mai xenofobo. Matheson peraltro ha anche
frequentato le scuole dei Salesiani di Glasgow, una città dove i cattolici sono
stati per lunghissimo tempo vittime dell’odio settario. Qualche cosa in merito
al coraggio di difendere i propri
valori, e di testimoniare la verità
della fede, il buon Michael l’avrà pure imparata alla scuola di Don Bosco, se
non dei martiri scozzesi, come John Ogilvie e tanti altri che diedero la vita
perché la Fede non scomparisse da questa
terra benedetta da Dio e vessata da uomini feroci e spietati. C’è da augurarsi che il ministro della
salute, recependo le proteste di diverse associazioni, tra cui la Family
Education Trust, il cui responsabile
Norman Wells ha accusato il Servizio Sanitario Nazionale di aver «sprecato
soldi del contribuente per far avanzare i diritti di una minoranza»,ci ripensi,
ritrovi un po’ del cuore impavido dei suoi antenati che si batterono a
Bannockburn e a Culloden, e restituisca alla guida Ready Steady Baby la parola
papà:non servirà a nulla guadagnare l’indipendenza al prezzo di perdere la
propria identità. Una Scozia senza padri sarà peggio di quella Scozia senza
kilt e senza cornamuse che volevano gli inglesi.
© Riproduzione riservata.
martedì 29 maggio 2012
STATO ED ETICA - Aborti tra le adolescenti: numeri-choc in Inghilterra,
http://www.avvenire.it
Qualcosa non funziona nella
strategia adottata dal governo per ridurre il numero delle gravidanze
indesiderate tra le minorenni del Regno Unito. I dati che il ministero della
Sanità pubblicherà questa settimana, e che sono stati anticipati dal Daily
Telegraph, mostrano una realtà agghiacciante, e questo nonostante una campagna
martellante che da almeno cinque anni promuove contraccettivi, spiega come
averli gratis e indica come ricorrere all’aborto.
Nel 2010 sono state 38.269 le
adolescenti che hanno interrotto la gravidanza in Gran Bretagna. Una cifra in
sé raccapricciante, ma c’è di più: di queste ben 5.300 sono alla seconda
esperienza, 485 ragazze alla terza, 57 l’hanno fatto per la quarta volta, 14
hanno abortito cinque volte, quattro ragazze sei volte, e almeno tre sono
arrivate all’incredibile livello di sette aborti.
Si tratta di numeri choccanti che
il governo non potrà ignorare, ci dice Rebecca Mallinson della Pro Life
Alliance. E anche se il numero degli aborti tra adolescenti è sceso (del 4,5%)
nel 2010 rispetto ai 40.067 del 2009, il fatto allarmante è che sono aumentati
almeno del cinque per cento, nella stessa fascia d’età, gli aborti multipli.
«C’è qualcosa di profondamente
sbagliato in un Paese – sottolinea Mallinson – quando un numero così alto di
teen-agers abortisce anche solo una volta. Il fatto che tante lo abbiano fatto
ripetutamente è il segnale che qualcosa non funziona e che bisogna intervenire
al più presto. È ovvio che la responsabilità è di noi adulti: non stiamo
facendo la cosa giusta per proteggere queste giovani tanto vulnerabili. Sono
ragazze che avranno un futuro problematico: oltre alle gravi conseguenze
psicologiche di una o più interruzioni di gravidanza, ci sono le implicazioni
sulla salute, le malattie trasmesse sessualmente e il rischio
dell’infertilità». Il problema, spiega Patrick Rubra, ginecologo, «è che molte
di queste ragazze vogliono presto dimenticare quello che hanno fatto e quindi
rifiutano ogni supporto psicologico». «È evidente – prosegue – che le tattiche
del governo non funzionano. Queste ragazze hanno bisogno di valori, non di
consigli pratici su come abortire. È facile dire a una minorenne che c’è una
soluzione pratica e sbrigativa ai suoi problemi, ma una soluzione di questo
tipo spesso è quella peggiore per il futuro».
L’aborto è una procedura molto
seria – ci dice una portavoce del gruppo Life – «ma in Gran Bretagna non c’è
mai stato un dibattito sui rischi e sulle conseguenze di questa scelta. Si
parla molto di come abortire ma mai di come sia sbagliato e pericoloso avere
rapporti sessuali troppo presto. Speriamo che questi dati aiutino il governo a
riflettere e a far capire che non ci sono sempre soluzioni facili a tutto».
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29 maggio 2012 - Le politiche educative sbagliate e l'«eccezione
italiana» Adolescenti dall'aborto facile: ecco il fallimento inglese, Assuntina
Morresi, http://www.avvenire.it
Gran Bretagna conferma ancora una
volta il suo triste primato di abortività. Il Telegraph ha anticipato alcuni eloquenti
dati del Servizio sanitario nazionale: nel 2010 hanno abortito 38.269
teen-agers, di cui circa 5.300 per la seconda volta, ma ci sono cifre ancor più
impressionanti – delle quali il quotidiano inglese dà conto – relative agli
aborti plurimi nelle ragazze fra i 13 e i 19 anni. Diminuiscono le interruzioni
di gravidanza fra le minorenni ma aumentano in generale – il 5% in più rispetto
all’anno precedente – le adolescenti che abortiscono più volte. In Italia la
situazione è diversa: nel 2009 ad abortire nella stessa fascia di età sono
state 9.846 donne, di cui 3.719 minorenni. In termini percentuali siamo ai
valori più bassi in Europa. Per gli aborti ripetuti, i dati delle relazioni
annuali al Parlamento sull’applicazione della legge 194 non sono divisi per
fasce di età ma complessivamente mostrano la percentuale più bassa rispetto
alle altre nazioni. Una situazione "migliore", la nostra, che certo
però non può consolare e che non lascia affatto tranquilli: rimangono sempre
cifre devastanti, che tuttavia vanno lette con attenzione perché le differenze
significano pur qualcosa. E vanno comprese.
Innanzitutto i dati inglesi
mostrano che la diffusione massiccia dei contraccettivi, anche con l’educazione
sessuale nelle prime classi scolastiche, è una politica fallita: chi ripete
l’aborto, specie se giovane, vi ricorre come a un contraccettivo, anche quando
altri mezzi sono facilmente accessibili. In Italia la diffusione della pillola
anticoncezionale è fra le più basse in Europa: intorno al 16%, circa la metà
rispetto a quella delle donne inglesi. E anche per la cosiddetta contraccezione
di emergenza – la "pillola del giorno dopo", per la quale comunque
non si può escludere un effetto antinidatorio – i numeri dicono altro: nel 2008
in Gran Bretagna, dove per l’acquisto la ricetta non serve, ne sono state
vendute 1.428.000 confezioni, contro le 381mila italiane, con la vendita
subordinata a prescrizione medica. Inoltre, a differenza del Regno Unito, gli
aborti in Italia sono in costante diminuzione, e lo erano anche prima
dell’avvento della "contraccezione di emergenza". Qual è il motivo,
al di fuori della solita propaganda? È la solidità della famiglia a fare la
differenza, è questa nostra straordinaria risorsa, ancora vitale anche se
indebolita, la più efficace prevenzione dell’aborto: se i legami familiari sono
stabili, se c’è il calore degli affetti solidi dei genitori, di quelli su cui
sai di poter sempre contare, un figlio inaspettato non diventa un ostacolo da
eliminare. Se nei genitori hai visto, giorno dopo giorno, in tutte le
circostanze che la vita offre, nella buona e nella cattiva sorte, un amore
fedele; se hai vissuto nella tua vita l’esperienza del "per sempre"
dei tuoi familiari, allora la desideri anche tu, capisci che è possibile, e difficilmente
ti farai convincere che la felicità è negli affetti temporanei e fragili, nei
rapporti destinati a rompersi uno dopo l’altro, nella "libertà"
intesa come disimpegno. E allora è più probabile che un figlio arrivi quando
c’è un rapporto certo e consolidato e – che sia voluto o meno – sarà sempre il
benvenuto. Pensare che la prevenzione dell’aborto si riduca alla
somministrazione della pillola di turno, oltre che riduttivo, è profondamente
sbagliato. Nel nostro Paese convivono un minore ricorso alla contraccezione
chimica e all’aborto insieme a una forte denatalità ma anche a una famiglia
ancora sostanzialmente salda, contro le considerazioni di tanti
"esperti" che si ostinano a non vedere questa eccezionalità tutta
italiana, e che invece cercano di avvicinare il nostro Paese all’Europa per le
pratiche contraccettive e abortive, e certe concezioni di famiglia. Ma non
potrebbe essere l’Europa a "seguire" l’Italia?
29 maggio 2012- Dal fondo del dolore, Marina Corradi, http://www.avvenire.it
Per raccontare come è ora suo
marito sceglie l’immagine del «Cristo velato» di Giuseppe Sanmartini; quel
volto bello e dolce, come addormentato nella morte. Sono passati 6 anni da
quando Mariapia Bonanate, scrittrice e giornalista – testimone oltre un anno fa
dell’appello «Lasciateli parlare» di Avvenire perché fosse dato spazio
televisivo anche alle famiglie che assistono disabili gravi – ha visto il padre
dei suoi figli sprofondare nel buio della sindrome Locked-in, un raro genere di
coma che lascia la persona cosciente, ma come murata nel silenzio e nella
immobilità. Capace al massimo di rispondere con un battito di ciglia, e, col
tempo, nemmeno di questo. Io sono qui, il libro della Bonanate che esce oggi
per Mondadori, è la storia di un grande silenzio attraversato: quello della
camera di un uomo che non sente, non parla, però respira e vive. «All’inizio ho
conosciuto la disperazione», ricorda la scrittrice, che scrive del «fiume
invalicabile» che presto divide un malato come questo dai sani. Della fatica di
ricominciare ogni mattina, del desiderio, certi giorni, di scappare, di
sottrarsi a quel silenzio. Poi, nella stanza della vita sospesa la Bonanate
lentamente impara un nuovo modo di comunicare: «Ci parlavamo con gli sguardi,
con le carezze. Non lo abbiamo mai lasciato solo. Abbiamo voluto tenerlo in
casa. Un giorno la disperazione ha cominciato a retrocedere di fronte alla
percezione di un amore di un tipo nuovo, e fortissimo. Questo amore nuovo si è
aperto agli altri, agli amici e agli infermieri e ai volontari che si danno il
turno nell’assisterlo. È nata attorno a mio marito una sorta di comunità. C’è
qualcuno che da sei anni, ogni notte, lo veglia; e in quel vegliare è anche lui
cambiato, e ha cambiato il proprio sguardo».
Dalla stanza silenziosa
trasformata in un «cuore pulsante» della casa Mariapia Bonanate ha cominciato,
dice, «a vedere delle cose che prima non vedevo. Ma, anche, di fronte a quel
letto ho ritrovato in me come le voci spezzate delle tante sofferenze e miserie
che ho incontrato come giornalista; unite, ora, nella stessa croce che
riconosco in mio marito su quel letto». Come l’allargarsi lento di una gran
luce, che «non cancella affatto il dolore, non evita la fatica; e però mi ha
aperto davanti un mondo inimmaginabilmente più ampio». Ma già nei primi tempi
di quella segregazione straziante la moglie ritrova un libro che proprio il
marito tanto tempo prima le aveva messo in mano: il Diario di Etty Hillesum, la
giovane ebrea olandese morta a Auschwitz che in quel testo e nelle Lettere ha
lasciato la testimonianza di una straordinaria metamorfosi spirituale; come una
invasione di Dio in una ragazza di radici ebraiche, ma inizialmente lontana
dalla fede.
E dunque attorno alla stanza muta
come la cella di un convento si forma una singolare triangolazione: Mariapia,
il marito e Etty, con le sue intuizioni, con la sbalorditiva forza di cui dà
prova, nel campo di raccolta olandese di Westerbork. «Come lei nel lager – dice
la Bonanate – anche io in un primo momento mi sono sentita segregata, come lei
assediata dall’apocalisse. Come Etty nella Amsterdam invasa dai nazisti traeva
speranza anche dalla contemplazione del gelsomino candido sul balcone, ho
cominciato a accorgermi della bellezza dei rami degli alberi che dalle finestre
quasi entrano nella nostra casa torinese, come a toccarci». Il Diario è sempre
sul comodino della scrittrice, che la sera lo apre e vi trova una eco della sua
solitudine, e insieme della sua speranza. Compagna, Etty Hillesum, in modo
misterioso, a lei come a molte donne che l’hanno incontrata, credenti e no,
conquistate dalla ragazza «che non sapeva inginocchiarsi», dalla ragazza che
parlava con Dio quasi faccia a faccia, mentre il suo popolo e lei stessa
venivano deportati in Polonia. «Un pozzo profondo è dentro di me. E Dio c’è in
quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo
coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri…».
Sono queste forse per la Bonanate
le parole più care della Hillesum. La pietra e la sabbia dure come la fatica
quotidiana in quella stanza; ma Dio che, in quel silenzio, si lascia trovare.
«Ho cominciato a scoprire un altro mondo, una ricchezza straordinaria – dice –,
man mano che mio marito ci andava accogliendo nella sua terra estrema. E ho capito
perché Etty è così profetica, a sessant’anni dalla morte: lei, vissuta nel
momento del culmine del male, ha conosciuto per prima le macerie del
nichilismo, che ora riguardano la vita di tanti di noi; e però ha saputo
sfidarle».
Ma quale risposta è umanamente
possibile, di fronte a un uomo imprigionato in sé per sempre? Forse nessuna,
come nessuna risposta può placare la ferita di Auschwitz, dove Benedetto XVI si
chiese perché Dio aveva taciuto. E tuttavia, nel lager, dove Dio sembrava
assente, Etty – dice la Bonanate – intuì che proprio quel silenzio le domandava
di farsi lei stessa "casa" a Dio, angolo in cui un piccolo pezzo di
Dio fosse salvato: mentre i treni la notte caricavano vecchi, uomini, donne,
bambini, in un orrore cieco. E dunque anche nella nostra fatica quotidiana,
quando Dio ci sembra assente, possiamo essere noi a manifestarlo, attraverso la
nostra povera faccia, agli altri». Come accade in quella stanza sfiorata dai
rami degli alberi, dove la faccia e gli occhi di una donna e di amici e
volontari inducono in chi passa uno stupore. Una domanda: com’è possibile
vivere così? In quella stanza, dove «il mistero del silenzio ci investe come un
vento forte».
FAMIGLIA/ Ecco i due ostacoli che la frenano di Gian Carlo Blangiardo, martedì
29 maggio 2012, http://www.ilsussidiario.net
Dopo i tanti dibattiti sul
persistente grande valore dell’istituzione familiare - e in primo luogo della
sua espressione più in linea con la tradizione (genitori e figli) - sorge una
legittima domanda: se è vero che la famiglia continua a essere un solido modello
di riferimento per la popolazione italiana, come spiegare il suo progressivo
indebolimento rispetto ai processi di formazione di nuovi nuclei e del loro
sviluppo?
I dati statistici ufficiali
mostrano, con crudo realismo, l’implacabile caduta della primonuzialità (dai
circa 400mila matrimoni degli anni ‘70 agli attuali meno della metà), la
prolungata difficoltà nel transitare alla vita adulta (il 40% dei maschi e il
22% delle femmine in età 30-34anni vivono ancora in famiglia), ma soprattutto
la drastica riduzione della fecondità, che da più di trent’anni si è spinta
oltre quel confine, due figli per donna, che varrebbe a garantire almeno il
ricambio generazionale tra genitori e figli. Oggi si registra in Italia un
numero medio di figli per donna che è pari a 1,42 e che se ci si limitassimo a
considerare la sola componente con cittadinanza italiana si ridurrebbe
ulteriormente a 1,33.
Eppure, le stesse fonti
statistiche ufficiali documentano come le donne continuino ad avere un elevato
desiderio di maternità: la media è di circa 2,2 figli e anche il fatto che
oltre l’80% delle attuali quarantenni abbiano avuto almeno un figlio - quasi
come avveniva per le loro madri - testimonia una sostanziale tenuta delle
nascite di primo ordine. Purtroppo, nella fredda contabilità del bilancio
demografico di una popolazione, avere figli più tardi significa inevitabilmente
“produrne” meno.
È noto come tra i fattori che
deprimono la fecondità nel nostro Paese prevalgano le motivazioni di carattere
economico (che interesserebbero circa il 20% delle donne con uno o due figli e
il 12% di quelle con tre o più), ma anche il lavoro extradomestico rappresenta
un elemento importante per non volere un altro figlio. Si tratta di difficoltà
che rientrano nella sfera della conciliazione tra attività lavorativa e
gestione familiare e che spesso ostacolano già la transizione al secondo nato.
In conclusione, la diagnosi è chiara. Le cause più immediate della bassa
fecondità in Italia possono riassumersi in due ordini di problemi: quelli relativi
ai costi (non solo monetari) dei figli e quelli legati alla difficoltà per le
donne nel gestire il “doppio ruolo”, di lavoratrice e di madre.
Un doppio ruolo che sconta la
presenza sia di un sistema di welfare di tipo familistico - che non le supporta
attraverso l’erogazione di servizi essenziali tramite strutture pubbliche, ma
demanda principalmente tale compito alle reti informali di aiuti familiari -,
sia di un contesto di coppia ancora generalmente caratterizzato dalla disparità
di genere nella divisione dei compiti. La difficoltà nel risolvere questi
problemi si traduce in una continua attesa verso il raggiungimento delle
condizioni ottimali tanto per sposarsi quanto per avere figli, uno stato che
spesso prelude alla rinuncia, parziale o totale, della realizzazione di quello
che vorrebbe essere il progetto familiare ideale.
Su entrambi i versanti - quello
dei costi e della conciliazione - sarebbe tuttavia possibile intervenire (o
almeno iniziare a intervenire) - anche facendo tesoro dei modelli già
sperimentati con successo nella vicina Francia, così come in alcune realtà
nordiche - con opportune azioni di supporto in termini di norme fiscali e
tariffarie, di organizzazione del lavoro e di atteggiamento culturale.
E se è vero che l’intervento sul
piano economico esige risorse che oggi sono alquanto difficili da reperire,
almeno sul fronte della conciliazione un’azione efficace sembra potersi
configurare con realismo. Occorrerebbe però comprendere maggiormente non solo
quali sono le linee guida e i criteri che determinano le scelte professionali e
familiari, ma anche come avviene nella coppia il processo consapevole (e spesso
inconsapevole) di negoziazione e di presa di decisione sull’organizzazione
familiare.
Bisognerebbe altresì prendere
coscienza del fatto che la conciliazione famiglia-lavoro non si misura
unicamente con le responsabilità di cura maggiormente incombenti, bensì con
l’intero spettro di istanze di sviluppo e realizzazione personali e
relazionali. È necessario un progressivo affrancamento di questo problema dal
suo imprinting di esigenza esclusivamente femminile per interpretarlo sempre
più come una vera e propria questione familiare e sociale. In ultima analisi,
ciò comporta - come recentemente è stato autorevolmente suggerito - “la necessità
di considerare le esigenze conciliative lungo tutto l’arco di vita, di
riconoscere e valorizzare, in un’ottica sussidiaria, l’intervento dei diversi
attori sociali (istituzioni politiche, imprese, privato sociale e famiglie)
finalizzato, secondo una regolazione normativa di governance societaria, alla
compiuta realizzazione di un welfare comunitario, fondato sulla promozione di
una buona relazione tra famiglia e lavoro (CEI-Progetto Culturale, Il
cambiamento demografico, Laterza, 2011, p.15).
© Riproduzione riservata.
lunedì 28 maggio 2012
27 maggio 2012, Il dibattito (parziale) sui ginecologi obiettori - Diritti
sporcati di Francesco D'Agostino, http://www.avvenire.it
Due cose, tra le tante, mi hanno
colpito nella lunga intervista contro i ginecologi che fanno obiezione di
coscienza all’aborto che la ginecologa Giovanna Scassellati ha concesso ad
Adriano Sofri, su Repubblica del 24 maggio. In primo luogo l’accenno alla
«parte sporca dell’ostetricia, il lavoro sociale, quello che coinvolge le
emozioni». Il riferimento alle pratiche di interruzione volontaria di
gravidanza è palese. In secondo luogo (ma strettamente collegato al precedente)
l’osservazione che mentre «la maternità ti fa diventare amica della donna che
assisti, per sempre», con l’assistenza all’aborto, invece, succede il
contrario.
«Con l’aborto non ti fai clienti:
succede che non abbiano più voglia di vederti, dopo». Tralasciamo quanto di
ambiguo potrebbe esserci nel riferimento al 'farsi clienti': sicuramente
Scassellati, dicendo quello che ha detto, non intendeva certo riferirsi
all’aspetto puramente lucrativo della sua professione. Credo piuttosto che essa
volesse alludere al fatto che la donna che abortisce volontariamente porta
sempre dentro di sé la ferita, e in molti casi – perché no? – la vergogna,
della decisione assunta, ancorché liberamente: ferita e vergogna proiettate
inevitabilmente anche sul volto del ginecologo cui ci si è rivolti per essere
aiutate ad abortire e che si è assunto il compito di farsi carico di questa
pratica, della «parte sporca dell’ostetricia».
Non è questo il luogo per
valutazioni morali sull’aborto, che vanno certamente fatte, ma in altro
contesto e partendo da altri riferimenti rispetto a quello da cui ho preso le
mosse. Quello che mi dà da pensare è quanto sia difficile ricondurre le parole
di Giovanna Scassellati all’ideologia oggi dominante quando si parla di
interruzione volontaria della gravidanza. L’aborto volontario è ritenuto da
molti un «diritto della donna» (e da alcuni addirittura un diritto riproduttivo
«insindacabile»). Come sia possibile ipotizzare un diritto, quando la sua realizzazione
effettuale che ci porta a parlare della «parte sporca dell’ostetricia»,
fuoriesce dalle mie capacità di comprensione. Ancor più: come si possa
qualificare alla stregua di un diritto una pratica che cerca di essere
radicalmente rimossa da coloro che l’hanno praticata, cioè dalle donne che sono
ricorse all’aborto volontario, mi appare ancora più enigmatico.
Per le donne che chiedono
l’aborto volontario parliamo, se si vuole, di duro e violento condizionamento
sociale, o di stato di necessità o di situazioni tragiche e laceranti; ma non
parliamo di «diritto». La titolarità di un diritto, di un autentico diritto,
non dovrebbe mai avere alcunché a che fare con la «sporcizia». Né meno che mai
dovrebbe avere un senso il far di tutto per rimuovere la memoria di aver
esercitato un diritto «insindacabile». Di qui una domanda semplicissima: perché
i ginecologi che non si dichiarano obiettori, come appunto Scassellati, ma che
nello stesso tempo avvertono con lucidità le difficoltà che ho appena citato e
che giustamente considerano l’aborto «un enorme problema personale e sociale e
culturale», non si fanno promotori a loro volta di forti e attive campagne di
prevenzione, di campagne rivolte non tanto a rendere arduo l’esercizio di
questo asserito 'diritto', ma solo ad aiutare quelle donne che sarebbero
dispostissime ad accogliere un figlio, se avessero un minimo di supporto
individuale o sociale?
Perché i medici abortisti non
riconoscono che il rilascio dei certificati che autorizzano l’interruzione
volontaria di gravidanza ha il più delle volte un freddo carattere burocratico?
Perché non aderiscono – senza per questo divenire obiettori – ai progetti di
aiuto alla vita, che, anche se in un numero limitato di casi, aiutano davvero
molte madri ad accettare la gestazione e a portarla a termine? Perché attivano
campagne contro i medici che fanno obiezione all’aborto, accusandoli di
malafede, e non riconoscono che il fatto stesso che la stragrande maggioranza
dei ginecologi italiani (il 71%) faccia obiezione non può essere riduttivamente
spiegato parlando di ipocrisia e di carrierismo? L’aborto non è soltanto un
lacerante problema bioetico, è una piaga sociale aperta. Le piaghe, però, si
risanano mettendo olio e non sale sulle ferite.
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