venerdì 20 maggio 2011

GIUSTIZIA/ C’è un’ideologia che condiziona i giudici ma non si vede di Sante Maletta, il sussidiario.net, venerdì 20 maggio 2011

Ilsussidiario.net ha recentemente proposto una riflessione a più voci in merito alla odierna funzione del giudice. I contributi sinora pubblicati contengono spunti di grande rilievo filosofico e giuridico che meritano di venire sviluppati e discussi. Il tema che qui brevemente svilupperò è quello della tirannia dei valori in quanto esso fa emergere la dimensione ideologica del discorso pubblico in cui siamo immersi.
Nell’analisi del fenomeno giudico proposta nel loro contributo Epidendio e Piffer sottolineano che uno dei suoi fattori ineliminabili è quello della “dimensione metagiuridica”: la norma positiva che ordina la realtà sociale (le leggi con cui i cittadini devono quotidianamente fare i conti) e che cerca di sanare i conflitti rimanda sempre a un oltre, a un’idea di giustizia che porta con sé una pretesa di verità. Nel Novecento l’autore che ha con maggiore convinzione ricordato e difeso tale dimensione meta-giuridica è stato il giurista e filosofo tedesco Carl Schmitt (1888-1985). Per Schmitt ogni produzione politica di norme e ogni loro interpretazione giuridica costituisce una rappresentazione dell’idea di giustizia e una sua mediazione che la cala nella realtà effettuale e dietro cui sta una decisione operata da un’autorità personale. In definitiva dietro ogni norma o sua interpretazione sta sempre una volontà, un soggetto.
Attraverso tale sottolineatura dell’aspetto soggettivo Schmitt intende evidenziare i fattori fondamentali di ogni conflitto autenticamente politico, di ogni scontro cioè che non è riconducibile né a un mero conflitto di interessi né a una lotta per ragioni ideali. Il nemico politico è colui che minaccia qualcosa a cui non siamo assolutamente disponibili a rinunciare, pena la perdita di senso della propria esistenza. In casi simili non si danno procedure capaci di dirimere il conflitto (come quelle su cui fa affidamento il formalismo giuridico o politico) né tanto meno figure terze imparziali. Ciò che Schmitt mette radicalmente in questione è di conseguenza la neutralità dello spazio pubblico, assunto fondamentale del liberalismo imperante nel dibattito pubblico odierno.
La neutralità è un principio fondante della modernità politica e della sua principale invenzione, lo Stato, il quale nasce caratterizzato da una specifica mission: neutralizzare lo spazio pubblico infiammato dai conflitti a sfondo religioso caratteristici della prima modernità che spesso assumevano un aspetto cruento. Esso assolve a tale compito operando attivamente per spostare di secolo in secolo il “centro di riferimento” spirituale dell’epoca dalla teologia ad altre sfere. Ciò significa che nel Seicento, ad esempio, si cerca nella metafisica razionalistica quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano una vita sociale ordinata e pacifica, mentre nel Settecento il terreno comune lo si cerca nella morale razionale di stampo illuminista, ecc. In ogni secolo lo Stato si appoggia al centro di riferimento e alle premesse comuni che questo dovrebbe garantire per imporre il proprio ordine e la propria pace sociale. Il problema è che in ogni centro di riferimento il conflitto si sviluppa subito e con rinnovata intensità per cui diviene sempre necessario cercare nuove sfere neutrali.
Il discorso schmittiano diviene più interessante ai nostri fini quando rimarca che nel Novecento accade qualcosa di epocale: il nuovo centro di riferimento viene identificato nella tecnica e con ciò sembra di aver trovato finalmente qualcosa di assolutamente neutrale. Ora il conflitto è superabile non più attraverso una decisione che rappresenta in maniera necessariamente parziale e imperfetta l’ideale della giustizia, bensì attraverso degli automatismi, delle procedure formali. Mentre nei secoli precedenti della modernità la decisione che neutralizza lo spazio pubblico è esplicita e consapevole, qui sembra che la volontà soggettiva del sovrano sia assente.
In tale dinamica la categoria di valore morale gioca un ruolo decisivo. La trasformazione della tradizionale ricerca del bene (comune) in un discorso sui valori intende rendere commensurabili interessi che in una società pluralistica appaiono incompatibili, così come il valore di scambio economico rende commensurabili beni eterogenei tra loro. Ciò che di fatto accade è invece proprio l’opposto: la validità dei valori si regge infatti sulla valutazione e valorizzazione che sono sempre atti di posizione soggettivi. C’è una sorta di aggressività che sottende la logica dei valori che spiega l’espressione tirannia dei valori: “il valore superiore ha il diritto e il dovere di sottomettere a sé il valore inferiore”. Lungi dal neutralizzare il conflitto, la logica dei valori inasprisce la lotta delle convinzioni e degli interessi, facendo scomparire ogni riguardo nei confronti del nemico, in quanto “il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore”. Invece di essere neutralizzata, la sfera pubblica viene iper-politicizzata: “quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto”.
Ciò che in sintesi Schmitt descrive è il fenomeno del tecnicismo come risultato dell’incontro tra la logica dei valori e la tecnica. Lungi dall’essere qualcosa di meramente tecnico, il tecnicismo è il fenomeno spirituale che caratterizza la contemporaneità, definito come fede in un attivismo antireligioso dell’aldiquà. L’anima del tecnicismo è una decisione intorno alle questioni non negoziabili che definiscono lo spazio politico, una decisione che però che non si presenta come tale, ma che opera perlopiù inconsapevolmente presentandosi come neutrale laddove è invece subordinata a potenti interessi sociali. Tale fede antireligiosa predica la fine di ogni divisione, ma allo stesso tempo esaspera l’inimicizia e delegittima il nemico, trattato nel migliore dei casi come un residuo del passato che non ha più ragion d’essere. È qui all’opera un meccanismo di esclusione denegato e quindi violento.
L’esempio forse più perspicuo di tale dinamica è stato messo in luce dalla studiosa belga Chantal Mouffe, la quale ha mostrato come tale falsa neutralizzazione dello spazio pubblico operi attraverso l’uso ideologico della categoria della modernizzazione. Una volta che i sedicenti modernizzatori hanno stabilito gli standard della modernizzazione, si traccia una vera e propria frontiera tra coloro che sono in sintonia con questi standard e quelli che non lo sono, bollati come “tradizionalisti” e “fondamentalisti”. L’aspetto ideologico di tale mossa sta nel fatto che essa non si presenta come un gesto politico ma come un dato sociologico, oggettivo e politicamente neutrale. Lo spazio pubblico in un certo senso è di nuovo teologizzato in quanto viene descritto come occupato dal conflitto storico ed epocale tra il Nuovo, che ci condurrebbe a un’epoca di prosperità e di pace, e il Vecchio, sentina di ogni ingiustizia.
In definitiva l’insegnamento schmittiano ci mette in guardia rispetto a ogni discorso che si presenti nello spazio pubblico come neutrale e oggettivo e riafferma il primato (nel bene e nel male) del momento soggettivo e spirituale. Un avvertimento utile in un frangente in cui una parte consistente dell’intellighenzia occidentale sembra aver gaiamente declinato l’esercizio della propria responsabilità.
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