martedì 17 maggio 2011

Legge sul fine vita, le questioni irrisolte di Tommaso Scandroglio, 17-05-2011, da http://www.labussolaquotidiana.it/

Mentre riprende alla Camera la discussione sul disegno di legge sul fine vita, rimangono irrisolte alcune questioni, la principale delle quali va oltre il testo stesso e anche oltre le migliori intenzioni di chi vuole tutelare la vita sino al suo tramonto naturale. la questione è infatti che non esiste legge al mondo, perfetta quanto vogliamo, che possa ostacolare l'arbitrio dei giudici. Questo vale per il fine vita come per i danni da vacanza rovinata. Qualsiasi avvocato anche alle prime armi lo sa: le buone intenzioni del legislatore possono scontrarsi con le cattive intenzioni dei magistrati. Se la futura legge verrà promulgata ciò non comporterà automaticamente che i giudici la applicheranno fedelmente secondo i principi ispiratori degli estensori. In buona sostanza una nuova legge di per sé non porterà a cancellare il possibile orientamento ideologizzato di alcune toghe. E’ banale quasi ricordarlo.

L’obiezione a quanto sin qui detto potrebbe essere la seguente: i casi Eluana e Welby hanno messo in evidenza che il nostro ordinamento giuridico sui temi di fine vita presenta delle fragilità preoccupanti. Quindi proprio per contrastare l’arbitrio dei giudici è bene fortificarlo il più possibile, consci che la perfezione, anche e soprattutto nell’ambito giuridico, non è di questo mondo. Insomma meglio una legge non perfetta che conservare lo status quo. Qualche contro-obiezione. Su tutti i temi dell'umano vivere la giurisprudenza ha orientamenti talvolta, se non spesso, divergenti, ma questo non significa che ogni volta dobbiamo metter mano alle leggi per cambiarle e per aggiungerne di nuove. Quanti magistrati hanno assolto pluriomicidi, o sequestratori o rapinatori di “chiara fama”? Molti, ma non per questo qualcuno si sogna di cambiare l'art 575 cp (omicidio) o il 605 cp (sequestro) o il 628 cp (rapina). Il nostro ordinamento è ben conscio di questo limite inestirpabile ed infatti ha previsto tre gradi di giudizio (in realtà due perchè la Cassazione non dovrebbe entrare nel merito ma solo verificare la consequenzialità logica dei pronunciamenti precedenti, cosa che non fece ad esempio nel caso Eluana), più la revisione. Oltre a ciò ha previsto un organo disciplinare chiamato Consiglio Superiore della Magistratura. Se non si paventasse l’errore – colposo o doloso del giudice – non ci sarebbe motivo di avere tre gradi di giudizio, più la revisione, nonché prevedere l’esistenza di un organo quale il CSM.

Dunque gli errori/orrori giurisprudenziali dei casi Eluana e Welby andavano risolti non tramite una novella legislativa ma per mezzo degli strumenti procedurali già esistenti: opponendosi alle pronunce dei giudici, riaprendo il caso, etc. Così come alcune coraggiose associazioni pro-life hanno fatto. E' questa la prassi normale. Oltre a ciò, e a differenza di tante altre materie, sul fine vita la giurisprudenza, sui casi rarissimi in cui è stata chiamata a decidere, ha un orientamento pressoché univoco. Ciò paradossalmente è testimoniato dallo stesso caso Eluana: per ben sette volte i giudici civili respinsero la richiesta di Beppino Englaro di staccare la spina. A testimonianza del fatto che le toghe, interpellate sulla fattispecie concreta anche a distanza di anni, presentavano sempre un indirizzo omogeneo.

Questo orientamento pro-life della giurisprudenza è testimoniato anche dalle sentenze emesse nei casi di rifiuto di trasfusione di sangue da parte dei Testimoni di Geova. Qui vogliamo riferirci non al rifiuto di persona cosciente nell’iniziare una trasfusione dato che questa fattispecie non potrebbe essere affiancabile al caso di Eluana, la quale come si sa non era vigile. In questi casi i giudici, ex art. 32 della Costituzione, hanno qualificato come legittimo il rifiuto della trasfusione. Attenzione però a non costruire analogie con il caso Welby che in realtà non esistono. I giudici che assolsero il dottor Riccio dall’imputazione di omicidio del consenziente formulata dal Gip La Viola errarono per due motivi. Primo: la respirazione meccanica non era un trattamento sanitario, ma un mezzo di sostentamento vitale, e quindi non poteva essere rifiutata. In secondo luogo, ammesso e non concesso che di trattamento sanitario si fosse trattato, questo era già in essere. In costanza di trattamento, l’accoglimento del rifiuto dello stesso espresso dal paziente configurerebbe una collaborazione attiva nel procurare la morte dello stesso (staccare le macchine ad esempio che fanno la trasfusione) e quindi entreremmo di rigore nell’ambito di applicazione dell’art. 579 c.p. che punisce appunto l’omicidio del consenziente. Una cosa quindi è rifiutare un trattamento sanitario non ancora iniziato – vedi Testimoni di Geova – un’altra è rifiutare un trattamento già iniziato – vedi caso Welby.

Qui vogliamo riferirci invece ai casi in cui un paziente testimone di Geova arriva in ospedale in stato d’incoscienza, portando al collo una catenina o al polso un braccialetto attraverso i quali chiede di non ricevere trasfusioni. Appuntiamo il fatto che la giurisprudenza è scarna a riguardo, a testimonianza che non c’è un’emergenza né sociale né giuridica sui temi di fine vita. Detto ciò vediamo comunque cosa hanno deciso i magistrati su questa materia. A parte un caso – che come vedremo in realtà depone verso il favor vitae – i giudici hanno affermato che i medici hanno agito legittimamente nell’effettuare le trasfusioni. Ci riferiamo alle sentenze del Tribunale di Trento (9 luglio 2002) confermata in appello (Tribunale di Trento sentenza del 19 dicembre del 2003) e poi ancora in Cassazione (n. 4211/2007). Stesso indirizzo è rinvenibile nella sentenza della Corte di Appello di Trieste del 25 ottobre del 2003. Sentenza confermata successivamente dalla Cassazione (n. 23676/2008). La Cassazione, in quest’ultima circostanza, respinse la richiesta di risarcimento da parte di un testimone di Geova a cui in stato di incoscienza venne praticata una trasfusione perché il cartellino che recava con sé e che riportava la dicitura “niente sangue” non indicava una volontà “espressa, inequivoca, attuale e informata”. Però, ed arriviamo all’eccezione di cui facevamo cenno prima, tale volontà scritta sarebbe stata vincolante per il medico nel caso in cui questa fosse stata “articolata, puntuale ed espressa”. E il criterio d’attualità che fine ha fatto? I giudici non l’hanno indicato perché consci con imbarazzo che qualsiasi dichiarazione, scritta precedentemente alla perdita di conoscenza, è inevitabilmente inattuale. E dunque sul punto hanno preferito prudentemente glissare…

Insomma i nostri giudici, a parte questo svarione che non andò comunque ad incidere nella fattispecie concreta, si allineano, tra l’altro con sentenze assai recenti, a quanto previsto dalla legge 145/2001 che ratifica la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei diritti dell’uomo riguardo all’applicazione della biologia e della medicina. L’art. 8 di questa norma recita che “allorquando, in una situazione di urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata”. L’art 9, in linea con lo stesso art. 9 della Convenzione di Oviedo, specifica che i desideri precedentemente espressi saranno tenuti in considerazione ma non sono vincolanti. Questo, a margine ma non troppo, a dimostrazione che anche sulla materia del consenso informato in relazione a persone coscienti o incoscienti una legge c’è già.

Tutti parlano dei casi Eluana e Welby proprio perché ci sono stati solo questi due casi eclatanti che non hanno mutato l’assetto normativo del nostro ordinamento giuridico. Altri non ce ne saranno dal momento che nella grandissima maggioranza dei casi i pazienti vogliono vivere, i familiari vogliono accudire i loro cari e non farli morire (la decisione di Beppino non ha fatto scuola tra le 2.000 famiglie che hanno un parente nelle stesse condizioni di Eluana), i medici vogliono curarli e i giudici non sono così folli da concedere che si stacchi la spina ai moribondi o ai disabili. Non c’è quindi un fenomeno così diffuso da legittimare una risposta normativa da parte dello Stato. Le leggi, Tommaso D’Aquino insegna nella Summa contra Gentiles  e nella Summa Theologiae, devono disciplinare "ciò che accade tra i più". Questo è uno, ma non il solo, dei criteri da tener presenti nel decidere sull’opportunità di legiferare.

Un’obiezione alle argomentazioni sin qui illustrare potrebbe essere la seguente: vero è che fino ad ora le derive giurisprudenziali pro-eutanasiche sono state insignificanti dal punto di vista numerico, però chi ci assicura che nel futuro questi casi non aumenteranno? Ora bisogna capire se, a fronte di possibili e futuri colpi di mano dei giudici, offrano maggiori garanzie le norme attualmente presenti o altre di nuova fattura. Abbiamo già illustrato in un precedente articolo i motivi per cui riteniamo che la tutela migliore, anche per il domani, della vita dei pazienti venga dalle norme del codice penali già esistenti. La prova viene paradossalmente dal progetto di legge in esame. In genere si afferma che è necessaria una legge perchè gli artt. 575, 579, 580 del Codice Penale – così si dice – presentano delle lacune in merito alle fattispecie riguardanti i temi di fine vita. Dopo Eluana e Welby questi articoli non possono più essere interpretati come una volta, si sostiene. Quindi da una parte si criticano questi articoli, sostenendo che sono inefficaci per garantire tutela contro possibili attacchi futuri giurisprudenziali, ma poi sono proprio questi articoli che all’art. 1 lettera c) del disegno di legge vengono citati per evitare derive eutanasiche: “vieta ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 del codice penale ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio”. E poi in modo analogo all’art. 3 comma 4: “Nella dichiarazione anticipata di trattamento il soggetto non può inserire indicazioni che integrino le fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale”. Ed infine all’art. 6 comma 4: “Il fiduciario, se nominato, si impegna a verificare attentamente che non si determinino a carico del paziente situazioni che integrino fattispecie di cui agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale”. Ciò a riprova che questi articoli (insieme al 5 cc) anche per gli estensori del Ddl in esame alla Camera rappresentano già attualmente il baluardo contro l'eutanasia.

Se questi articoli già vigenti sono insufficienti per vietare l’eutanasia perché metterli a fondamento del Ddl? Perché da una parte si svuotano di efficacia questi articoli e dall’altra si sostiene nero su bianco in più punti del disegno di legge attualmente in approvazione che proprio queste stesse norme sono il granitico presidio contro atti eutanasici? La contraddizione è evidente.


Come aveva suggerito l’on. Alfredo Mantovano in un dibattito pubblico di circa due anni fa, semmai occorre fare una leggina in cui si specificasse ciò che già implicitamente è contenuto nel nostro ordinamento: acqua e cibo non sono trattamenti sanitari e quindi ex art. 32 Cost. non possono essere rifiutati. E' come l'art 527 cp "Atti osceni": basterebbe già questo articolo per dire che non devi andare in giro mezzo nudo, ma fece bene il sindaco di Roma Alemanno qualche anno fa a emettere una disposizione amministrativa la quale prevedeva che sulla Salaria non si passeggia in abiti discinti (era funzionale ad ostacolare la prostituzione). Nel nostro caso purtroppo abbiamo a che fare non con glutei e seni scoperti ma con qualcosa di ben più scabroso.

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