mercoledì 18 maggio 2011

I giovani? Una specie in via d’estinzione di Manila Alfano - © IL GIORNALE ON LINE S.R.L.

Negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso due milioni di under 34. E nei prossimi venti caleranno ancora. Motivo: ci si costruisce una vita troppo tardi e si fanno pochi figli
Li chiamano «merce rara». I giovani sono in via di estinzione, una specie da proteggere. Pochi e sempre più soli, sembrerebbe. «Negli ultimi dieci anni la generazione giovanile ha perso oltre due milioni di unità e nei prossimi vent’anni diminuirà ancora».
Il rapporto presentato dal direttore del Censis, Giuseppe Roma preoccupa; e ieri, alla commissione Lavoro della camera, neppure lui sembrava molto soddisfatto. I numeri non tornano. Si fanno proiezioni, ipotesi, ma si arriva sempre allo stesso risultato: manca l’ingrediente principale, il motore, il nuovo che sostituisce il vecchio. I giovani scarseggiano, in Italia non nascono abbastanza bambini. «Dal 200 al 2010 abbiamo perso letteralmente due milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni», ripete Roma. «I dati strutturali ci dicono che stiamo perdendo la fisiologia di ogni società». Manca il ricambio generazionale, non ci sono nuove leve. L’Italia è un Paese che invecchia. Te ne accorgi camminando per strada, i fiocchi attaccati ai portoni scarseggiano, ogni famiglia si concede un figlio, massimo due. Si aspetta, forse troppo. Un terzo dei 35enni vive a sbafo da mamma e papà, ma solo il 41 per cento lo fa per necessità economica.
C’è paura, si programma e si attende il momento giusto. Lo studio, il posto fisso, la casa, a modo e per bene. Poi, diventa subito maledettamente tardi, scatta la campanella, e le «giovani» mamme si ritrovano ad avere 35 anni senza quasi accorgersene. Si va avanti così: pochi figli con madri sull’orlo della menopausa. Un meccanismo pericoloso, una sorta di politica del figlio unico dettata dalla necessità. Le insegnanti lo sanno da anni, lo vedono quando fanno l’appello e tra i nomi si leggono sempre meno bambini italiani. I figli degli immigrati sono sempre di più, l’incidenza delle nascite di bambini stranieri sul totale dei nati della popolazione residente è passata dall’1,7 per cento al 13,6 per cento. Saranno loro la scialuppa di salvataggio per il welfare italiano? Si preferisce invecchiare, piuttosto che fare figli. «Nei primi anni 2000 i giovani contavano in Italia per il 28% della popolazione totale, nel 2010 la loro quota e scesa al 23%, nel 2030 saranno il 21 per cento», dice il direttore del Censis. Continuerà, al contrario, l’incremento della popolazione con oltre 65 anni, la cui incidenza passa dal 18% di dieci anni fa, al 20% attuale, fino al 26% del 2030. Così mentre attualmente i giovani consentono ancora un certo ricambio generazionale coprendo una quota superiore, seppur di poco, della terza età, fra vent’anni i giovani diminuiranno, seppure di poco, mentre gli anziani cresceranno di oltre 4 milioni. E a quel punto che faremo?
Come noi solo la Germania, anche lì c’è già qualcuno che inizia a preoccuparsi su chi pagherà le pensioni. «I giovani pesano in Italia e Germania meno che in altri grandi Paesi europei come Francia e Regno Unito e rispetto alla media europea. Ma non solo. I nostri, sembrano giovani diversi. «La vera anomalia italiana è rappresentata dai giovani che non mostrano interesse nè nello studio, nè nel lavoro: in Italia sono l'11,2% rispetto al 3,4% della media europea», ha sottolineato il direttore. Secondo il Censis, per i «middle young» (25-34 anni d'età) c'è un'inversione tra chi studia e chi lavora, e crescono le persone alla ricerca di un lavoro o esclusi da qualsiasi attività. È bassa la partecipazione al lavoro nell'età dell'apprendistato e del diploma. Nei successivi dieci anni, la quota di chi non ha avuto accesso alla vita attiva, alla piena autonomia e responsabilità raggiunge il 35% tra i 25-34enni, e la percentuale sale al 45% tra le donne e al 53% nel Mezzogiorno. «E non bisogna neanche agitare lo spauracchio del lavoro precario - ammonisce una nota del Censis - i giovani occupati a tempo determinato in Italia sono il 40,1 per cento, meno che negli altri grandi Paesi europei».

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