lunedì 26 settembre 2011


I problemi biogiuridici della “gravidanza indesiderata” (o wrongful pregnancy) di Aldo Vitale, ricercatore in filosofia e storia del diritto,  26 settembre, 2011

Lo scorso 13 settembre si è saputo tramite le agenzie di stampa che una donna di San Daniele del Friuli ha ottenuto un risarcimento pari a 150 mila euro a seguito del danno subito per la gravidanza conseguita dopo un non corretto procedimento di sterilizzazione consensuale non terapeutica (SCNT) messo in essere per evitare nuove maternità oltre le cinque già riportate negli anni. Il giudice ha condannato l’azienda sanitaria locale al mantenimento del figlio nato fino al raggiungimento dell’indipendenza economica dello stesso. Gli spunti di riflessione potrebbero essere molteplici e sotto diversi aspetti (sociali, politici, psicologici), ma ciò che qui preme rilevare è la problematica sotto la luce della bio-giuridica, cioè della scienza che nasce dall’incontro tra bioetica e diritto. In questa prospettiva non si può fare a meno di notare che anche nelle Corti italiane, come all’estero, si è sempre più affermato il riconoscimento della risarcibilità di ciò che in modo generale viene definito come “danno da nascita indesiderata”. Questa è senz’altro una formulazione troppo generica, che ricomprende al suo interno una variegata policromia di situazioni azionabili in tribunale.

L’esperienza in questo senso è maturata soprattutto nel mondo anglosassone, con le cosiddette action in torts (cioè azione per illeciti civili). Se dapprima erano stati ipotizzati risarcimenti per la cosiddetta wrongful diagnosis e per la wrongful therapy, con il tempo si è affermata anche la risarcibilità per la wrongful pregnancy (cioè gravidanza indesiderata), per la wrongful birth (cioè nascita indesiderata) e anche perfino per la wrongful life (cioè vita indesiderata). Il primo caso in Italia fu quello di Piacenza del 1950, in cui il figlio chiese il risarcimento dei danni per nascita indesiderata (nello specifico si trattava di wrongful life) poiché con il medesimo proprio concepimento i genitori avevano trasmesso la lue precedentemente contratta. Ciò che sembrava all’epoca un caso isolato, è divenuto, dopo alcuni decenni, un orientamento giurisprudenziale sempre più diffuso e consolidato. Tuttavia, considerando la vastità dell’oggetto di indagine, per ciò che riguarda questa analisi si porrà l’attenzione soltanto, e pur brevemente, alla wrongful pregnancy.

Le circostanze da cui sorge il danno a seguito di wrongful pregnancy, possono essere diverse. Comunemente si tratta però di interventi di sterilizzazione (quale è il caso di Udine) non efficaci o erroneamente eseguiti, o interventi di IVG (interruzione volontaria di gravidanza) falliti. Tuttavia si può rintracciare la causa anche in improprie somministrazioni di mezzi contraccettivi, o nella perdita di scelta o di chance tra interruzione o prosecuzione della gravidanza a seguito di un errore diagnostico del medico che non ha rilevato, per esempio, le eventuali patologie del feto che avrebbero legittimato l’IVG.  Il diritto ad essere risarciti secondo l’opinione della giurisprudenza, nasce non già dall’evento nascita in sé considerato (come affermano, per esempio, la sentenza del 27/03/2006 del Tribunale di Catania, o le sentenze del Tribunale di Monza del 19/04/2005 e del 10/06/2005, o la sentenza del Tribunale di Roma del 13/12/1994 ), ma dai danni biologici, esistenziali ed economici che dall’evento nascita possono scaturire per i genitori (cfr a titolo esemplificativo: Cass. civ. sez. III, del 04/01/2010 n. 13; Tribunale di Pesaro del 26/05/2008; Cass. civ. sez. III del 20/10/2005 n. 20320 ). Molta attenzione viene rivolta, per esempio, alla cosiddetta “procreazione cosciente e responsabile” che verrebbe meno laddove nascesse un figlio non voluto a seguito di SCNT o IVG fallite.

Ed è proprio qui che occorre considerare alcune obiezioni, costretti per motivi di spazio a tralasciare le osservazioni bio-giuridiche sulla SCNT, sulla IVG, sugli altri tipi di “nascita indesiderata”, sulla procreazione cosciente e responsabile e su tutta un’altra vasta serie di problematiche connesse. Sebbene le Corti italiane abbiano risparmiato la pena agli studiosi di diritto di dover apprendere tramite sentenze che la vita costituisca un danno in sé, non si sono risparmiate dal considerare che la vita possa rappresentare a sua volta una fonte di danno, per altri tipi di danno, in primis quello di natura economica che i genitori accuserebbero per accudire, crescere e sfamare la prole inaspettata. Per certi aspetti è un passo avanti, ma non per altri: è positivo poiché, se si effettua un paragone con l’estero, per esempio con la Francia, dove si sta lentamente, ma pervicacemente tentando di affermare il “diritto a non nascere” (azionabile proprio dal nato), si riscontra che in Italia vi sono state maggiori resistenze. Così nota, per esempio, la sentenza già citata del Tribunale di Catania a cui non sfugge, fortunatamente, la antinomicità di un simile diritto qualora venisse ad essere prospettato: «Il diritto a non nascere sarebbe un diritto adespota, sicché non avrebbe alcun titolare, appunto, fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più». Ma la situazione non è rosea per altri aspetti, in particolare se si scandaglia in profondità l’operato della giurisprudenza che appare palesemente orientato da un’ottica utilitaristica, come avviene ogni volta che la vita, o qualunque altro bene indisponibile, diventi suscettibile, in un modo o nell’altro, per un motivo o per un altro, di valutazione economica. Non si può fare a meno di ricordare, a questo punto, che nell’esperienza estera il dibattito è stato molto vivace, soprattutto negli Stati Uniti sul caso McKernan vs Aasheim del 1984, allorquando la Corte Suprema di Washington negò la risarcibilità del danno derivante da wrongful pregnancy spiegando che «la nascita di un bambino è più di una semplice responsabilità economica, in quanto può fornire ai suoi genitori amore, compagnia, senso di realizzazione ed una limitata forma di immortalità» ( cfr. il commento contrario alla decisione della Suprema Corte steso da Patricia Baugher dal titolo “Fundamental protection of a fundamental right: full recovery of child-rearing damages for wrongful pregnancy”, sulla Washington Law Review dell’ottobre del 2000 ).

Ciò che non si considera è che se per un verso è vero che la vita non è un danno in sé, per altro verso nemmeno può essere considerata essa stessa fonte di danno, poiché significa ammettere, più o meno implicitamente, che l’esistenza di un essere umano sia fonte di danno per l’esistenza di qualcun altro. Perché allora non ammettere il risarcimento per il tipico vicino di casa molesto che si ostina a vivere disturbandoci invece che morire e lasciarci in pace (cioè non per la molestia in sé, ma per l’esistenza molesta del vicino)? E quanto ci si avvicina, in tal maniera, alla legittimazione (giuridica e morale) dell’omicidio, e magari dello sterminio? Certo, nessuna Corte avrebbe mai il coraggio o la pretesa di giungere automaticamente a simili conclusioni, ma il sentiero percorso dai giudici, italiani e stranieri, che ponderano la risarcibilità della vita conseguita per wrongful pregnancy, si sviluppa per incoercibile necessità logica in questa direzione. La gravidanza, cioè il mistero dell’origine della vita che ancora è tale perfino per la scienza, ciò che Jerome Lejeune definì come “tempio segreto”, rifacendosi a sua insaputa all’elegante e fecondo di interessanti suggestioni, modo di chiamare il grembo materno tipicamente giapponese (shi-kyu, cioè “palazzo del bambino” ), è il momento non già foriero di danno, cioè di allontanamento dell’altro, ma di preparazione per accogliere l’altro. La biologia informa che lo stesso organismo della madre subisce enormi mutazioni chimiche e fisiche per apprestarsi ad accogliere l’altro. In un’ottica pienamente umana, che cioè sia relazionale e consapevole della portata strutturale per l’umanità di questa relazionalità, l’esistenza dell’altro non può essere fonte di danno, ma, invece, momento non solo di arricchimento, non solo di comunicazione, non solo di incontro del diverso, ma di conoscenza di se stessi, di dis-velamento della propria natura, del proprio essere, dell’essere (uomo). Cominciare a negare l’altro, la sua esistenza, il suo diritto a vivere, è il principio per cominciare a negare anche se stessi.

Come ha brillantemente intuito il pensiero di Emmanuel Levinas, «il problema dell’altro è il problema della giustizia», per cui negare l’altro, negare la sua dignità, pensare perfino che la sua esistenza possa rappresentare una fonte di danni (anche soltanto economici), significa non comportarsi secondo giustizia, secondo lo schema relazionale della natura umana, cioè non rendere all’altro ciò che gli spetta, in primis il diritto ad esistere senza essere suscettibile di giudizi economicamente valutabili ( direttamente come danno o indirettamente come fonte di danno ). Emmanuel Mounier ebbe cura di precisare che «la negazione dell’altro è sempre un principio di omicidio», così, si può concludere a contrario, il risarcimento pagato per una vita non desiderata, cioè la negazione dell’altro tramite denaro, potrebbe essere considerato il prezzo che si paga per evitare un omicidio, cioè l’eliminazione di colui la vita del quale costituisce una insopportabile fonte di danno. Senza dubbio è sempre meglio pagare una somma per salvare una vita, piuttosto che rischiare di perderla per omicidio, ma è anche vero che rimane intero ed insoluto il problema morale e filosofico della negazione dell’altro, messa in essere non già con l’evento mortifero tipico dell’azione omicidiaria, ma tramite un (sicuramente) più cospicuo, ma altrettanto immorale ed antigiuridico tantundem.

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