lunedì 7 novembre 2011


Gestire il territorio Ecco cosa si può fare di Luigi Mariani, 07-11-2011, http://labussolaquotidiana.it

Il territorio italiano è ricco di precipitazioni in virtù della vicinanza a quell’enorme ed inesauribile sorgente di aria umida che è il mare Mediterraneo. Perché piova l’aria umida deve salire, espandersi e condensare e qui un ruolo chiave lo giocano da un lato l’orografia alpina ed appenninica (quando la circolazione atmosferica spinge l’aria umida contro una montagna o la fa incuneare in una valle stretta questa è costretta a salire) e dall’altro la vicinanza di regioni - Artico, Atlantico, Siberia - da cui con una certa frequenza giungono masse d’aria fredda (aria calda ed aria fredda non si mescolano fra loro per cui l’aria caldo-umida mediterranea che viene spinta dalla circolazione atmosferica verso l’aria più fredda è anche in questo caso costretta a salire).


L’abbondanza di pioggia, che per molti aspetti è all’origine della ricchezza del nostro Paese, comporta tuttavia anche un sensibile rischio di eventi pluviometrici estremi, rischio la cui entità è quantificabile con misure pluviometriche accurate. Piogge estreme potranno poi tradursi in eventi calamitosi (alluvioni, colate di detriti, colate di fango e più in generale frane) sul cui livello di rischio intervengono non solo fattori meteo-climatologici ma anche fattori idrologici e geologici.


Le serie storiche di dati di pioggia che per quasi un secolo sono state raccolte dal Servizio Idrografico del ministero dei Lavori Pubblici ci mostrano che in passato si sono avuti eventi estremi con quantitativi di pioggia davvero impressionanti. Ad esempio sfogliando il bel testo “Idrografia e idrologia del Po” di Lino Cati, si scopre che nel circondario di Genova nel corso dell’alluvione del 1970 furono registrati 948 millimetri in 24 ore a Bolzaneto, 932 a Valleregia e 749 a Pontedecimo, valori decisamente superiori ai massimi di 500 mm che secondo le notizie riportate sono caduti a Genova in occasione dell’alluvione del 6 novembre 2011, o a quelli di 530 mm registrati in provincia di La Spezia in occasione degli eventi calamitosi del 25 ottobre 2011 (per aiutarci ad interpretare tali dati occorre tener conto che a Genova in un anno cadono in media 1230 millimetri di pioggia e al passo della Cisa ne cadono 1600). Dati altrettanto impressionanti emergono dai testi del Servizio Idrografico per altre aree del Paese: ad esempio dal 15 al 18 ottobre 1951 sono piovuti 1366 millimetri  a Nicolosi (Sicilia) e 1495 mm a Santa Cristina d’Aspromonte.

Da tali dati si può dedurre che è consigliabile evitare il “refugium peccatorum” del Global Warming e decidersi invece a ragionare su cosa possiamo fare oggi per tutelare i nostri concittadini e i loro beni dagli eventi pluviometrici eccezionali e dai fenomeni conseguenti.


Tale riflessione deve partire dalla constatazione che il rischio non può in alcun caso essere del tutto eliminato. Se ad esempio riflettiamo sul dimensionamento delle arginature di un grande fiume come il Po, le stesse sono progettate per resistere ad una piena che si verifica con tempo di ritorno di 100-200 anni. Se tale piena “ideale” viene ecceduta, gli argini non reggono e l’alluvione diviene inevitabile. Occorre anche considerare che aumentare il tempo di ritorno rispetto a cui intendiamo proteggerci comporta oneri economici spesso non sopportabili dalle popolazioni, per cui il “rischio 0” è sostanzialmente un’utopia.


Che fare allora? Il buon senso e l’esperienza ci portano ad individuare una serie azioni tutt’altro che originali e che gli idrologi assai bene conoscono.

Anzitutto occorrerà individuare gli eventi critici con un opportuno tempo di ritorno (es: una piena con tempo di ritorno di 100 anni) rispetto ai quali ci si voglia tutelare nelle diverse aree del Paese. Ciò fatto si dovrà valutare con strumenti idrologici opportuni quali interventi sia necessario attuare (es. arginature, regimazione dei corsi d’acqua). Ciò comporta ovviamente il reperimento di risorse sia per l’esecuzione delle opere  sia per la manutenzione ordinaria e straordinaria delle stesse.


Si dovrà inoltre definire con chiarezza il da farsi qualora i succitati eventi critici vengano ecceduti e dunque i corsi d’acqua esondino. Ad esempio nel caso di territori in cui le piene sono “improvvise” e cioè fra pioggia estrema ed onda di piena trascorrono pochissime ore (e territori esposti a questo tipo di rischio si ritrovano non solo in Liguria ma in gran parte delle regioni italiane) si dovrà ricorrere ad allertamenti con sirene o con altri strumenti in grado di raggiungere rapidamente la popolazione (es: SMS, TV, radio) pensando altresì a preparare la popolazione stessa educandola adeguatamente e testando poi il livello di preparazione con adeguate esercitazioni di protezione civile. E’ chiaro infatti che un allarme ottiene come unico risultato quello di scatenare il panico se i cittadini che lo ricevono non conoscono le vie di fuga, i luoghi da evitare assolutamente in caso di piena e viceversa i luoghi sicuri in cui ricoverare se stessi ed i propri beni (es: le autovetture). Un approccio del tutto diverso richiederanno invece i territori di pianura che vivono sotto la minaccia delle piene di grandi fiumi come il Po, il Tevere e l’Arno, piene che possono essere foriere di danni enormi ma che si propagano da monte a valle  con una certa lentezza.


Queste considerazioni possono essere certamente affinate, ma appare chiaro da un lato che di tali temi occorra discutere con quella serenità e quella costanza che è fin qui mancata (i fatti recenti li rendono oggi temi di grande attualità ma sarà lo stesso la primavera prossima?) e dall’altro che qualunque intervento venga alla fine deciso non potrà che basarsi sull’uso razionale di tecnologie e competenze allo stato dell’arte nei settori dell’analisi e della previsione in campo meteorologico, geologico e idrologico.

E’ da rilevare infine che il sistema di prevenzione e di gestione di eventi critici qui prospettato si regge su misure accurate delle variabili in gioco (quelle pluviometriche e idrometriche in primis). Da questo punto di vista spiace constatare che per scopi ingegneristici si faccia ancora oggi largo ricorso ai dati del Servizio Idrografico (fermi ai primi anni ‘90) mentre occorrerebbe disporre per tutte le aree del territorio nazionale di statistiche aggiornate sulle piogge estreme e le portate dei corsi d’acqua. Per questo si deve ritenere sciagurata l’abolizione del Servizio Idrografico (avvenuta nel 1998 con il decreto Bassanini ter) ed è necessario che le strutture regionali cui oggi sono state delegate le competenze dell’ex Servizio Idrografico siano assoggettate ad un coordinamento centrale forte che le vincoli a svolgere le attività di misura e di divulgazione delle misure stesse che sono alla base della gestione razionale del territorio.

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