giovedì 1 dicembre 2011


Pancia affittata - E se i committenti «recedono»? di Tommaso Scandroglio, Avvenire, 1 dicembre 2011

Come  spesso  accade,  quando  una legge degli  uomini decide  di compiere  giochi di prestigio con le leggi di natura gli esiti sono imprevedibili. Non sfugge a questa regola la procreazione umana. In  Canada la pratica della surrogazione  – una donna che «presta» il suo utero a una coppia in cerca di figli – è  legittima ed è disciplinata dall’Assisted human reproduction act del  2004. Cathleen Hachey, una ventenne della provincia del Nuovo Brunswick, viene contattata sul sito «Surrogate mothers online» da una coppia inglese che non riesce ad avere figli. Il contratto è concluso: 200 dollari canadesi al mese perché faccia fecondare il proprio ovocita, tramite iniezione fatta tra le pareti domestiche, dal seme del marito e porti avanti la gravidanza.   Il concepimento ha successo: due gemellini. Alla 27ª settimana arriva alla Hachey un sms della coppia che la  informa che hanno deciso di recedere dal contratto perché i due si sono  separati. Vani i tentativi della madre  surrogata di contattare gli «ex datori  di lavoro». I gemelli comunque vengono alla luce e in extremis adottati  da un’altra coppia. La Hachey non fa  una piega sull’accaduto e dichiara:  «Mi piace essere incinta, mi piace partorire. Mi è piaciuto tutto». Ma il business è business e quindi tiene a precisare per le prossime richieste di affitto del suo corpo: «Avrò il mio avvocato e clausole nel contratto che  mi tutelino».
Innanzitutto è da registrarsi il conclamato fallimento del femminismo radicale, di quello puro e duro che gridava «l’utero è mio e ci faccio quello che voglio», anche darlo in  affitto dunque. Lo slogan doveva essere la bandiera dell’indipendenza  dai clichè, la vicenda canadese invece ci informa che la presunta libertà  della donne di far del proprio corpo  ciò che a loro garba, anche di noleggiare alcune sue parti, ha avuto come  conseguenza paradossale che le donne si possono ritrovare scippate della loro maternità (la Hachey avrebbe tenuto il bambino se non fosse  stata al verde) e che la maternità da  vocazione della persona, privilegio  femminile, si è degradata a squallida  mansione lavorativa: gestatrice di figli altrui. Senza poi contare che la  pratica della surrogazione già nel termine fa intuire un rapporto di subordinazione falsa rispetto ad una  vera maternità. Un’adulterazione dell’autentica genitorialità.   Da appuntare poi che nella fecondazione artificiale con utero in affitto se cade una tessera del domino, con buona probabilità altre cadranno. Il fenomeno naturale della  procreazione è ormai letto non più  con categorie antropologiche, bensì con quelle del libero mercato e  del diritto.
Quello che è accaduto alla giovane Hachey è un esempio significativo delle derive libertarie che  agitano sempre più le già non chete  acque della bioetica. Il centro di gravità morale non è più il bene oggettivo di tutte le persone coinvolte. Da  questa vicenda infatti esce malconcia  non solo la dignità dei gemelli, ma  anche quella della coppia che voleva il bambino e la stessa madre affittuaria. I gemelli sono la merce in  deposito, la madre surrogata interpreta volutamente il ruolo di incubatrice e la coppia inglese è l’acquirente del prodotto. Non più quindi  il bene personale, bensì gli interessi  delle persone coinvolte, espressione  che rimanda al mondo degli affari. E  in quel mondo chi ha più potere economico e contrattuale ha la meglio.   

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