12/05/2011 - IL CASO - Due testimoni di Geova - risarcite per le trasfusioni - Riconosciuto per la prima volta il mancato rispetto delle scelte religiose di ALBERTO GAINO, TORINO, http://www3.lastampa.it
Deve riconoscersi il danno non patrimoniale consistente nelle ripercussioni che il non voluto trattamento sanitario ha prodotto nella sfera personale, nella vita sociale e familiare, nella coscienza religliosa delle signore». Due testimoni di Geova si sottoposero ad intervento di isterectomia alla clinica Villa Maria Pia perché là operava il dottor Salvatore Martelli, segnalato dal Comitato di assistenza sanitaria dei Testimoni di Geova «quale medico rispettoso delle loro scelte religiose». Entrambe le donne espressero chiaramente la volontà di non essere sottoposte a trasfusioni di sangue, il dottore le rassicurò. Poi le cose andarono diversamente. Dopo la prima operazione, si ricorse ad una seconda per entrambe - le pazienti erano in pericolo di vita - e vennero trattate con ripetute emotrasfusioni. Il giudice civile Marco Ciccarelli ha condannato medico e casa di cura, chiamando in cause le rispettive assicurazioni, a pagar loro rispettivamente 36.870 e 38.960 euro. L’avvocato Renato Mattarelli, legale delle pazienti: «E’ la prima volta che in Italia si riconosce il danno per il mancato rispetto della libertà religiosa oltre che sanitaria».
Il caso - del gennaio 2005 - è complicato non solo perché investe principi oggi oggetto di furibonde dispute ideologiche: le due testimoni di Geova scelgono quel medico e quella casa di cura perché si sentono rassicurate, l’intervento di rimozione parziale e totale (per una delle due) dell’utero è tutt’altro che semplice, lo era ancora meno per quelle pazienti con «un’accentuata anemia evidenziata dalle analisi eseguite il giorno del ricovero». Il dottor Martelli non avrebbe dovuto escludere il ricorso a trasfusioni di sangue.
Il giudice evidenzia gravi negligenze commesse ai danni delle pazienti durante la prima operazione e dopo di fronte a «complicanze, manifestatesi in entrambe il mattino successivo». A seguito delle quali, vennero sottoposte a operazione di «revisione chirurgica» e a «emotrasfusioni clandestine», registra il magistrato. Mentre le signore, poco prima, pur coscienti di trovarsi in pericolo di vita, avevano ribadito il loro rifiuto. Il dottor Ciccarelli prende atto che c’era stato un accordo e che fu disatteso. E va oltre: «L’astratta esistenza di un diritto a rifiutare le cure è del tutto pacifica, trattandosi di un diritto costituzionalmente riconosciuto.... Ritiene questo giudice che non possano sussistere seri dubbi sul fatto che, al momento in cui vennero trasfuse, le signore non intendevano sottoporsi a un simile trattamento».
Medico e casa di cura hanno invocato lo stato di necessità (ricordano la telefonata ad un pm per essere autorizzati al trattamento sanitario obbligatorio). Il giudice osserva che «il pericolo di vita per le pazienti fu causato da un complesso di condotte del tutto volontarie che integrano il colposo inadempimento degli obblighi assunti». E ancora: «Al di fuori di taluni casi eccezionali, la necessità del consenso si evince dall’articolo 13 della Costituzione che sancisce l’inviolabilità della libertà personale...». In ogni caso, «il trattamento sanitario obbligatorio per legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», Costituzione alla mano.
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