«La risonanza misura l’amore» E chi l’ha detto?di Adriana Gini,
Avvenire, 10 maggio 2012
L’inizio degli anni ’90 rappresenta
una tappa decisiva per le neuroscienze: l’ingresso della risonanza magnetica
nucleare funzionale, con la quale è possibile studiare il funzionamento
"in vivo" del cervello, in modo assolutamente non invasivo,
utilizzando come "segnale" il flusso di sangue locale. Diviene
possibile costruire delle "mappe" di attivazione cerebrale, le cui
immagini colorate hanno trovato rapida diffusione anche nei nostri mezzi di
comunicazione. Nonostante gli alti costi e la necessità di super specialisti,
le indagini di fRMN sono in aumento: lo studio «in vivo» del cervello, infatti,
si è esteso anche a soggetti sani, con lo scopo di decifrarne i processi
mentali e i comportamenti. Tuttavia è bene dire che non esiste alcuna
dimostrazione scientifica dell’identità tra le funzioni cerebrali e quelle
mentali, così come non si può parlare di un rapporto di causaeffetto, piuttosto
di una «correlazione». Inoltre, si dimostra alquanto discutibile, perché
inesatta e fuorviante, la tesi secondo la quale la persona s’identificherebbe
col proprio cervello confondendo, il tutto con una sua parte. Così facendo si
cade, infatti, nella cosiddetta fallacia mereologica (da mereos,
"parte" e logos, "ragione", "studio",
"ricognizione", ecc.). Il cervello non pensa, impara, immagina,
risolve problemi, fa calcoli, sogna ricorda, ama o percepisce: la persona sì.
«Soltanto dell’uomo vivente, e di ciò che gli somiglia (che si comporta in modo
simile) si può dire che abbia sensazioni; che veda, che sia cieco, che sia
sordo, che sia in sé o che non sia cosciente» (Wittgenstein, Ricerche
filosofiche. § 281).
A dimostrazione della centralità che
oggi è attribuita al cervello, perfino nelle ricerche sull’amore umano, in un
recente studio della Siyracuse University (Stati Uniti) è sottolineata
l’importanza degli esami di neuro-immagine nello studio delle funzioni
cerebrali correlate alle relazioni interpersonali più intime. Lo scopo di tale
lavoro è stato quello di identificare le reti neurali associate all’amore
cosiddetto "passionale" e di confrontarle con quelle di altre forme
di espressione dell’amore umano. Lo studio ha evidenziato, tra l’altro, accanto
all’attivazione delle più tradizionali strutture sotto corticali, ritenute
essere la base neurobiologica del noto sistema di gratificazione, l’esistenza e
l’attivazione di reti neurali diverse e il ruolo esercitato da fattori di tipo cognitivo
sulle varie forme dell’amore. Per esempio, l’amore incondizionato, come quella
di una mamma per il suo bambino, sarebbe "provocato" da alcune comuni
aree corticali, incluse parti situate al centro del cervello. L’amore
"passionale, invece, sarebbe "acceso" dall’attivazione di
circuiti di gratificazione e dalle aree cognitive con funzioni di grado più elevato,
come quelle della rappresentazione dell’immagine corporea. In conclusione,
questo studio avrebbe dimostrato la fattibilità di un modello delle reti neurali
correlate alle emozioni che caratterizzano i differenti aspetti ed espressioni
dell’amore. Gli autori sostengono che un simile modello potrebbe favorire lo
sviluppo di approcci clinici utili nella terapia delle disfunzioni sessuali e
di coppia. Di questi e altri temi si discute da ieri e fino a domani al convegno
di Neuroetica in corso all’Università di Padova.
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