giovedì 10 maggio 2012


«La risonanza misura l’amore» E chi l’ha detto?di Adriana Gini, Avvenire, 10 maggio 2012

L’inizio degli anni ’90 rappresenta una tappa decisiva per le neuroscienze: l’ingresso della risonanza magnetica nucleare funzionale, con la quale è possibile studiare il funzionamento "in vivo" del cervello, in modo assolutamente non invasivo, utilizzando come "segnale" il flusso di sangue locale. Diviene possibile costruire delle "mappe" di attivazione cerebrale, le cui immagini colorate hanno trovato rapida diffusione anche nei nostri mezzi di comunicazione. Nonostante gli alti costi e la necessità di super specialisti, le indagini di fRMN sono in aumento: lo studio «in vivo» del cervello, infatti, si è esteso anche a soggetti sani, con lo scopo di decifrarne i processi mentali e i comportamenti. Tuttavia è bene dire che non esiste alcuna dimostrazione scientifica dell’identità tra le funzioni cerebrali e quelle mentali, così come non si può parlare di un rapporto di causaeffetto, piuttosto di una «correlazione». Inoltre, si dimostra alquanto discutibile, perché inesatta e fuorviante, la tesi secondo la quale la persona s’identificherebbe col proprio cervello confondendo, il tutto con una sua parte. Così facendo si cade, infatti, nella cosiddetta fallacia mereologica (da mereos, "parte" e logos, "ragione", "studio", "ricognizione", ecc.). Il cervello non pensa, impara, immagina, risolve problemi, fa calcoli, sogna ricorda, ama o percepisce: la persona sì. «Soltanto dell’uomo vivente, e di ciò che gli somiglia (che si comporta in modo simile) si può dire che abbia sensazioni; che veda, che sia cieco, che sia sordo, che sia in sé o che non sia cosciente» (Wittgenstein, Ricerche filosofiche. § 281).
A dimostrazione della centralità che oggi è attribuita al cervello, perfino nelle ricerche sull’amore umano, in un recente studio della Siyracuse University (Stati Uniti) è sottolineata l’importanza degli esami di neuro-immagine nello studio delle funzioni cerebrali correlate alle relazioni interpersonali più intime. Lo scopo di tale lavoro è stato quello di identificare le reti neurali associate all’amore cosiddetto "passionale" e di confrontarle con quelle di altre forme di espressione dell’amore umano. Lo studio ha evidenziato, tra l’altro, accanto all’attivazione delle più tradizionali strutture sotto corticali, ritenute essere la base neurobiologica del noto sistema di gratificazione, l’esistenza e l’attivazione di reti neurali diverse e il ruolo esercitato da fattori di tipo cognitivo sulle varie forme dell’amore. Per esempio, l’amore incondizionato, come quella di una mamma per il suo bambino, sarebbe "provocato" da alcune comuni aree corticali, incluse parti situate al centro del cervello. L’amore "passionale, invece, sarebbe "acceso" dall’attivazione di circuiti di gratificazione e dalle aree cognitive con funzioni di grado più elevato, come quelle della rappresentazione dell’immagine corporea. In conclusione, questo studio avrebbe dimostrato la fattibilità di un modello delle reti neurali correlate alle emozioni che caratterizzano i differenti aspetti ed espressioni dell’amore. Gli autori sostengono che un simile modello potrebbe favorire lo sviluppo di approcci clinici utili nella terapia delle disfunzioni sessuali e di coppia. Di questi e altri temi si discute da ieri e fino a domani al convegno di Neuroetica in corso all’Università di Padova. 

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