Maternità surrogate, chi pensa alle donne? - La moda lanciata da vip come Elton John, Nicole Kidman e Miguel Bosè consiste nell’usare pance in affitto, ma nessuno reagisce. Non è schiavismo: è peggio - di Costanza Miriano Avvenire, 5 maggio 2011
Le sto ancora aspettando. Adesso arriveranno, mi dico. Sicuramente le faranno. Senza dubbio le femministe organizzeranno delle manifestazioni di piazza contro l’uso del corpo delle donne. I giornali leveranno gli scudi, gli editorialisti faranno sentire le loro voci indignate e piene di compassione, contro questa cattiveria che si fa alle donne. No, non a quelle fotografate in pose discinte per vendere qualcosa, che non è niente in confronto. E neanche a quelle che si vendono al piacere degli uomini.
Mi riferisco all’uso più spietato e crudele che si possa fare del corpo di una donna: usarne una, massicciamente bombardata di ormoni, per produrre ovuli da abbandonare a qualcuno in giro per il mondo; poi un’altra per crescere un essere umano grande quanto uno spillo fino a che diventi in grado di farcela da solo; poi, infine, metterla da parte, impedendole perfino di toccarlo, quel bambino strappato alle sue viscere.
Di donne che scendono in piazza per questo motivo, però, non se ne vedono. Di giornali sbigottiti non se ne leggono. E la cosa è talmente crudele e impensabile che diventa ineffabile.
Non si trovano le parole per dirlo. Madre surrogata. Utero in affitto. Parole tirate per i capelli, per dire una realtà che non è umana.
È vero, si tratta di una donna che è stata consenziente, diranno i sostenitori di queste magnifiche sorti e progressive del genere umano, sempre più emancipato dai suoi limiti di creatura. È stata consenziente almeno al momento della firma del contratto, diranno. Ma, mi chiedo: quale necessità aveva (girano cifre a parecchi zeri)? E soprattutto, si rendeva conto a cosa sarebbe andata incontro?
Lui non si tratta di schiavismo, è molto peggio. È servirsi del bisogno economico di qualcuno non per svolgere un lavoro, perché portare un bambino non è come portare uno zaino sulle spalle, ma per vendere una parte di sé, e la più preziosa. La capacità di trasmettere la vita.
Sapeva, quella donna che ha firmato il contratto che la sua carne si sarebbe fusa con quella carne? Sapeva che il suo sangue avrebbe alimentato un uomo? Sapeva che la sua voce e il suo battito lo avrebbero cullato per nove mesi? Sapeva che il suo corpo poi abbandonato, devastato, non si sarebbe mai più ripreso? Si ricordava che l’utero non è un sacchetto ma è parte integrante di una persona vera, unita alla mente, al cuore, allo spirito? Sono sicura, voglio credere, che non sapeva che poi quel «prodotto del concepimento» (sic!) non lo avrebbe potuto stringere, annusare, attaccare al seno. Che glielo avrebbero preso prima che potesse calmare il primo impaurito vagito.
All’improvviso, separati. Divisi per sempre. Questo prevedono di solito i contratti.
Se questo non porti a impazzire, mi domando cosa. E mi stupisco che non sia già successo più volte davvero, magari senza che la notizia finisca in pagina. Già, perché i giornali sono tutti impegnati a celebrare i padri o le madri che hanno coronato i loro sogni pur essendo omosessuali come Ricky Martin, Miguel Bosé ed Elton John, o troppo avanti con gli anni come Nicole Kidman o Sarah Jessica Parker, o per chissà quali motivi, come Robert De Niro o Dennis Quaid.
Nessuno qui condanna il desiderio di maternità o paternità, ci mancherebbe. Ma i figli non sono un diritto, sono un dono. E se la scienza ci può aiutare è chiaro che deve avere dei limiti. I figli devono avere un solo padre e una sola madre, e dover dimostrare la cosa è talmente ridicolo che davvero sembra siano arrivati i tempi – direbbe Chesterton – in cui «tutto diventerà un credo... fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate»...
Un ultimo pensiero – intanto che aspettiamo che le femministe organizzino le manifestazioni per la difesa della donna – va al bambino.
Chissà cosa lascerà nella sua mente, nel suo sangue, negli angoli più reconditi di sé un rapporto così intenso e totale interrotto per sempre. E mentre da un lato i reparti maternità più evoluti si attrezzano per non spezzare la sacra diade mamma-bambino sin dai primi giorni (quando, credetemi, una mamma stremata dal parto la interromperebbe anche, almeno per qualche oretta, la sacra diade), sullo stesso pianeta si permette qualcosa di così paurosamente non umano.
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