giovedì 5 maggio 2011

«Su di me sono sovrano». Sicuro? - I bioeticisti della scuola dell’individualismo assoluto rivendicano in un recente libro curato da Demetrio Neri il principio di autonomia come base di ogni scelta. Ma c’è anche chi prende le distanze e lascia discrezionalità al medicoDi Maurizio Soldini – Avvenire, 5 maggio 2011

Nel volume a cura di Demetrio Neri pubblicato alla fine del 2010 per la casa editrice Le Lettere, «Autodeterminazione e testamento biologico» sono raccolti nove interventi e tre testimonianze presentati in un convegno tenutosi a Roma un anno fa dal titolo «Perché l’autodeterminazione valga tutta la vita e anche dopo», che fa da sottotitolo al testo collettaneo. Il sottotitolo del libro è programmatico e come dice Neri nel suo intervento introduttivo il testo dovrebbe aiutare a riflettere sul testamento biologico oltre a fare da introduzione storico-teorica sulla problematica tra le più controverse in bioetica, ma soprattutto dovrebbe servire a criticare la legge allora (come ora) in discussione al Parlamento sulle Direttive anticipate di trattamento.
Secondo Neri, la filosofia stessa che ispira la legge dovrebbe tenere maggiormente in considerazione «il diritto di autodeterminarsi nei confronti dei trattamenti sanitari… fondato sulla libertà personale». Anche Eugenio Lecaldano argomenta sulle Dat cercando di trovare un fondamento offerto dalla sovranità sul proprio corpo come costitutiva della responsabilità morale ispirata a John Stuart Mill, il quale afferma l’indipendenza assoluta dell’individuo: «Su se stesso, sul proprio corpo e sulla propria mente, l’individuo è sovrano».
Come Neri e Lecaldano, esponenti della «bioetica laica», ma che meglio mi piace identificare come esponenti della scuola di pensiero dell’«individualismo metodologico», ispirata al caposcuola Uberto Scarpelli, un altro autorevole esponente, Maurizio Mori, osserva che «il consenso informato è l’analogo del diritto di voto: come col voto il cittadino afferma la sovranità sulla vita politica, così col consenso informato il paziente la afferma sulla vita biologica.
Se vale l’analogia proposta, allora il testamento biologico come allargamento del consenso informato è un’importante conquista di sovranità».
Nella posizione dei bioeticisti sopra menzionati c’è, a mio modo di vedere, al di là di una prospettiva morale, che inchioda i problemi su una dimensione legalistica, in un gioco di diritti-doveri che valgono solo prima facie, una deriva che tende a semplificare e a matematizzare secondo principi (e secondo il principio di sovranità o meglio di autonomia) una dimensione come quella della bioetica, che non è né semplificabile né riducibile a qualche principio, ma che necessita di una fondazione antropologica che si faccia carico della delicatezza dei problemi. A questo scopo ci pare molto più adeguata la riflessione di Stefano Semplici, che in qualche modo mette in discussione l’assolutezza dell’autodeterminazione. Semplici evidenzia da subito come «il problema non sia l’autonomia, ma il suo limite».
Se è vero, come è vero, come sostiene Semplici, che «il diritto a rifiutare un trattamento, garantito dall’articolo 32 della nostra Costituzione, non può ovviamente essere messo in discussione», tenendo ben fermo che esiste un «dovere di garanzia» in capo al medico, come ha stabilito il Comitato nazionale per la bioetica, essendoci «la necessità che la formale acquisizione del consenso non si risolva in uno sbrigativo adempimento burocratico, ma sia preceduta da un’adeguata fase di comunicazione e interazione fra il soggetto in grado di fornire le informazioni necessarie (il medico) e il soggetto chiamato a compiere la scelta (il paziente)», si viene a porre il vero e proprio problema che è al centro delle Dat, ovvero «il rispetto dell’autonomia del paziente» quando «il consenso a un trattamento o il suo rifiuto non è e non può essere attuale, ma è differito o, come spesso si preferisce dire, espresso "ora per allora"». In questo spazio problematico per il filosofo romano c’è la possibilità di un ragionevole accordo. Ma ci sono dei limiti entro i quali la legge può chiedere a un medico se rispettare la volontà del paziente invece di stare nella propria integrità professionale, qualora la volontà non sia attuale ma affidata alle Dat. Semplici afferma in modo lapidario: «La distanza fra il momento della decisione e quello della situazione concretamente vissuta introduce un elemento di oggettiva difficoltà sul piano della "consapevolezza" e dunque della "effettività" della volontà, che non possono che risultare attenuate quando ci si esprime su una possibilità semplicemente immaginata».
In qualunque modo l’interessato mai potrà esprimersi sulla effettività dei fatti. Ecco perché Semplici, che ci pare inquadrarsi in una dimensione prudenziale propria dell’etica delle virtù, conclude dicendo che «mancando il requisito dell’attualità della volontà e dunque la possibilità di realizzare tutte le condizioni richieste per la piena efficacia del consenso o del rifiuto informato, è ragionevole immaginare che possa essere lasciato al medico … un margine di discrezionalità nella valutazione di tale limite». La coscienza del malato viene prima, ma non è e non può essere sola, soprattutto quando non può esprimersi qui ed ora. Per questo la decisione «spetterà in ultima analisi …alle persone qualificate per parlare a nome suo o ai medici». Chiamare in causa il medico alla fine della vita e ristabilire il valore dell’alleanza terapeutica a dispetto dell’assolutizzazione del principio di autodeterminazione voluto dall’individualismo metodologico mi pare la strada maestra per arrivare alla legge sulle Dat.

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