Quando gli scienziati di bioetica si arrendono alla propria malattia di
Giuseppe Remuzzi, 11 Maggio 2012, Corriere della Sera
Malignant è scritto da professori
di bioetica che negli Stati Uniti vanno per la maggiore: Norman Fost, per
esempio, ma anche Leon Kass, John Robertson, Daniel Brock e Rebecca Dresser.
Non è un libro come tanti altri. Di speciale Malignant (con un sottotitolo che
lascia poco all’immaginazione Medical Ethicists Confront Cancer, come dire
«Quando i bioetici fanno i conti col cancro») ha proprio questo. Quei bioetici
adesso stanno «dall’altra parte », si sono ammalati di cancro. Hanno avuto la
flebo della chemioterapia in una vena del braccio, o un sondino nel naso che
arriva fino allo stomaco per poter bere e alimentarsi. È a loro, adesso, che
qualcuno chiede se vogliono partecipare a uno studio con un farmaco nuovo che
costa moltissimo ma non si sa ancora bene se serve davvero. La bioetica è fatta
di teorie forse giuste forse sbagliate, chi lo sa? (non le si possono
dimostrare) ma per chi ha dedicato la vita ad indicare agli altri come si
affrontano questi problemi dovrebbe essere più facile sapere cosa fare se ci si
ammala. Invece no. O per lo meno non per i professori di bioetica che hanno
scritto Malignant. Al punto che invece di elaborare sui loro principi, nel
libro raccontano di quello che gli è capitato che è poi quello che capita a
tutti. Dell’angoscia di quando vieni a sapere di essere malato e di quando hai
paura delle cure, e poi la speranza che torni tutto come prima e lo sconforto.
E l’esperienza indimenticabile con quell’infermiera o con quel medico certe
volte, e le miserie degli ospedali. Quasi non c’è traccia nel libro delle idee
che venivano presentate ai convegni quando gli stessi autori dissertavano su
cosa si dovrebbe fare per aiutare gli ammalati di cancro e dell’opportunità di
continuare ad alimentare e idratare chi è in coma senza coscienza di sé e
dell’ambiente e senza più speranze. Quando hai una figlia malata di cancro e
costretta a letto per mesi e poi in preda ad una lenta agonia, ha scritto uno
di quei professori, ti accorgi che la bioetica non ti aiuta più di quanto non
possa aiutare un cuoco o un pilota di aereo. Rebecca Dresser insegna alla
Washington University, ha avuto il cancro, le hanno chiesto di partecipare a
uno studio con farmaci sperimentali costosissimi, che quando va bene allungano
la vita di qualche settimana. Lei aveva un sacco di dubbi, «rischio troppo
alto», ma i suoi familiari volevano che provasse tutto sperando in un miracolo.
E l’etica? Il racconto che ti prende di più è quello di John Robertson
dell’Università del Texas, scrive della disperazione di quando vieni a sapere
che tua moglie ha un cancro, inoperabile, lei morirà, è questione dimesi. I
problemi adesso sono quelli del rapporto fra chi è malato e i suoi medici che
si sovrappongono a quelli con il partner, e con i figli e gli amici. E l’etica?
John si accorge di colpo che non si è malati da soli e che quello che succede
dipende anche dall’amore, dai legami, dai ricordi. Leon Kass è famoso per
essere contro l’eutanasia, insegna a Chicago, nel suo saggio è disarmante: «Mi
sono chiesto —scrive—cosa può fare la bioetica per aiutare gli ammalati, volevo
sapere come si fa a morire bene e cosa c’è dopo. Le risposte, ammesso di
trovarle, forse vengono dagli studi classici, dalla letteratura o forse chissà
dall’antropologia o dalla teologia o magari dall’arte, o forse da tutte queste
cose insieme, non certo dalla bioetica». Arthur Caplan nel commentare Malignant
su Lancet finisce così: «Le armi che hanno i bioetici servono a poco contro un
nemico vero. E a nulla quando ti rendi conto che quel nemico ce l’ha proprio
con te».
Nessun commento:
Posta un commento