mercoledì 20 febbraio 2013


A proposito del suicidio assistito - La compassione autentica sceglie la vita - Pubblichiamo un intervento del gran rabbino di Francia accessibile sul suo sito (www.grandrabbindefrance.com) – di GILLES BERNHEIM, Osservatore Romano, 20 febbraio 2013 

Il rapporto presentato il 18 dicembre dal professor Sicard al presidente della Repubblica propone la “sedazione terminale” da parte dei medici e apre la via al dibattito sul suicidio assistito. A seguito della richiesta fatta dall’Eliseo al Comitato nazionale consultivo di etica, un progetto di legge sarà sottoposto al Parlamento nel giugno 2013. È un’occasione per riflettere qui sul nostro rapporto con la morte e con i morenti e per formulare i primi termini di un dibattito sulla fine della vita. Da sempre l’uomo si è dovuto confrontare con il mistero della morte. Forse oggi come non mai si è sentito disorientato da questo dato peraltro fondamentale della sua condizione. Molteplici progressi hanno permesso di prevenire o di curare malattie un tempo fatali. Nello stesso tempo, i cambiamenti socio-culturali e gli imperativi di una medicina tecnicizzata hanno fatto sì che la morte abbia generalmente smesso di essere un evento sociale, ritualizzato, integrato nella vita delle famiglie e delle comunità umane. Questa perdita dell’esperienza di prossimità, persino di familiarità con la morte, è una delle cause di una banalizzazione della vita che perde di serietà e di profondità e che contribuisce a rafforzare in ognuno l’angoscia riguardo alla propria fine. Si arriva a pensare che un abbreviazione di questa fase dell’esistenza, una morte accelerata procurata dalla mano stessa di quanti hanno come compito quello di curare, sarebbe a volte preferibile, sarebbe addirittura un gesto di umanità. Si sta diffondendo la convinzione e si sta affermando con sempre maggiore insistenza che sarebbe auspicabile dare la morte ai malati incurabili che dichiarano di non sopportare più le proprie sofferenze o la degradazione del proprio stato. Bisogna però fare alcune osservazioni poiché la percezione dell’evidenza fondata sull’emozione rischia sempre di essere ingannevole. Il fatto di potere dare la morte direttamente, anche se a chiederlo è il paziente, rischia di distruggere la fiducia indispensabile nei rapporti del malato e della sua famiglia con l’èquipe che lo ha in cura. Delegare questo ruolo al corpo medico conferirebbe a quest’ultimo un potere esorbitante nella società. La “morte dolce” concessa ad alcuni potrebbe divenire fonte di un’angoscia insostenibile per molti malati. Si cerca di legittimare l’eutanasia presentandola come una richiesta di colui che soffre. Certo, quest’ultimo deve essere ascoltato. È fondamentale percepire meglio la sua sofferenza, la sua disperazione, il suo sentimento di decadenza per confortarlo meglio, per testimoniargli l’affetto che si prova nei suoi confronti, rimettendolo così in contatto con il mondo dei vivi. Come molti sottolineano, le richieste di eutanasia sono in maggior parte interrogativi sulla stima degli altri, richieste di amore. La società risponderà con un gesto di morte? La morte provocata non rappresenta però un atto di pietà? Noi siamo stati testimoni della prova e degli interrogativi angosciati delle famiglie e del personale sanitario, e sappiamo che essi possono suscitare il desiderio di accorciare la sofferenza di un morente. Le situazioni estreme vengono ampiamente sfruttate nelle campagne di opinione. La pietà è un sentimento molto profondo che testimonia la sensibilità verso la sofferenza altrui; ma può assumere diverse forme. Quella passiva si lascia invadere da quella sofferenza, la fa propria, ne è ossessionata. Quella attiva diviene compassione, ricerca la comunicazione con il morente, affrontando il rischio di soffrire essa stessa maggiormente di questa vicinanza. Alcuni si lasciano sconvolgere dal cambiamento dell’altro che rovina la sua vecchia immagine. Colui o colei che ha compassione postula, cerca e percepisce, quali che siano le apparenze, la dignità, o persino la grandezza, di colui o colei che resta un fratello o una sorella in umanità. L’emozione viscerale fa dire che l’esistenza di quel malato non è più umana. Colui o colei che s’innalza fino alla compassione riconosce l’umanità persino sotto forme ripugnanti. La pietà che dispera del valore della vita altrui, della sua sacralità, può diventare omicida per sbarazzarsi, tra le altre cose, della propria sofferenza. La pietà compassionevole invece cerca umilmente di amare. Siamo consapevoli che il compito è molto difficile perché è l’esatto contrario delle tendenze di una società come la nostra. La presenza attenta accanto a chi sta per andarsene è un’esperienza che mette a dura p ro v a . Quanti hanno saputo superare le proprie paure e rendersi così disponibili, riconoscono però di aver ricevuto più di quanto hanno dato. Quanti lo hanno fatto hanno realizzato una delle forme più alte della fraternità umana. Quanti hanno saputo dimostrare una vera compassione verso coloro che stavano per lasciare questo mondo nel dolore e sotto le sembianze della decadenza hanno risposto alla parola della Torah: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita» (D e u t e ro n o m i o ,  30, 19). Si è parlato qui più delle motivazioni delle persone sane che delle sofferenze di quelle malate. Ma sono le persone sane che legiferano e che, domani forse, disporranno della vita di quelle malate. 

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