Eppure al cervello «non si comanda»... 22 febbraio 2013 - http://www.avvenire.it
Si dice che abbia coniato l’espressione «neuroscienze cognitive» durante un trasferimento in taxi a New York negli anni 70. E oggi quel termine denomina un campo di studi straordinariamente fecondo, che procede a una velocità quasi sconcertante nello svelare le basi materiali di comportamenti e stati soggettivi.
Tanto da fare intravedere una (temuta) rivoluzione antropologica. Ma Michael Gazzaniga, che a 73 anni dirige il Sage center per lo studio della mente all’università della California a Santa Barbara, non pensa che i neuroscienziati possano spiegare tutto. Gli studi sui cervelli divisi (in seguito a rari interventi chirurgici), per cui ha ottenuto fama mondiale, indicano che il nostro emisfero sinistro, dove ha sede il cosiddetto "interprete", cerca di dare a posteriori ricostruzioni razionali e coerenti delle nostre azioni anche quando esse sono casuali, sconnesse o guidate da altri criteri. Ma queste straordinarie osservazioni sull’automaticità e il funzionamento al di fuori del controllo cosciente del cervello non gli impediscono di considerare il libero arbitrio come qualcosa che va al di là della semplice attivazione dei nostri neuroni. E ha cercato di esporre ciò in un libro già assai discusso che esce in questi giorni in Italia: Chi comanda? Scienza, mente e libero arbitrio (traduzione di Silvia Inglese, Codice Edizioni, pp. 272, euro 15,90).
Professor Gazzaniga, una premessa al suo resoconto sulla libertà è che il cervello risulta essere una collezione di moduli senza comandante centrale. Che cosa significa?
«Sappiamo che l’informazione nel cervello è ampiamente distribuita e che continuamente vengono prese decisioni in tutte le sue aree. Si pensi all’analogia con un classico orologio meccanico: tutte le parti interagiscono per farlo funzionare, non c’è una parte che comanda o coordina le altre».
La mente, nella sua spiegazione, emerge dal cervello. Come avviene?
«Emerge nel senso che le proprietà di ordine superiore sorgono dal raccordo di parti di livello inferiore. Come diceva il mio maestro Roger Sperry, "una molecola è per certi versi la guida dei suoi atomi interni. Essi sono trascinati e vincolati dalle interazioni chimiche dettate dalle proprietà generali di configurazione dell’intera molecola"».
La sua tesi è che non c’è nessuno al comando. Perché allora sembriamo ossessionati dall’idea di trovare chi è responsabile di qualsiasi cosa? Anche dal punto di vista evolutivo appare un mistero.
«L’interprete nel cervello sinistro ricostruisce continuamente il significato delle nostre azioni; crea la narrazione personale di chi pensiamo di essere e del motivo per cui ci accadono le cose. L’interprete è anche il meccanismo che ci fa sembrare di essere al comando. Ora, i progressi degli ultimi cent’anni ci hanno mostrato gli automatismi del cervello. E ciò ha creato un conflitto tra ciò che sentiamo e ciò che sappiamo e sapremo sul modo in cui funziona il cervello. La vera sfida è una reale comprensione di tutto questo».
Veniamo alla libertà umana. Lei sembra assumere una posizione deflazionistica: il libero arbitrio non è quello che hanno sempre studiato i filosofi, bisogna cambiare definizione.
«Ho un grandissimo rispetto per quello che i filosofi hanno detto sul libero arbitrio. Sarebbe assurdo rigettare d’un colpo tutta la riflessione svolta fino a oggi. Voglio semplicemente sostenere che, se ci si concentra sul modo in cui chiunque o qualunque cosa prende una decisione finalizzata all’azione, l’idea classica di libertà si complica. Ad esempio, i robot stanno diventando sempre più sofisticati, tanto che qualcuno sembra quasi umano. Ma, pensando a come riescono a fare quello che fanno, si potrà davvero chiedere: "Quando impianteremo nei loro cervelli elettronici il modulo del libero arbitrio?". Oggi cominciamo a capire qualcosa di come funzionano gli esseri umani, molto più sapremo negli anni e nei secoli a venire. La classica domanda "siamo liberi?" sembra sempre più mal posta, se non insensata».
Liberi o meno, lei sostiene che la responsabilità sia un concetto sociale, una decisione convenzionale. Ciò non confligge con una visione deterministica che la scienza contemporanea sostiene comunemente?
«Direi semplicemente che essere liberi significa essere informati in modo tale da pensare a molte possibili risposte a una particolare circostanza. Più si è informati e istruiti, maggiore è la gamma delle risposte tra cui si può scegliere. Questa è ciò che chiamo "libertà"».
Che ruolo dovrebbe avere allora la pena in una società che adotti la sua visione di libertà e responsabilità?
«Non un grande ruolo, in realtà. Di solito è abbastanza facile stabilire chi ha commesso materialmente un delitto. Ma ciò che vogliamo, come società, è ben altro. Vogliamo punire il criminale? Lo vogliamo isolare? Lo vogliamo curare? Sono domande molto impegnative e società diverse hanno risposte differenti».
A fine libro, lei scrive: «Ho provato a sostenere che una maggiore comprensione scientifica della vita, della mente e del cervello non distrugge quei valori che ci sono cari. Siamo persone, non cervelli». Come va interpretata questa (sorprendente) affermazione?
«Persone significa più che un singolo essere umano. Quando vi è più di una persona nel mondo, allora c’è una rete che cresce mano mano che aumentano le persone. E ciò che entra nella rete porta cose reali. Tutti devono essere considerati responsabili delle proprie azioni. Se ciascun elemento non è tenuto responsabile, la rete collassa. È a livello sociale che emerge la responsabilità: nessuna conoscenza del funzionamento del cervello, per quanto approfondita, può cambiare questa conclusione. È a livello sociale che risiede la responsabilità, con buona pace delle neuroscienze».
Non siamo allora destinati a vivere in una «neuro-cultura», in cui sarà anche spiegato il «mistero uomo»?
«Credo in una visione "stratificata" della natura. Vi sono molti livelli, ciascuno deputato a una funzione, che prepara il terreno per il livello successivo. Ogni strato è un’astrazione di quello sottostante. Il livello mentale, che nasce dal cervello, rappresenta astrazioni che sarebbe difficile spiegare in termini neuronali. Allo strato mentale va poi aggiunto quello della cultura in cui siamo immersi. Le neuroscienze devono quindi capire i propri limiti e il livello a cui si muovono con la propria spiegazione».
Andrea Lavazza
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