giovedì 16 dicembre 2010

Chi ferma il business delle madri in affitto? - Seme italiano, ovulo rumeno, utero indiano, clinica greca... Il «Wall Street Journal» scopre il fenomeno commerciale della «maternità surrogata» che muoverebbe 2 miliardi di dollari. Una pratica di sfruttamento, che l’India pensa finalmente di impedire - contromano di Lorenzo Schoepflin – Avvenire, 16 dicembre 2010

«Global babies », bambini globali, li ha appena ribattezzati il Wall Street Journal . Sono quei bambini concepiti con gameti non appartenenti alla coppia che li ha 'commissionati' e che magari hanno passato i primi nove mesi della loro vita in un utero in affitto.

«Globali» perché donazione di sperma e ovuli e maternità surrogata sono fenomeni che vanno aldilà dei confini nazionali: seme italiano, ovulo rumeno, utero indiano, clinica greca è solo una delle infinite combinazioni messe a disposizione dal menù dei bebè su misura.

La dimensione extraterritoriale di questo tipo di pratiche apre le porte a una totale deregolamentazione, che si associa spesso a un vero e proprio business giocato soprattutto sulla pelle delle donne. Tutti aspetti che recentemente hanno spinto alcuni Stati a imporre un giro di vite in particolar modo in relazione alla maternità surrogata. «È un commercio giusto?» si chiedeva il Times nel maggio scorso, interrogandosi sulla «fabbrica internazionale dei bambini» indiana. Oggi cominciano a arrivare le prime risposte in senso negativo. Nel Nuovo Galles del Sud, uno Stato australiano, sono state introdotte leggi che vietano alle coppie residenti di accedere a servizi di maternità surrogata all’estero: «Se non consentiamo di affittare uteri sul nostro territorio, perché dovrebbe essere possibile altrove?», ha dichiarato il ministro Linda Burney, che si è dichiarata convinta che i bimbi abbiano il diritto di sapere «chi sono e da dove vengono» dicendosi preoccupata dello sfruttamento che subiscono le donne del terzo mondo.


Un problema – lo sfruttamento delle madri surrogate – che sta suscitando più di un allarme in India, forse il Paese dove il fenomeno degli uteri in affitto raggiunge le dimensioni più grandi. A luglio il quotidiano inglese Guardian parlava di un potenziale giro di affari annuale che si sarebbe attestato, dal 2012, intorno a cifre superiori ai due miliardi di dollari. Un vero e proprio business fuori controllo, tale da suggerire alle autorità indiane di valutare una possibile stretta regolamentare della legge che permette alle donne indiane di concedere il proprio utero 'in affitto' per gravidanze di bebè concepiti in provetta nei Paesi più ricchi.
Che una disciplina più severa sia necessaria è reso evidente da un articolo apparso quest’anno sul Journal of Women in Culture and Society, edito dall’Università di Chicago. Nel contributo, a firma della sociologa dell’Università di Cape Town Amrita Pande, si descrivono le tecniche di reclutamento delle madri surrogate. I dettagli sono davvero inquietanti e mostrano come spesso si faccia leva sulla povertà e sul disagio. Coloro che cercano donne disposte ad affittare il proprio utero, ad esempio, trovano terreno fertile nelle cliniche dove si praticano aborti, scegliendo tra quelle madri che dichiarano di interrompere la gravidanza per motivi economici. In alternativa, la scelta di potenziali madri surrogate avviene tra quelle donne appartenenti alle classi più povere e che temono di non riuscire a pagare la dote per garantire il matrimonio alle proprie figlie adolescenti.

La Pande ha anche mostrato come l’intento ultimo sia quello di creare vere e proprie 'impiegate' nel settore, non più spinte dalla disperazione ma dalla libera volontà di trasformare in lavoro la concessione dell’utero per gravidanze altrui. Frequentemente viene usato il paragone con la prostituzione, cercando di convincere le donne che affittare il pancione è un comportamento più morale, sicuro, e con un ritorno economico maggiore. Un vero e proprio modello commerciale che, viste le dimensioni globali del fenomeno, potrebbe uscire dai confini indiani ed estendersi dove esistono condizioni socio-economiche disagiate.

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