giovedì 16 dicembre 2010

www.avvenireonline.it\vita - «Stati vegetativi: possiamo iniziare a curarli» - Un risveglio dopo cinque anni di silenzio, grazie a un nuovo metodo terapeutico Ecco cos’è successo al San Camillo di Venezia nel racconto del direttore scientifico «Sono pazienti, e un medico deve pensare a una cura» di Viviana Daloiso – Avvenire, 16 dicembre 2010

La medicina non è sempre una scienza esatta. «A volte due più due fa quattro, ma tante altre fa cinque, o tre». E a volte un paziente in stato di presunta incoscienza da anni può rispondere a un ordine, e sollevare un bicchiere. Il professor Leontino Battistin, direttore della Clinica neurologica dell’Università di Padova e direttore scientifico dell’Ircss Ospedale San Camillo di Venezia, lo sa bene. E ripete il motto ai suoi allievi, a una settimana dalla pubblicazione della sua rivoluzionaria ricerca sui pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza in una delle riviste internazionali più autorevoli del pianeta, Neurorehabilitation and Neural Repair, organo ufficiale della Federazione mondiale di neuroriabilitazione.

Professore, cosa è successo in una clinica di Venezia fino a ieri sconosciuta alle cronache internazionali?

Due anni fa circa è arrivato un paziente di 70 anni, da cinque in stato di minima coscienza in seguito a un’emorragia cerebrale gravissima. Mi spiego subito: il paziente dimostrava un grado minimo di responsività agli stimoli, ma mai finalizzata. Se, cioè, muovevo un dito davanti ai suoi occhi, lui poteva anche seguirlo, ma se gli chiedevo esplicitamente di farlo, non rispondeva alla mia richiesta: movimenti e reazioni cioè, seppur conservati, erano del tutto casuali.

E poi?

Da tempo avevamo sentito parlare degli esperimenti condotti con la cosiddetta 'Dbs', la stimolazione cerebrale profonda, su questi pazienti: si tratta di impiantare, attraverso un intervento chirurgico, elettrodi in alcune parti del cervello, per poi stimolare il paziente con scariche elettriche. Un intervento invasivo, che aveva dato qualche risultato. La nostra idea è stata quella di stimolare questo paziente ma con una metodica affatto invasiva: la 'Tms', cioè la stimolazione cerebrale transcranica.

Di cosa si tratta?

Di un casco, una sorta di sonda dotata di elettrodi che, una volta sistemata sopra la testa del paziente, viene 'accesa', trasmettendo al suo cervello onde elettromagnetiche. Quando l’abbiamo utilizzata sul nostro paziente settantenne – ovviamente previo consenso dei familiari e del Comitato etico della clinica – abbiamo assistito a un evento del tutto inaspettato: il suo cervello si è letteralmente riattivato, permettendogli addirittura di comprendere ed eseguire un ordine che gli abbiamo impartito.

Quale?

Gli ho chiesto, a voce, di allungare il braccio lungo la sponda del letto, prendere un bicchiere, sollevarlo, portarlo alla bocca e poi riconsegnarmelo. Ha continuato a compiere questo gesto, quando glielo chiedevo, per sei ore dopo la stimolazione.

Che cosa significa, in termini scientifici?

Si tratta di una svolta, senza dubbio. È il primo caso documentato nella storia della medicina: non era mai stato segnalato, cioè, che un paziente in queste condizioni, stimolato con la Tms, desse risposte di questo tipo. Oggi si può rivedere daccapo l’approccio agli stati vegetativi e di minima coscienza, partendo dal presupposto che possano non solo essere osservati, come si fa con altri macchinari all’avanguardia, ma anche curati.

Sta dicendo che è il primo passo di un possibile approc­cio terapeutico?

Esattamente, ma lo sto dicendo anche con estrema prudenza.

Dopo questa scoperta, infatti, abbiamo allargato la nostra ricerca e ora, in collaborazione con la Fondazione Opera dell’Immacolata Concezione di Padova, stiamo lavorando con una ventina di altri pazienti: sono per lo più in stato vegetativo, e sono anche più giovani del nostro 'paziente zero'.

Che cosa sperate di dimostrare?

Che non è stato un caso singolo, innanzitutto. Che le stesse risposte sono riscontrabili in ogni stato di disturbo di coscienza, anche quello vegetativo. E che se questo approccio ha avuto un esito così positivo su un paziente di 70 anni, con ogni probabilità potrebbe avere grande successo su quelli più giovani.

Quando avremo queste risposte?

Speriamo entro un anno.

Questi pazienti, dunque, non sono 'quasi morti', non sono 'spacciati'...

Sono pazienti, e come per tutti i pazienti davanti agli occhi di un medico, meritano che si faccia il loro bene. Che si faccia di tutto per curarli. Da questo punto di vista, il campo della neuroriabilitazione – che è quello di cui mi occupo – ha fatto passi da gigante negli ultimi anni, ma si muove ancora a tentoni.

Siamo al lavoro per scoprire come intervenire e curare il cervello umano, con la certezza che si può fare. Ogni giorno io ricomincio da qui.

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