giovedì 31 marzo 2011

«Il diritto alla vita fonda il nostro ordinamento» - C’è un presupposto sul quale si reggono tutti i diritti, compreso quello alla salute: è il «favor vitae» che ispira la Costituzione e l’intera struttura giuridica del nostro Paese Lo ricorda Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, che sottolinea come «il consenso informato non è una dichiarazione di sovranità assoluta del paziente rispetto alle competenze del medico» di Ilaria Nava – Avvenire, 31 marzo 2011

E’ il consenso informato il cuore della proposta di legge su «Dichiarazioni anticipate di trattamento, consenso informato e alleanza terapeutica» che tornerà in aula alla Camera a fine aprile per il voto finale. Ne è convinto Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale.

Partiamo dai princìpi del nostro ordinamento. È vero che a fonda­mento di essi c’è il «favor vitae»?

E di cosa si tratta?

«Nel nostro ordinamento esiste un diritto alla vita garantito dalla Costituzione e che costituisce il presupposto rispetto a tutti gli altri diritti, compreso quello alla salute.

Il diritto alla vita è tutelato anche da convenzioni internazionali, come la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; lì il diritto alla vita è posto a fondamento dei diritti umani.

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proteggendo il diritto all’integrità fisica e psichica, protegge in sostanza il diritto alla vita.

Qual è la corretta interpretazione dell’articolo 32 della Costituzio­ne, che riguarda il diritto alla sa­lute?

La salute, intesa come condizione di benessere fisico e psichico, è considerata un bene dell’individuo e della collettività, La seconda parte dell’articolo 32 vieta che i trattamenti sanitari siano forniti senza il consenso del paziente.

Questo articolo nasce per assicurare una protezione alla persona che in passato è stata oggetto di sperimentazioni e interventi sanitari che ne minavano in qualche modo la dignità, sebbene ritenuti all’epoca positivi.

Penso alla lobotomia, che riduce la persona nell’assoluta incapacità di autodeterminarsi. Gli interventi sanitari non possono, quindi, ledere la dignità della persona neppure a motivo di un interesse generale; anche in presenza di un interesse generale, l’intervento non è legittimo se c’è un sicuro danno per la persona: pensiamo, ad esempio, ad alcuni tipi di vaccinazione. Al centro di questo articolo c’è il consenso informato, un diritto affermato anche dalla deontologia e dalla Convenzione di Oviedo sulla biomedicina.

Come definiamo il consenso informato e cosa comporta la sua centralità nel nostro ordinamen­to?

Innanzitutto tengo a chiarire che è qualcosa di diverso dall’autodeterminazione terapeutica. Il consenso informato, infatti, ha un contenuto e una logica relazionale, che si fonda sul rapporto tra medico e paziente. È una manifestazione di volontà che deve essere attuale, non può essere puramente ipotetico, né astratto né programmatico; esige una valutazione della persona in riferimento alla sua condizione concreta e richiede anche un rapporto di fiducia con il medico.

Non è corretto, quindi, affermare che il consenso informato dia luogo a una situazione in cui il paziente abbia la sovranità assoluta di decidere e il medico sia ridotto a strumento di attuazione della sua volontà.

Ritiene che la proposta di legge sulle Dat rispetti questi principi?

Mi pare che nel dibattito attuale si sottolineino soltanto alcuni aspetti, trascurandone altri fondamentali. Il nucleo della proposta è l’impegno del legislatore a fornire il sostegno e garantire il diritto alle terapie anche nella fase terminale della vita. Inoltre la legge assicura che i trattamenti vengano forniti in base a un’espressione della volontà della persona e non siano rimessi a presunzioni o valutazioni generiche. La partecipazione del medico nella valutazione assicura l’effettività di questa garanzia.

Anche la Convenzione di Oviedo stabilisce che i desideri espressi su un trattamento medico in riferimento a quando la persona non sarò più in grado di comunicare «saranno tenuti in considerazione»; le indicazioni del paziente per il futuro non sono vanificate ma non sono neppure di per sé decisive; questo perché non sono contestualizzate, manca il rapporto immediato tra medico e paziente, manca un consenso attuale. La legge prescrive una serie di garanzie: non è obbligatorio redigere le Dat, hanno una valenza di 5 anni, e anche dal un punto di vista terminologico mi sembra più corretto parlare di dichiarazioni anticipate anziché di testamento biologico, che allude al fatto che le dichiarazioni assumeranno valore quando la persona sarà già morta.

Questa deriva terminologica nasconde un crinale molto pericoloso perché ci invita a distinguere tra vita degna e vita indegna, andando a contraddire il diritto alla vita di cui parlavamo all’inizio.

Alcuni sostengono che non abbia senso dare la possibilità di scrive­re una Dat se poi il medico può agire diversamente. Cosa ne pen­sa?

È vero che il medico può agire diversamente, ma non può fare quello che vuole perché la sua azione non può essere arbitraria.

La legge, infatti, da una parte segna il limite del divieto di accanimento e di interventi che non siano fruttuosi alla persona, dall’altro impedisce l’abbandono dell’assistenza alla persona. In questo spazio d’azione non rende irrilevante la volontà del paziente.

È vero che essa non è di per sé determinante quando è decontestualizzata e non ha come fondamento un consenso attuale e informato. Neppure il fiduciario nominato con la Dat può sostituire la volontà della persona. L’attualità e la concretezza sono elementi che caratterizzano il consenso informato e che sono stati affermati dalla giurisprudenza della Cassazione anche in sentenze di segno diverso rispetto alla sentenza Englaro. Ad esempio, la Cassazione ha ritenuto lecite trasfusioni eseguite sebbene la persona avesse lasciato scritto di non volerne. Le ha ritenute legittime perché il consenso della persona non era attuale. La Cassazione ha specificato che il dissenso alle trasfusioni avrebbe dovuto essere manifestato in modo espresso, attuale, inequivoco e informato. 

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