giovedì 31 marzo 2011

La norma? Nel segno del dialogo - di Claudio Sartea - l’osservatorio – Una «giusta» soluzione giuridica deve far incontrare la volontà del paziente con l’etica clinica del medico. E il consenso non può essere finalizzato a richieste letali - Avvenire, 31 marzo 2011

Anche il pudore ha una sua rilevanza civica. Nel dibattito che sta accom­pagnando da più di due anni l’elaborazione del­la normativa sul cosid­detto fine vita, anche gli autori più favorevoli al permissivismo avevano fino a po­co tempo fa preferito non sbilanciarsi tanto da par­lare apertamente di eutanasia. In tal modo, pote­va vantare qualche ragione chi accusava di preci­pitazione quanti sostenevano, in realtà a buon di­ritto, che una certa concezione del testamento bio­logico equivaleva all’introduzione legale dell’eu­tanasia in Italia. Ora però il ventre del cavallo di Troia si è spalancato e vengono allo scoperto mol­ti fautori espliciti dell’eutanasia. Una sincerità scon­certante dilaga: non si tratta già di dare dignità le­gale alle anteriori volontà del morente incoscien­te, ma di imporre a chicchessia, con la forza di un diritto sanzionato legalmente, una richiesta di mor­te.
Qui però viene fuori un dilemma, che affonda le proprie radici nel senso stesso del diritto e della norma giuridica. È difficile negare che l’orizzonte giuridico sia caratterizzato dal con­senso: secondo alcuni, più attenti alla sostanza del­le cose, un consenso sulla natura dell’uomo, che ne fonda e garantisce le giuste relazioni; secondo altri, più formalisti, un consenso su regole condi­vise che tutti s’impegnano ad accettare. In entrambi i casi, il consenso mira a un qualche bene: un be­ne comune che alimenti l’umana fioritura, nel pri­mo caso, o nel secondo caso più superficialmen­te un contesto ove sia possibile coltivare in pace il proprio interesse individuale. Siccome sembra dif­ficile convincersi che in generale il porre fine vo­lontariamente a una vita possa essere considerato un bene, ha qualche significato pensare a un con­senso mirante a essa? In altri termini: ha senso i­potizzare una norma legale che costringa qualcu­no a subire un’altrui volontà ritenuta ingiusta?


Chiaramente, casi di accordo tra paziente (e fa­miliari) e medico si possono sempre dare: sia nel senso «fisiologico», della richiesta/pro­messa di cura, sia in quello, che possiamo defini­re «patologico», della richiesta/promessa di mor­te. È agevole tuttavia supporre che non siano que­sti i casi bisognosi di disciplina legale, o tali da sol­levare contenzioso giudiziario. La regola giuridi­ca, se mai, viene invocata quando tale accordo manca: solo che l’orientamento eutanasico per na­tura propria spinge all’estremo la tensione deri­vante dal dissenso. Da una parte c’è il paziente, che indica le condizioni alle quali intende essere soppresso; dall’altra c’è il medico, che deve e vuo­le fare i conti con la sua scienza e la sua coscienza, e di conseguenza sa di non poter assecondare ri­chieste letali.
Sergio Cotta anni fa aveva già spiegato che tale situazione di tensione non può conoscere u­na «giusta» soluzione giuridica: una norma le­gale o attribuisce potere al paziente, così toglien­do libertà (e responsabilità deontologica) al me­dico, o attribuisce potere al medico, ridicolizzan­do l’autonomia del paziente e lasciandolo alla mercé del sistema sanitario. Anche da questo pun­to di vista la legge ha una sua plausibilità: nel ri­conoscere diversi princìpi dell’etica clinica più a­vanzata (consenso informato, alleanza terapeuti­ca, autonomia del paziente e dell’operatore, e co­sì via), stabilisce un vincolo di legittimità sui con­tenuti dell’azione medica e della richiesta di cura, mediante il divieto di sospendere la nutrizione ar­tificiale, che ha il preciso scopo di sconfortare i guerrieri che scendono a frotte dal cavallo di Troia. 

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