lunedì 7 marzo 2011

«Quando non c'è più nulla da fare, noi rendiamo la vita più intensa» di Raffaella Frullone, 07-03-2011, http://www.labussolaquotidiana.it

«Inguaribile non significa incurabile. Un paziente che non può guarire ancora di più ha bisogno di essere curato, anzi, quando non rimane più nulla da fare è lì che bisogna fare il lavoro più grosso, che non solo allevi il dolore del paziente, ma che prenda per mano e accompagni la persona nel cammino più difficile della propria vita». Sono le parole del dottor Marco Maltoni. Forlivese, 53 anni, sposato con tre figli, è specializzato in oncologia ma oggi dirige l'Unità Cure Palliative del Dipartimento Oncologico dell'AUSL di Forlì.

Dottore quale è il Suo lavoro di ogni giorno?
Dirigo la rete delle cure palliative dell’azienda di Forlì quindi lavoro in due Hospice che sono di fatto due strutture dedicate alla cura dei pazienti, oncologici e non solo, che sono in una fase avanzata della malattia e si trovano in una condizione di inguaribilità. Noi pratichiamo le cosiddette cure palliative ossia tutte quelle terapie che non concorrono di fatto alla guarigione ma alleviano dolori e sofferenza agendo sui sintomi ma soprattutto ci prendiamo cura in modo completo del paziente. Quando non rimane più nulla da fare dal punto di vista medico, ecco che per noi inizia un grande lavoro…

Come ci si prende cura di chi sta attraversando l’ultimo scorcio di vita, per giunta nel dolore?
Accogliendo la persona. Non si tratta solo di intervenire sui sintomi e alleviare il dolore, ma prendersi cura dell’organismo, sostenere la persona anche all’interno delle relazioni familiari. Noi ci prendiamo cura dell’intero mondo che gravita attorno ai pazienti, per questo sono convinto che le cure palliative dovrebbero essere parte integrante di diversi settori della medicina, non solo parte della fase terminale delle malattie gravi.

Quando si sente la parola Hospice ci si immagina spesso un luogo silenzioso, magari nella penombra, dove il protagonista è indiscusso è il dolore che precede la morte…
L’Hospice moderno nasce dall’intuizione dell'infermiera britannica Dame Cicely Saunders che descrive l’Hospice come “luogo di vita”. Certo che il dolore c’è, ma proprio perché noi lo affrontiamo il nostro reparto diventa un luogo dove la vita anzi, viene vissuta nella sua forma più intensa. Mi vengono in mente le vicende di due coppie. La prima è quella di Matteo e Maura. Maura è arrivata da noi in coma, il marito era distrutto. Una volta sistemata nella stanza sono arrivate le infermiere che, come sempre, hanno salutato Maura sorridendo, le hanno parlato e mentre la cambiavano e la accudivano spiegavano cosa facevano, si scusavano per i movimenti bruschi, Matteo è rimasto stupefatto, lui non aveva più parlato alla moglie da quando era in coma, da allora ha ricominciato a farlo con la naturalezza che aveva sempre avuto. Poi c’è la storia di Manuel e Daniela, che si sono sposati nel nostro reparto, prima che lei morisse, una storia che abbiamo vissuto tutti quanti e che ci ha commosso tantissimo. Manuel prima di andarsene  mi disse “Dottore, lei non ci crederà ma qui dentro abbiamo passato i nostri giorni più belli”. Ecco, accompagnare i pazienti e i loro familiari significa anche questo, lavorare sulle loro relazioni, la sofferenza spesso lascia emergere un’incredibile capacità di accogliere.

Che cosa risponde a chi dice che non ha senso curare, se non si può guarire…
Be’ innanzitutto dico che allora dovremmo lasciar perdere tutte le malattie moderne, specie quelle croniche. Poi dico che l’essenza della medicina è proprio il prendersi cura, dimenticarlo, o addirittura censurarlo significa snaturare la figura del medico e privare la terapia della parte di relazione, che invece è una componente fondamentale. Io lo vedo nel lavoro di ogni giorno, ma ci sono studi scientifici che raccontano di come spesso la qualità delle relazioni dei pazienti nella fase finale della vita sia notevolmente più intensa di come fosse prima della malattia.

Questo però non cancella la paura di fronte alla morte…
Certo che no. Tutto si gioca all’interno di due estremi: c’è il paziente che comunque vorrebbe posticipare il momento della morte il più a lungo possibile, c’è chi invece vorrebbe che quel momento giungesse velocemente. Sta a noi rispondere nel modo giusto a questi desideri. In ogni caso noi li aiutiamo a non scappare dalla paura e dal dolore.

Quando ha deciso di fare il medico avrebbe mai immaginato di trovarsi a lavorare con questi pazienti?
No, io ero un semplice oncologo, lottavo contro i tumori, lavoravo con i farmaci. La vita mi ha colto di sorpresa con un percorso diverso, che è stato la mia fortuna e la mia salvezza perché mi ha arricchito come medico e come persona. Essere in contatto con situazioni estreme e insieme così intensamente vive mi ha portato ad una presa di coscienza della vita e della professione che altrimenti non avrei avuto.

Se dovesse dire quale è la terapia essenziale per i suoi pazienti?
Nel “Quaderno delle Testimonianze” collocato nel salotto dell’Hospice, alcune frasi di pazienti e familiari rispondono a questa domanda: “di fronte al dolore altrui, qui nessuno è fuggito”; “siamo stati aiutati ad avere meno paura”; “sono state curate le ferite visibili e quelle invisibili”; “questo è stato difendere la vita e generare speranza”; “Giovanna mi ha lavato i capelli, Rubens mi ha fatto la barba”; “si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo altrui è carico di tenerezza”. Tornano alla mente le parole di Benedetto XVI “Lo sguardo che liberamente accetto di volgere all’altro decide della mia stessa dignità”.

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