giovedì 10 marzo 2011

Una «legge» c’è già: l’hanno scritta le sentenze - dati di fatto - di Ilaria Nava, Avvenire, 10 marzo 2011

Nel nostro ordinamento la Costituzione e il Codice penale vietano il suicidio assistito. Ma con questo quadro normativo si è ugualmente arrivati al verdetto Englaro. Una decisione «creativa» che afferma princìpi capaci di aggirare le norme più garantiste e di interpretare in modo errato quelle a favore della giusta libertà di cura. Ecco perché si deve disciplinare la materia in modo chiaro

I
Si dice che la legge sulle «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» in questi giorni in dirittura d’arrivo alla Camera non è necessaria perché per evitare l’eutanasia e l’abbandono terapeutico nel nostro ordinamento ci sono già delle disposizioni giuridiche. Secondo i sostenitori di questa teoria, infatti, una legge sul fine vita avrebbe come unica conseguenza quella di aprire a una deriva eutanasica il nostro sistema normativo. Inoltre – si dice – la legge, una volta approvata, renderebbe giuridicamente regolabile l’ambito del fine vita e potrebbe essere soggetta, in futuro, a modifiche in senso peggiorativo. È vero, nel nostro ordinamento esistono norme giuridiche che finora hanno regolato il consenso informato, la possibilità di rifiutare o interrompere una terapia, le richieste di eutanasia o suicidio assistito e la gestione dei pazienti non più in grado di esprimere il proprio consenso. Si tratta innanzitutto dell’articolo 32 della Costuzione, che afferma che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Poi c’è l’articolo del codice penale sull’omicidio del consenziente: «Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni»; quella sui suicidio assistito che punisce «chiunque determina altrui al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». l problema è che la sentenza Englaro è stata emessa con questo quadro giuridico di riferimento. Un insieme di norme che, forse, oggi richiedono un’esplicitazione, un chiarimento, una delimitazione di confini in modo chiaro e inequivoco. Si sono nel frattempo affermati altri principi nel nostro ordinamento, che aggirano le norme garantiste e interpretano quelle a favore della giusta libertà di cura e dell’autodeterminazione in senso eutanasico. Anche se il precedente ha un valore relativo, in assenza di legge i principi attualmente più significativi sono quelli stabiliti dalla Corte di Cassazione, che ha autorizzato l’interruzione delle cure «quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno» e contemporaneamente «che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona» (Cassazione, sentenza 21748/07) Non sembra fuori luogo, allora, che il Parlamento, più volte accusato da destra e sinistra di inerzia, abbia deciso di dare una risposta chiara attraverso la legge. Nel caso Englaro si sono accavallati i ruoli delle istituzioni, provocando inutili intrecci di competenze. Ad esempio, la Regione Lombardia il 3 settembre 2008 aveva emesso un atto di indirizzo per evitare che il personale sanitario «venisse meno ai propri obblighi professionali e di servizio» se avesse dato esecuzione al decreto che autorizzava il distacco di Eluana.


Davanti a questo tentativo della Regione di arginare la sentenza «creativa» della Corte d’appello, il Tar della Lombardia ha risposto annullando il provvedimento e affermando tra le altre cose che «l’alimentazione e l’idratazione artificiali con sondino nasogastrico integrano prestazioni poste in essere da medici, che sottendono un sapere scientifico e che consistono nella somministrazione di preparati implicanti procedure tecnologiche. Esse, quindi, costituiscono un trattamento sanitario, la cui sospensione non configura un’ipotesi di eutanasia omissiva, ma può essere legittimamente richiesta nell’interesse dell’incapace» (Tar Lombardia, sentenza 214/09). La stessa Corte d’appello aveva affermato nel decreto del 8 luglio 2008 che «in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola (…) che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica». Anche il ricorso presentato dalla Procura di Milano contro il decreto della Corte d’appello è stato giudicato inammissibile dalla Cassazione sezioni unite perché il caso non riguarda un «interesse generale e pubblico ma una tutela soggettiva e individuale» di Eluana.

conclusione della vicenda, la denuncia per omicidio dei Amedici che hanno proceduto al distacco del sondino di Eluana, è sfociata nella chiusura del caso in quanto, come affermato dal gip di Udine, i 14 indagati per la morte di Eluana Englaro avrebbero agito per «esercizio di un diritto» in quanto «l’ordinamento giudiziario non può da una parte attribuire un diritto e, dall’altra, incriminarne l’esercizio». Il magistrato ha dichiarato che «tutti gli indagati risultano non punibili per aver indubbiamente agito nell’ambito delle previsione legislativa dell’esercizio di un diritto».

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