giovedì 28 aprile 2011

«Attenti a una cultura che sostiene e approva ogni scelta individuale» di Bruno Dallapiccola, Corriere della Sera, 28 aprile 2011

L‘attuale dibattito riguardo la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat) non deve farci perdere di vista
il contesto nel quale esso si colloca. Se ciò accadesse, non riconosceremmo più i veri valori da affermare, e ci allontaneremo dalle persone che la legge vuol tutelare.
La questione principale, infatti, non e quella dello stato vegetativo persistente, né quella dei life sustaining treatment. I temi sostanziali sono quelli della tutela della vita e quello della relazione medico-paziente e, più in generale, della natura stessa dell'atto medico. Con un duplice rischio: affermare un giudizio sul valore della vita basato su un criterio puramente utilitaristico e sfruttare il principio del consenso informato e la doverosa lotta all'accanimento terapeutico per introdurre di fatto procedure eutanasiche.
Cosi, l'edonismo di matrice utilitarista rafforza l'opzione culturale secondo la quale, in nome dell’autonomia del soggetto, ogni scelta individuale debba essere sempre sostenuta e approvata, Le ricadute educative e sociali di un tale atteggiamento sono già ben percepibili in altri settori della vita civile e si può facilmente immaginare il cortocircuito logico, culturale e giuridico che produrrebbe un ulteriore e grave messa in questione del favor vitae. Non si tratta, dunque, di presidiare o invadere il fine-vita, ma di evitare che, a partire dal caso Englaro, si diffonda un giudizio di disvalore sulle vite più fragili, che finirebbe per causare l'abbandono delle persone gravemente disabili, povere socialmente meno tutelate.
Non bisogna dimenticare, poi, le profonde ripercussioni sul rapporto medico paziente generate dalla «crisi d'identità» della medicina clinica. Questa si ritrova oggi schiacciata tra l'utopia della medicina dei desideri e l'incongruità della medicina difensiva. Nell`una il paziente vede il medico come un tecnico al servizio dei suoi desideri o come un incapace, se non un nemico, quando non li realizza. Nell'altra il medico percepisce la diffidenza del paziente e anziché curarlo al meglio pensa a difendersi da azioni legali contro il suo operato.
In mancanza di una legge sulle Dat, il delicato crinale del fine-vita può far esplodere queste problematiche e snaturare l’atto medico. Ecco perché, pur essendo auspicabile un rapporto di fiducia e di alleanza tra il paziente, i suoi familiari e il medico, sorge la necessita di fissare alcuni punti saldi per garantire adeguatamente tutti i valori in gioco.
Benedetto XVI ci ricorda che «campo primario e cruciale del Ia lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale» (Caritas in Veritate 11.74). Il dinamismo della tecnica e la complessità del mondo del mondo moderno vanno governati se si vuol costruire il bene comune. La politica, dunque, nel promuovere lo sviluppo umano integrale, non può sfuggire al suo dovere di legiferare anche in campi precedentemente riservati al solo giudizio di coscienza. La legge sulle Dat appare un punto di equilibrio capace di difendere i più deboli e di chiarire la differenza tra causare la morte e accompagnare, indicando così a tutti che il valore della vita è il presupposto per la stabilità della società e per il godimento di ogni diritto individuale.

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