giovedì 28 aprile 2011

Avvenire.it, 28 aprile 2011 - Il «compleanno» di Angelo, abortito - Un anno un soffio di Lucia Bellaspiga

Oggi sarebbe un bambino di un anno. Lo avrebbe compiuto proprio il giorno di Pasqua, se la sua vita non fosse stata considerata un "errore", una svista, un increscioso incidente. Perché Angelo, venuto al mondo il 24 aprile di un anno fa, non era un neonato, era un aborto. Eppure, nato per "caso", piangeva e sgambettava come gli altri, almeno finché ha avuto fiato.

Accadeva all’ospedale di Rossano Calabro, dove Maria (nome d’invenzione) si era recata a interrompere una gravidanza già molto avanzata, troppo perfino per la legge 194, secondo la quale dopo tre mesi l’aborto è vietato a meno che per la madre non sussista un pericolo di morte o nel suo bambino non vi siano anomalie tali da costituire «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna». Se poi il feto è già così formato da poter avere vita autonoma, come ormai era Angelo, la legge restringe ancora più il campo: niente aborto se la madre non è in gravissimo pericolo di vita. E comunque dopo l’intervento quel bambino-a-tutti-gli-effetti va salvato.

Quale terribile anomalia, allora, aveva Angelo, se un medico del dipartimento di salute mentale di Cosenza ha valutato un «grave pericolo per la psiche» di sua madre? Anzi, poiché il piccolo, giunto alla sua ventiduesima settimana, poteva ormai avere vita autonoma anche fuori dal ventre materno, di cosa stava morendo la sua mamma, al punto da costringere i medici a sacrificare quel figlio ormai formato? Angelo aveva una palatoschisi, più nota come labbro leporino, imperfezione risolvibile con un piccolo intervento. Per quel labbro difettoso un medico con un colpo di penna lo ha declassato da figlio ad aborto, ed entro la sera del 24 aprile a «rifiuto speciale»: è tra gli altri rifiuti dell’ospedale che è stato dimenticato, in una ciotola di metallo gelato, e non più guardato nemmeno da chi – sempre per legge – avrebbe dovuto accertarne la morte, anzi, salvarne subito la vita. Lo hanno gettato senza un’occhiata, e lui in quella ciotola ha trascorso al freddo e al buio la sua prima notte sulla terra, senza sentire mai il calore di una mano o ricevere una goccia di latte. Per ventiquattr’ore ha pianto e sgambettato invano, come gli altri neonati fanno sotto gli occhi innamorati di chi li ha messi al mondo, finché a sentire il vagito non sono stati il cappellano dell’ospedale e una dottoressa. Inutile la corsa all’ospedale di Cosenza.

«Supponevamo una morte certa», si sono difesi i sanitari di fronte agli inquirenti, mentre i risultati dell’autopsia affondavano anche l’ultima speranza: se avesse ricevuto le cure attribuite a tutti i neonati prematuri, sarebbe vissuto. Ma Angelo non era un neonato, era soltanto un aborto.
Storia di un anno fa, d’accordo. Ma in questo tempo di Pasqua di Resurrezione, che è anche il suo compleanno, chiediamoci: in un anno che cosa è cambiato in Italia, il Paese in cui vige la legge 194, perché questo orrore non avvenga più? Si può almeno pretendere che la norma, comunque amara e triste, sia davvero applicata tutta? La comunità scientifica stabilisce che alla ventiduesima settimana le probabilità di vita nei bambini abortiti sono già buone e la Regione Lombardia nel 2008 decise di applicare la legge concretamente, indicando in 22 settimane e tre giorni il limite oltre il quale l’aborto è vietato se la vita della madre non è in estremo pericolo.

Ma alcuni medici hanno fatto ricorso contro l’atto della Lombardia, e in gennaio il Tar ha dato loro ragione (erano rappresentati da Vittorio Angiolini, il legale di Englaro per la morte di Eluana). «Il feto non soffre fino alla ventiquattresima settimana – ha sentenziato l’associazione Consulta di Bioetica, dando per scontato ciò che Angelo, con la sua morte lenta, sconfessa ancora oggi minuto dopo minuto –. L’autonomia del feto è una favola astratta costruita ad arte da chi opprime i deboli e gli svantaggiati...». Debole e svantaggiato, Angelo gridava inascoltato la sua caparbietà di vivere, e questa non è una favola.

Molti nostri medici ogni anno si recano in Africa a operare i bambini nati con palatoschisi, poi come prima cosa insegnano loro a fare le bolle di sapone, perché il soffio con il labbro leporino è un gioco impossibile. Angelo oggi avrebbe soffiato sulla prima candelina.

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