giovedì 28 aprile 2011

Ungheria, aborto «danno sociale». Per Costituzione - Dietro il testo appena approvato la piaga delle interruzioni forzate di gravidanza imposte dal comunismo - di Giovanni Bensi, Avvenire, 28 aprile 2011

Una delle materie più controverse nella discussione sulla nuova Costituzione ungherese è il divieto di aborto, la difesa della vita «a partire dal feto». Questo atteggiamento è stato visto e denunciato dai sostenitori dell’aborto come un «attentato ai diritti della donna», come il prodotto di un «rigurgito clericale» che farebbe arretrare il Paese «al Medioevo». Certamente all’origine del rifiuto dell’aborto vi è l’imperativo di una coscienza cristiana, ma l’atteggiamento intransigente è dovuto anche alle caratteristiche sociali di Paesi come l’Ungheria ed altri dell’Europa orientale, che hanno dovuto subire la politica distorta dei regimi comunisti, dove l’aborto era praticamente quasi la sola forma conosciuta di contraccezione. È semplicemente l’esigenza di riparare a un danno sociale che spinge l’Ungheria alla severità verso l’aborto.
Secondo uno studio demografico ungherese, il numero degli aborti procurati in Ungheria è tre volte più alto che nei Paesi dell’Unione europea nel loro complesso, mentre «negli ultimi 100 anni lo sviluppo familiare in Ungheria ed Europa occidentale aveva mostrato tendenze simili».
Poco dopo la presa del potere da parte dei comunisti, nel 1949, il numero degli aborti era ancora limitato: 1.600 all’anno. Esso andò poi crescendo, anche come una via, per quanto illusoria, di ovviare alla condizioni di miseria in cui viveva la popolazione, fino a raggiungere gli 82.463 casi nel 1956, l’anno della rivolta antisovietica. Dopo la sua repressione, il nuovo regime di János Kádár liberalizzò ulteriormente l’aborto di cui un anno dopo, nel 1957, si ebbero subito 123.400 casi. E questo dato continuò ad aumentare fino al 1969 quando si ebbero 206.817 aborti.
Poi incominciò la discesa fino ai 43.200 casi del 2009. Ma una ricerca del «Programma nazionale di ricerca e sviluppo» ha mostrato che ancora oggi il 40% dei feti concepiti in Ungheria vengono abortiti e che la popolazione ungherese è in calo dal 1981. Una situazione che anche da un punto di vista laico richiede una stretta di freni. Questa situazione ha una corrispondenza nella maggior parte degli altri Paesi ex comunisti, a cominciare dalla stessa Russia. L’Unione Sovietica è stata il primo Paese a legalizzare l’aborto nel 1921. Un’iniziativa vista come una vittoria delle donne nella lotta per la loro liberazione secondo i dettami del marxismo-leninismo.
Ancora oggi, a 20 anni dalla caduta del comunismo, ha accertato Vladimir Kulakov, direttore del Centro scientifico russo di ostetricia e ginecologia, il 60% delle gravidanze in Russia termina con un aborto. Solo la Romania, fra i Paesi ex comunisti, ha più aborti pro capite.
Inoltre circa 6 milioni di donne russe sono sterili (su 38 milioni di donne in età atta a generare) e la autorità sanitarie ritengono che i reiterati aborti siano una «causa importante» di sterilità. Secondo Kulakov, il numero delle donne sterili è destinato a crescere, poiché circa uno su 10 aborti viene compiuto su giovani con meno di 20 anni. I dirigenti russi, il presidente Dmitrij Medvedev in primo luogo, lamentano il costante decremento demografico della Russia: anche questo Paese avrebbe bisogno di una stretta sugli aborti secondo il modello ungherese.
Statisticamente la Romania, il Paese colpito da una delle più dure varianti di comunismo, quello di Nicolae Ceausescu, ha il più alto indice di aborti nel mondo: attualmente 3 gravidanze su 4 terminano con un aborto. È difficile raccogliere dati accurati perché l’aborto è così facilmente accessibile in tutto il Paese, in cliniche sia di Stato che private, ma solo gli ospedali di Stato riportano i dati statistici sull’aborto. In Romania, una nazione con 23 milioni di abitanti, si calcola che vi siano circa 800mila aborti l’anno. Se questa proporzione si applicasse agli Stati Uniti, si arriverebbe a ben 8,5 milioni di aborti all’anno.

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