Isimbaldi: «Serve una nuova cultura medica» di Raffaella Frullone, 03-03-2011, http://labussolaquotidiana.it
«Prendersi cura include la libertà di affezionarsi al paziente e scegliere la migliore terapia farmacologica, insieme all’insostituibile terapia relazionale. Se una persona si sente amata, non desidera la morte. C’è bisogno una nuova generazione di medici, più che di una legge». Così l’associazione Medicina e Persona si esprime in merito al provvedimento legislativo relativo al testamento biologico che tra poco sarà nuovamente discusso. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Clementina Isimbaldi, presidente dell’associazione.
Perché dite no alla legge che il 7 marzo sarà discussa in aula alla Camera?
L’esperienza ci porta a farlo. Io personalmente sono un medico pediatra e posso assicurare che mai, anche in presenza di patologie molto gravi, ci viene chiesto di sopprimere la vita di un figlio pur sofferente che sia. E la dinamica si ripete con gli adulti, è difficile che una persona che si sente amata chieda di morire, per questo diciamo no ad una legge che regolamenti il fine vita. Possiamo già contare su strumenti pofessionali e legislativi che ci mettono in grado di valutare il meglio per ogni paziente .
Nell’editoriale che avete scritto qualche giorno fa sottolineate l’importanza della formazione dei medici, per quale ragione?
Non c’è altro modo di salvare tante Eluana se non attraverso maestri che riprendano a formare medici amanti della propria professione perché capaci di amare il proprio destino e il destino di chi è loro affidato. Soltanto con la formazione potremo lottare contro la diffusa mentalità che la vita fragile e indifesa sia indegna di essere vissuta.
Secondo voi questa legge rischia dunque di mettere a protocollo l’atteggiamento del medico di fronte al malato?
Certo, ed è l’inizio di un contezioso quotidiano tra chi assiste e cura e il fiduciario. Non solo, sono aberranti le conseguenze pratiche di un provvedimento del genere. Provo ad immaginare di trovarmi di fronte ad un paziente nella fase finale di una malattia degenerativa, o gravemente disabile, o con le funzionalità gravemente compromesse dopo un incidente… ecco che arriva e io sarei tenuta a chiedere “Ha compilato le dichiarazioni anticipate di trattamento? Ce le ha qui o le ha affidate a qualcuno? Questa persona è rintracciabile? Si ricorda cosa c’è scritto?” E non è tutto, a quel punto un medico potrebbe sentirsi in qualche modo sollevato dall’incarico di valutare il quadro clinico e prendere le decisioni opportune. Il documento avrebbe più valore di una diagnosi, ce lo dimostra la letteratura medica dei paesi in cui questo tipo di leggi sono già in vigore, e noi non possiamo permettere che accada anche in Italia, non possiamo permettere che siano i cattolici ad appoggiare questo provvedimento perché è chiaro che in qualche modo sarebbe soltanto l’anticamera dell’eutanasia.
Qualcuno potrebbe tuttavia obiettare che in questo modo si limita la libertà, che chi vuole rinunciare alle cure ha il diritto di poterlo fare…
Chi vuole determinare la propria morte o quella di un parente purtroppo lo può fare comunque, attraverso i giudici che modificano l’assetto legislativo, ma la nostra esperienza ci racconta che è sempre il desiderio di vita a prevalere. Desidera morire chi sente una profonda solitudine, chi si sente un peso, chi si sente abbandonato. Il desiderio di morte in realtà è solo un grido rivolto a chi si vorrebbe vicino nell’affrontare il calvario della malattia. In questo noi medici giochiamo un ruolo fondamentale un conto è dire a un paziente “lei soffrirà moltissimo, sarà straziante, oppure suo figlio, sua moglie, suo marito soffriranno tantissimo e probabilmente non sarà cosciente”, un altro è dire “sarà una battaglia difficile ma la affronteremo insieme, ci sono dei modi per alleviare il dolore”, mai di fronte a queste parole ho ascoltato richieste di morte.
Fare il medico significa ancora prendersi cura del paziente, eppure secondo voi si rischia di dimenticarlo...
Prendersi cura include la libertà di affezionarsi e scegliere la migliore terapia farmacologica, insieme all’insostituibile terapia relazionale. Il che non significa proporre o mettere in atto delle terapie ragionevolmente inefficaci a tutti i costi ad un paziente nella fase finale della sua vita, ribadisco che noi non siamo per l’accanimento terapeutico, e sottolineo inoltre che un buon medico sa sempre quando fermarsi. Non solo, rimarco che tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia ci stanno di mezzo due persone, il medico e il paziente, e una relazione autentica tra i due non può condurre in nessun caso verso il desiderio di morte.
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