lunedì 11 marzo 2013


CULTURA - 11/03/2013 - Julian Barbour, l’uomo che ha ammazzato il tempo - http://www.lastampa.it


Uno dei famosi “orologi molli” di Salvador Dalì

Incontro con il fisico britannico
che è andato oltre Einstein
“Il mondo è eterno, parlare 
di prima e dopo non ha senso”

CLAUDIO GALLO
CORRISPONDENTE DA LONDRA
E’ una scala di grigi la campagna inglese, le case galleggiano incerte nella foschia, piove. L’orologio sembra essersi dimenticato di South Newington, villaggio dell’Oxfordshire settentrionale: accanto alla chiesa normanno-gotica di Saint Peter ad Vincula c’è la grande casa contadina a tre piani del 1689 dove abita Julian Barbour, il fisico teorico che non crede all’esistenza del tempo. 

Settantasei anni, alto e dritto apre la porta: gravità e ironia bisticciano sul suo sorriso. Ha studiato matematica a Cambridge, fisica a Monaco ma non ha fatto il professore, ha preferito restare indipendente. Il suo libro più noto, La fine del tempo, è pubblicato in Italia da Einaudi. 

Nel tepore della cucina la moglie tedesca Verena, gravemente malata di Alzheimer, è seduta in poltrona. Nella sala, davanti a un grande camino dove il fuoco scoppietta, cerca di tradurre in parole semplici la sua teoria. È successo, spiega, che la nostra immaginazione non è più capace di stare al passo con la fisica moderna: del mondo probabilistico della meccanica quantistica sembra impossibile farsi un’immagine intuitiva. Così, dire che il tempo non esiste è evidentemente contro ogni buon senso. 

«Al livello più elementare, sostengo che il tempo non esiste perché non si può osservare. Tutto ciò che è possibile vedere sono le cose che cambiano. L’aveva già detto Lucrezio: “Nemmeno il tempo sussiste come entità, sono le cose stesse a creare il senso di ciò che è trascorso”. Noi vediamo che le cose cambiano in modo coordinato e l’orologio ce lo conferma. Ma costruire orologi precisi non fu affatto facile in passato. A riuscirci fu Christian Huygens, scienziato olandese nel XVII secolo. Anticamente il tempo era calcolato sull’orbita delle stelle perché il sole non era considerato attendibile, a causa, si scoprirà poi, dell’ellitticità dell’orbita terrestre, e dell’inclinazione del suo asse di rotazione. La vita degli uomini andava con il sole, quella degli studiosi con le stelle. Il pendolo di Huygens, di Galileo e di Newton era sincronizzato col tempo siderale». 

Fu Newton, attivo quando fu costruita la casa dove oggi stiamo parlando, a dare una fondamentale descrizione del tempo come qualcosa che fluisce indipendentemente dalle cose. «Shakespeare - ricorda ironicamente Barbour - fu più accorto, non cercò di definire il tempo ma ne descrisse gli effetti nel secondo sonetto: “Quaranta inverni al tuo bel incarnato / in guerra di trincea daranno assedio / sarà il tuo manto, fiero e invidiato / lacera veste senza più rimedio…”». 

Per farsi meglio capire, Barbour prende la coppia di triangoli di legno che adopera nelle sue conferenze. «Per spiegare il cambiamento basta una varietà di forme. Supponiamo di avere soltanto tre corpi nell’universo, tre particelle. Muovendosi, in ogni configurazione formano un triangolo diverso: è tutto ciò che possiamo dire, non ci sono altre informazioni, non c’è modo di dire quanto tempo passa tra due configurazioni. Questi istanti sono ciò che chiamo “adesso”. Si può vederla come una successione ma non necessariamente tra un prima e un poi, tutto è potenzialmente qui, ora, non c’è una direzione necessaria come nel nostro tempo intuitivo. L’eternità e l’istante sono i due estremi e anche la stessa cosa». 

Non a caso Barbour ha chiamato il suo mondo delle forme Platonia. Anche lui come Platone è convinto che l’essenza della realtà è geometrica. «Possiamo dire con il filosofo ateniese che il mondo dal quale nasce la percezione del tempo è eterno. Chiamo la parte più recente delle mie ricerche ”dinamica delle forme”».  
Lo studioso ama trarre i suoi esempi dalla dinamica di Newton, che si basa su un piccolo numero di «condizioni iniziali» e da questi dati può ricavare tutta la storia del sistema.  

«Da questo punto di vista non si può dire che il passato determini il futuro tanto quanto che il futuro determini il passato. È un grande mistero il fatto che la legge funzioni in entrambi i sensi. Anche se per noi sembra esserci una chiara direzione verso il futuro che lega le cose con un senso comune incontrovertibile». Semplificando, possiamo dire che l’origine dell’universo, spiegato dalla fisica tradizione con il Big Bang, coincide nella Dinamica delle Forme col triangolo equilatero, la massima uniformità possibile.  

Anche se Barbour non si spinge a fare paragoni, la sua fisica ricorda il buddismo, dove la percezione del mondo è condizionata dall’accumulazione dei ricordi che si cristallizzano in un io fittizio, tutto è un gioco combinatorio di rapporti tra forme, nulla esiste per sé. Il mondo descritto da Barbour ricorda poi quello di Spinoza dove ogni cosa partecipa del tutto. «Schroedinger, uno dei padri della teoria dei quanti, credeva che l’universo fosse cosciente. Questo ovviamente è molto poco scientifico ma lo credo anch’io. Il fisico che mi ha influenzato di più resta comunque Ernst Mach, con la sua idea che la grandezza dell’universo è un concetto senza significato. Lui, Dirac, York e Wheeler mi hanno fatto capire che il tempo relativo di Einstein non è il modo migliore di descrivere le cose».  

Eppure un giorno morirò, pensa la gente davanti alla negazione del tempo. Che cos’è la morte? «È solo un altro adesso, la sequenza continuerà con la decomposizione del corpo». E poi? «Non c’è un poi, è tutto qui adesso in Platonia. Prenda la sequenza dei numeri: è ridicolo che il 17 dica che l’8 è morto solo perché è venuto prima». 

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